Ilaria Guccione, Il broncio (Palermo, gennaio 2013) |
Di una città che non dirò. Di una via che non so. Di una donna di spalle che parla da persiane che le socchiudono i pensieri. Di quelle sue parole difficili come ripetere da un copione una battuta semplice che ci provo anch’io ma mi vola via dalla finestra aperta e mi rimane nostalgia. Di lui che non capiva come lei potesse avere nostalgia di qualcosa che non aveva mai avuto. E’ che a volte tra il pensare e poi il dire. Pausa. E’ che a volte tra il dire e poi il fare. Attesa. Di lei che quella volta lì poi non è tornata. Di lei che allora forse lì non è mai stata. Questione di luce cattiva che vira al buio. Di messa a fuoco distratta dall’esitazione delle dita. A volte ci avanzano appena inquadrature ingannevoli nel ricordo.
Ma sì che lo dico. La città è Roma, l’anno il 1962. Lei è Vittoria/Monica, lui è Piero/Alain. Un film. L’eclisse di Antonioni.
Oggi. Palermo, alla Kalsa. Io mi avvicino e lei toglie il ciuccio. Mi fissa e mantiene il suo broncio ad ogni scatto. E per un attimo mi sembra quasi di sentirla, quella battuta: “Io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene e poi forse non bisogna volersi bene.” Ma lei forse neanche lo penserà mai, le mancherà il tempo. Travolta dai giochi per strada, la scuola forzata e una maternità bambina. Io invece penso troppo, anche a tempo scaduto. Ci diciamo ciao con la mano, me ne vado e mi pare che in quel silenzio inframezzato da urla dell’ora di pranzo e odore di sugo mi accompagni un twist. Ma è la mia solita eclisse del cuore che mi accompagna ad ogni passo.
Brava Tessitrice d'incanti...
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