Ilaria Guccione, Il gioco delle oche (Palermo, 2013) |
"E' in questo silenzio dei circuiti che ti
sto parlando. So bene che, quando finalmente le nostre voci riusciranno
a incontrarsi sul filo, ci diremo delle cose generiche e monche, non è
per dirti qualcosa che ti sto chiamando, né perché creda che tu abbia da
dirmi qualcosa. Ci telefoniamo perché solo nel chiamarci a lunga
distanza, in questo cercarci a tentoni attraverso cavi di rame sepolti,
relais ingarbugliati, vorticare di spazzole di selettori intasati, in
questo scandagliare il silenzio e attendere il ritorno d'un'eco, si
perpetua il primo richiamo della lontananza, il grido di quando la prima
grande crepa della deriva dei continenti s'è aperta sotto i piedi d'una
coppia d'esseri umani e gli abissi dell'oceano si sono spalancati a
separarli mentre l'uno su una riva e l'altra sull'altra trascinati
precipitosamente lontano cercavano col loro grido di tendere un ponte
sonoro che ancora li tenesse insieme e che si faceva sempre più flebile
finché il rombo delle onde non le travolgeva nella speranza."
(Da: Prima che tu dica "pronto", Italo Calvino)
E quel provare e riprovare a chiamarti per nome. E com'è che non rispondi, non mi senti? Eppure ho urlato, eppure il tuo nome l'ho imparato per bene e me lo ricordo, lettera per lettera. Certo che non mi senti, ti sto parlando ma non ti chiamo. Certo che non mi rispondi, è tutto un brutto sogno. Qualcuno -io- è caduto per strada, in una buca senza fondo. Qualcun altro -tu- mi è passato accanto senza fermarsi a guardare né tendere una mano.
Al risveglio penserò che ci sia accaduta una cosa tremendamente importante di cui dirò di non ricordarmi niente per non dovertela raccontare. Una scusa come un'altra per porre fine a una conversazione che non è mai iniziata. Ché la scusa dei gettoni inghiottiti e finiti non vale più, in questi tempi in cui si gioca in assenza di fili tra distanze di tempo e spazio. Ed in assenza di tanto altro.
(Da: Prima che tu dica "pronto", Italo Calvino)
E quel provare e riprovare a chiamarti per nome. E com'è che non rispondi, non mi senti? Eppure ho urlato, eppure il tuo nome l'ho imparato per bene e me lo ricordo, lettera per lettera. Certo che non mi senti, ti sto parlando ma non ti chiamo. Certo che non mi rispondi, è tutto un brutto sogno. Qualcuno -io- è caduto per strada, in una buca senza fondo. Qualcun altro -tu- mi è passato accanto senza fermarsi a guardare né tendere una mano.
Al risveglio penserò che ci sia accaduta una cosa tremendamente importante di cui dirò di non ricordarmi niente per non dovertela raccontare. Una scusa come un'altra per porre fine a una conversazione che non è mai iniziata. Ché la scusa dei gettoni inghiottiti e finiti non vale più, in questi tempi in cui si gioca in assenza di fili tra distanze di tempo e spazio. Ed in assenza di tanto altro.
Così crepa la notte, mentre t’annodi il fiato, per fingere
ostinato di non conoscere vento. Così mi uccidi, ostentando cattiva memoria e
silenzio. (Resta sempre qualcosa in agguato: l’istinto del volo ad ala spezzata, la dolorosa meraviglia
dell’alba.)
Cos'è però tutta questa distanza che continua ad urlare qualcosa? E' davvero quell'ordito che regge la trama di ogni storia d'amore e di ogni relazione tra chi è dotato di respiro, come scriveva Calvino? O è piuttosto una ragnatela sottile sottile che ti arriva antipatica all'improvviso sulla faccia e, pur di negare la coincidenza dei pensieri miei coi tuoi, tenti di farla a pezzi con un colpo deciso delle dita per non ritardarti quell'appuntamento che hai preso per cena a due passi da casa? Fai pure ma cerca almeno di ammazzare il ragno. Per non sentire più quell'eco che ritorna, portando con sé ogni richiamo possibile da tutta questa lontananza.
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