Ilaria Guccione, Facce (Palermo, dicembre 2013) |
E' che si può amare da morire ma poi, per non morirci troppo su, si può andar via con un saluto malamente sillabato e tracce di un sorriso che sa già di assenza sul selciato. Con quella stessa fretta di quando ci si alza all’alba, che c’è il lavoro che ti aspetta e si ha giusto il tempo lento di un caffè, un occhio ce l’hai ancora chiuso e l’altro è aperto chissà su che e già si corre via a farsi prendere da un treno o da un tram.
E’ un non luogo a procedere in distanza, un dichiararsi ingenuamente arresi che già sa di smisurata lontananza.
Io di treni ne ho sognati e presi e attesi tanti ma mai nessuno che mi abbia riportato il tuo viso e quel tuo andare rapido per via e quel tuo sguardo tiepido e obliquo come il cielo delle cinque. E allora, per ingannarmi il tempo, ho contato biciclette a passeggiare donne per la piazza ed io a girarci intorno, come se fossi solo io quella dal cuore infranto e dalla mezza faccia pazza.
E la faccia tua dove l’hai lasciata, mantieni ancora quella buona per il saluto del mattino mischiato al dentifricio del mezzo sorriso e quella della buonanotte che sa di lenzuola e noia e quella armata di chissà cosa per la rivoluzione da cantarsi al primo domani che si può, al primo concerto che si dà?
Io mi trattengo ancora la faccia impressa nell’ora indefinita del cuscino che non so più che farne, se rivoltarlo di parole o soffocarlo di silenzi e intanto ci rimango, occhi aperti sul silenzio della notte, ad aspettare nuovamente il giorno.
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