Ilaria Guccione, I muri parlano (Palermo, 2013) |
C'era un muro grande grande che girava tutt'intorno e
mucchi di bambini a rincorrersi nel pomeriggio tra un pallone e il
nascondino e un due tre stella e vai a contarti i passi indietro che
ogni passo di gambero ti pesa come una condanna, ché non sei stato
rapido, ché non sei stato attento. E poi tutte quelle improbabili belle
statuine che ti passava la voglia di star fermo e allora si tirava
fuori di nuovo il pallone per aria.
Dall'altra parte di quel muro, la
ragazza che da troppo tempo non era più una ragazza ordiva trame di
ricordi sul suo cuore dimesso. Avrebbe voluto liberarsi ma la vita le
doleva come un peso. E tutti quegli istanti fatti di un tempo di
inesausto dolore tentava di ricacciarli giù come pillole necessarie per
sfilacciare ogni possibile male. E allora eccola a raccontarsi di nuovo
una storia. E fili di seta e canapa in intreccio di parole. E lacrime e
sguardi lontani a farsi sentiero.
Si offriva
alla finestra. Indietreggiava, ché non c’era nulla da guardare, nulla
che valesse la pena di essere guardato: non trovava il suo riflesso sul
muro. Lui non glielo avrebbe dato neanche in prestito, neanche per pietà
distratta. Pensiero per pensiero, i suoi pensieri a farsi tremito
nell’immobilità arida della sera.
Ed ecco poi
quel bambino all'improvviso, quello che non giocava mai con gli altri.
Che preferiva provare a chiarirsi i pensieri e sporcarsi le mani sul muro. In
quei giorni che mamma diceva: vai a giocare in cortile. In quei giorni
che c'era tutto quel gridare in casa che lui lo sentiva lo stesso. E
allora disegnava qualcosa che solo lui sapeva, dall'altra parte del
muro. Amori in contrabbando, segnali di rivolta. Graffiare un muro per
non piangere.
Un giorno lei scese e gli chiese:
che fai? Disegno una storia, disse lui. Cosa disegni? Disegno i rumori,
rispose. Poi torno a casa per cena. Per cena papà ci vuole bene.
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