Ilaria Guccione, Ho bisogno di silenzio (Palermo, 2013) |
Fermarsi ogni tanto. Per riascoltarsi, correggere una parola, cancellare qualche frase. Aggiungere un paio di virgole, rafforzare qualche sillaba oppure non cambiare neanche un punto. Per riconquistarsi la vecchia velocità, per ricordarsi di cambiare strada e compagnia e negare un saluto, che ne hai già di nuovi in tasca da regalare. Roba che tu ormai te la sogni. Ché intorno si obbedisce alla fretta, che se non lo fai la gente
ti condanna per quel paio di minuti che stai fermo ed è già scattato il
semaforo. Come se fosse l’unica luce ammessa. E l'unico senso permesso: l'attraversare tutti insieme.
E intanto si fa per fare, per riempire spazio e calpestare tempo secondo il modo degli altri, quel tempo che sa di buco nero e
neanche te ne accorgi che ormai ci sei dentro, ti hanno spento la luce e un buio vale l’altro.
Con tutte quelle prefiche che con questo buio vanno a nozze. Che assoldandosi da sé
blaterano sfacciate omelie, scambiando il pisciare fuori dal vaso col demarcare
un territorio come proprio: è il pensare becero che abbrancare un perimetro dia
diritto a invaderne l’area, vivaddio prigioniera solo di sé.
E magari te ne accorgi anche tu. Prova a riaccendere la luce, cercati l'interruttore, è in quella parte della testa che hai scelto di chiudere a chiave.
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