Ilaria Guccione, Il turno (Palermo, dicembre 2013) |
Ogni volta che si trova uno sfruttatore bisogna schiacciarlo. Ma che vuoi schiacciare, tenerezza mia, più ne schiacci e più ce ne sono. E va bene, ma forse bisogna schiacciarli lo stesso.
(Giorgio Scerbanenco, da: Venere Privata)
E’ un arrampicarsi molesto di parole quello che cerca di sfiatare una storia maldestra e spacciarla per buona, ci si sfilaccia rapidi la trama del senso e sopravvive solo un cattivo ordito nel ricordo, di quelli buoni per le vendite di fine stagione o magari d'inizio. L'unica certezza, signora mia, è che la mezza non esiste più e quindi s'organizzi il portafogli e le uscite di conseguenza.
E vai a capirci poi qualcosa, se è valso più un addio slabbrato o un incontro quasi mancato, la fede cieca nell’attesa, il capo chino nei giorni della resa, la voglia folle di scappare o il desiderio onesto di sparare.
L’uomo a due passi da me puzzava d’alcool e di ricordi e la sua storia la ripeteva a chiunque incontrasse per strada perché aveva paura che lei lo lasciasse lì da solo senza un ultimo tenero saluto, ché alle spiegazioni aveva rinunciato da tempo e vai a sapere quanto, che ci beveva su per non doverci far di conto.
Ma cosa vuoi che ti dica più di quel che non ti ho detto, è una strada persa in uscita di voce, un giocarsi l’anima a dadi truccati, un cercare di uscirne vincenti, un continuo barare sul turno, che a rispettarlo sempre son solo io che ti rimango indietro.
E’ un invito continuo a cercar di sfiorare qualcosa che, arrivati al momento del soldo, mi rimane da portar via soltanto un impagabile ricordo che mi oscilla in peso tra le mani e il non saper più dire.
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