Spider-Boy

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martedì 8 gennaio 2013

La fortuna è una questione da marciapiede

Ilaria Guccione, Un marciapiede qualunque (Palermo, 2013)


 
Gabor: Ora le racconto una storia. Tanto tempo fa abitavo in una strada dalla parte dei numeri pari, al 22. E guardavo dalla finestra i numeri dispari, le case di fronte. Perché credevo che la gente che ci viveva fosse più felice, che le stanze fossero più luminose, che le serate fossero più allegre. Ma le camere erano buie, le stanze più piccole. E i numeri dispari guardavano quelli di fronte.
Perché… pensiamo sempre che la fortuna sia ciò che non si ha.
Bene, l’aspetto alla stazione. Se non la vedo, capirò che c’è andata.
Adèle: Andata dove?
Gabor: A vedere se di fronte è meglio.
(Da: La ragazza sul ponte, Patrice Leconte)

La ragazza sul ponte pensò che fosse tempo di lasciare quella sua sala d’attesa ricolma di incontri altrui, in cui rimaneva seduta aspettando che le succedesse finalmente qualcosa. Decise di  buttarsi nella Senna. E se avesse incontrato non un lanciatore di coltelli ma un gatto? Sarebbe stata una fortuna o no? Si sarebbe tuffata ugualmente? Di sicuro il gatto non l’avrebbe seguita. Di sicuro non ci sarebbe stato nessun film, un gatto si salva da solo. La ragazza e il lanciatore di coltelli invece avevano bisogno di incontrarsi su quel ponte di Parigi per salvarsi a vicenda.
La fortuna in fondo è una questione da marciapiede. E dicono che io lo sbagli sempre: ogni volta che mi chiedo se attraversare o rimanere incontro qualcuno che mi condanna perché ho scelto il marciapiede sbagliato, ché mi sono persa qualcosa su cui tutti gli altri si sono subito buttati. Io però continuo a fottermene e cammino e mi ripeto che non tutti i marciapiedi vengono per nuocere. E intanto mi è già cambiata la canzone e anche la strada.
Anche trovarsi una cura alternativa alla malinconia è questione da marciapiede. Ognuno offre  i suoi metodi di strada in strada: c'è chi sottrae, c'è chi aggiunge e chi non sa e rimane ad ascoltare. Non salva mai la quantità, conta l'indovinare la molecola e il tempo.
E poi ci sono le eccezioni sotterrate per eccesso di stupore che a turno fai rimare con terrore o rancore. E’ la necessità superflua del gioco, l’ostinazione del giocatore che persegue regole malintese. E ti ritrovi di nuovo a camminare sulle mani mentre trattieni il fiato o ciò che più gli somiglia e rischi di perderti il passo, l’ora e il marciapiede. 
E continuando ad andare c’è la solita solitudine da sillabare usando lettere per rime improprie. E no che non te la chiedo neanche una sigaretta e il marciapiede lo sbaglio con precisione da sempre. E allora tu non ci pensare, ché i miei pezzi sulle scale me li calpesto da me, con infinita premura. Non ci pensare, che io continuo ad andare. E se non sai la canzone, non provare neanche ad attraversare.




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