Ilaria Guccione, Con un grido non arrivato in superficie (Palermo, 2013)
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Ricordo bene quella paura infantile.
Scansavo le pozzanghere,
specie quelle recenti, dopo la pioggia.
Dopotutto qualcuna poteva non avere fondo,
benché sembrasse come le altre.
(W. Szymborska, da: La pozzanghera)
Non c'era tempo da perdere, ancora qualche passo e quei due l'avrebbero visto, riconosciuto, inchiodato sull’asfalto, bombardato con frasi tratte dal copione del “ma che combinazione, parlavamo di te proprio ieri” e infine crocifisso ai soliti ingiusti punti di domanda. E lui di risposte non ne aveva, non che non ci pensasse ogni giorno, vabbè un giorno sì e due no, ché c'era da lavorare, veder gente, scegliere il vestito buono per la festa, ma erano passati anni e ancora non era riuscito a trovarne per sé di risposte, figuriamoci per gli altri. Per lui era già troppo essere in debito con se stesso, interrogarsi e rimandarsi il tempo per un'assoluzione o una condanna. Nessuna traversa a portata di piede. Quel dannato semaforo rosso alle sue spalle.
Non gli restò che tuffarsi dentro quell'enorme pozzanghera, unico ricordo di un recente temporale di fine estate, capovolgersi il senso e la figura. Gli si sospese ancor di più il tempo, e certo che ora ne aveva a volontà per pensare, ma se lo spendeva tutto nell'attesa della pioggia, per poter guardare -non visto- tutta quella gente passargli accanto tentando in ogni modo di schivarlo.
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