Spider-Boy

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lunedì 28 luglio 2014

Pene, mare e fantasia


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Ilaria Guccione, Vasata fa rima con taliata (Palermo, giugno 2013)
 
A respirarlo, tutto questo mare. 
A perdersi il pensiero all’orizzonte e ad affogarci gli anni per farli decantare. 
A recitarci sopra una preghiera stramba che non conosce santi, vorrebbe solamente miracolare ancora incanti.
A stender desideri bagnati controvento, senza aspettarsi arida eco di un rimbrotto o scoppio di un lamento. 
A regger sogni prima di ogni volo. Ad essere capaci di liberarli senza nessun dolo.
A far di ogni bisticcio allegra confusione, ché non esiste torto se non c’è ragione.
A dichiarar la pace contro ogni urlata guerra, a perdersi di rotta e guadagnare finalmente terra.
M’accorgo che è già l’ora di rientrare, che il tempo che è passato non lo puoi più fare approdare.


giovedì 17 luglio 2014

Luglio, Palermo che ti sfoglio


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Ilaria Guccione, Luglio (Palermo, luglio 2014)

Sono giorni che in fondo qui non ci si lamenta di niente. Il caldo è sopportabile, di morti eccellenti non ce n’è. Il fetore della munnizza ci solletica l’olfatto in punta di sacco. Accatastiamo malcontenti per rimanere fermi. Sono anni che qui ci si lamenta il giusto, quello che ci concede smorfia e voce alterata seduti al bar o in piedi sventolando una bandiera.
Sono giorni che inciampo. Nei festeggiamenti insulsi altisonanti, nei riti bacia la reliquia senza senso, nelle facce gonfie e tronfie delle istituzioni che a forza di botti e luci e avemaria cercano il consenso. Nelle mie storie di un eterno ieri che si aggrovigliano per farmi meglio dispetto e compagnia. E allora le parole mi fallano e annego in quelle degli altri. Affondo nei gesti e negli occhi, le voci le tralascio, scatto e allungo il passo e trattengo il fiato.
Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido, esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. Ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti che bruciano sopra Bellolampo. *
Inciampo anche in Consolo e in una parziale autocitazione di queste frasi, rileggendo dopo più di dieci anni Lo spasimo di Palermo, a pronunciarla è un giudice, baffi e sigaretta perennemente accesa, che lo aspettava un cattivo finale e lo sapeva bene da tempo.
Il libro torna sullo scaffale lasciandomi le stesse sensazioni della prima lettura, che quelle parti sul Judex** in carne e ossa e brace siano forzate.
Palermo è fetida, infetta. Sono parole che Consolo aveva scritto ne Le pietre di Pantalica, pubblicato nel 1988 ma è il 14 luglio del 1982 quello che lo scrittore racconta nel suo vagare per Palermo il giorno del festino della santa improbabile, quello del delirio da mondiali, quello in cui il prefetto, faccia di carabiniere, piemontese tutto d’un pezzo chissà che avrà pensato a trovarsi ficcato in questa sfaldata, disfatta parata di baroccume isolano. Sicuramente da settembre di tempo per pensarci non ne ha avuto più.
Tra una via misera e una ricca e una camicia di seta in vendita per un politico o un mafioso non è cambiato poi molto. Qualche vecchio negozio ormai chiuso, del sangue in più qua e là versato, quell’orrido palazzo Quaroni buono per la gente dello sfarzo e per le casse della curia e cattivo per gli occhi, quelli miei di sicuro e sempre copiose lacrime di coccodrillo ad alternar colore e frasi per buona parte dell'anno.
Una lapide ci garantisce il paese, o un’ombra, un’impercettibile macchia di unto su una parete, su una pietra, su un tronco d’albero incenerito? Non resterà di noi neanche una vuota, dorata carcassa, come quella della cicala scoppiata nella luce d’agosto. Non resterà compagna, figlio o amico; ricordo, memoria; libro, parola.

* Vincenzo Consolo, da: Le pietre di Pantalica, nell’omonimo racconto, come le altre citazioni.
** La serie diretta da Louis Feuillade (1914) che è per Gioacchino Martinez/Consolo ne Lo Spasimo di Palermo un legame col passato che si riallaccia col presente, con la fine di un sogno bambino e con quella del giudice Borsellino.


mercoledì 9 luglio 2014

Mi chiesi pazienza


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Ilaria Guccione, Sembra un angelo caduto dal cielo (Palermo, luglio 2014)

Quante volte mi chiesi pazienza ma poi non sopportai tutto quell’aspettare   rimanendo ferma e me ne andai soffiando indifferenza.
Ci riprovai nel farsi alta stagione ma mi costò un po’ troppo pagare in delusione.
Ci riprovai annegando in più bicchieri il desiderio e il vanto ma niente che arrivasse ed io a chieder sempre tanto e deglutire infine disincanto.
Ci riprovai tentando misurato salto ma frantumai i miei sogni sull’asfalto.
Mi si spezzò la rima, capii che niente torna come prima.
Non mi rimase che bastarmi, ché solo io lo so come aspettarmi.