Spider-Boy

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domenica 29 dicembre 2013

Il bello delle bolle è il ballo

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Ilaria Guccione, Belli tra le bolle (Palermo, dicembre 2013)

Bello il ballo delle bolle ma bisogna esser lesti per toccarle, ché tutto a questo mondo si esaurisce presto in una bolla di sapone. Guarda e scatta, danza nell’istante e concediti stupore e speranza, che se non le tocchi adesso magari ti toccherà al prossimo gioco di fiato.
Mi ricordo le bolle di sapone che si compravano all’ingresso di villa d’Orléans, bella occasione di passeggio domenicale, ci si perdeva tra un uccello e l’altro in quel giardino di cui noi bambini non si immaginava la storia, fatta di nobiltà che sapeva anche di Francia, di matrimoni ai tempi del fascismo e poi la proprietà era passata alla Regione e non è che sia cambiato molto.
E soffia e soffia e dai. Come in un sogno o in un miraggio e prova a fartele in casa, chiusa dentro il bagno, acqua e sapone e cannuccia e quel sapore che ti  smorfiava le labbra.
E poi ti ritrovi cresciuta e senza un bambino al seguito non ti fanno più entrare. Ma ormai non c’è più niente da fare, manco a raccattare un nipote per strada, ché in questi giorni Crocetta ha dato lo sfratto ai volatili, chè gli costavano troppo i gufi e i pellicani e mai nessuno che faccia invece qualche taglio di stipendio agli animali umani.
Eppure un giorno che ero ormai studentessa universitaria ci son tornata, forse era giorno di festa e d'eccezione o magari i custodi si erano impietositi. Ricordo i cigni a farsi inconsapevolmente belli in un laghetto e i pavoni che da bambina rimanevo lì con la muta preghiera che mi regalassero la visione di una magica ruota, che le loro piume le accarezzavo sempre in Calabria dalla nonna e poi i gabbiani. Vicini vicini a urlarti chissà cosa e a fissarti negli occhi. Io coi gabbiani ci convivo da anni, fanno comizi notturni sulla mia testa che sono mille volte meglio del putiferio che arriva dalla piazza. A volte ne vedo qualcuno a concedersi riposo su un tetto. E quante volte negli anni romani mi sono presa gioco degli amici siciliani stupiti perché sopra piazza Venezia passavano - ma dai, sul serio? ma che minchia dici? Qui mica c'è il mare - i gabbiani del Tevere.
Ma le bolle, dicevo. Quell’effimero piacere, quel trastullo di un istante. Quella metafora del tempo che, per evitarti l'ennesimo inganno, ci hai da rimanere sempre attento. 
Oggi ho visto volare centinaia di bolle per strada e bambini a rincorrerle ed adulti con sorriso tornato bambino a guardarle volare.
E soffia e soffia e dai che prima o poi arriva il mio momento.

lunedì 23 dicembre 2013

Il natale ai tempi dell’Upim

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Ilaria Guccione, E la peppa! (Palermo, dicembre 2013)

Ci si contava le poche lire bambine di dicembre e si stringeva un patto di natale tra sorella maggiore e fratello e aria da cospirazione che soffiava tirandosi dietro la porta della stanzetta. Erano i tempi dell’Upim che erano pochi passi da casa e andiamoci che qualche cosa ci si trova, calpestando sparuti tappetini rossi. Ma guarda che al nonno, diceva la figlia, vanno bene dei fazzoletti e per la nonna comprate le saponette Palmolive, che lei usa solo quelle per lavarsi il viso. Roba che oggi mi fa venire in mente con un sorriso una foto di Nino Migliori ma allora era un contarsi le monete perché il sapone fosse tanto e i fazzoletti anche e ti meravigliavi ci si potesse far felici con così poco che di pulito sapeva così tanto.
Erano i tempi che ancora ci stavano i negozi di dischi e guarda un po’ che fortuna, ci sono quelli di Vecchioni che li vendono a niente e per quanti anni si è andati a colpo sicuro con un album suo e intanto si passava alle musicassette e poi ai cd ma per fare il regalo a nostra madre il professore è stato sempre il miglior babbo natale.
Erano gli anni che ad arrivare a piazza Politeama sembrava di fare quasi una gita importante e se poi ti spingevi fino in centro storico il viaggio diventava un'avventura strabiliante.
Erano i giorni che a casa ci scappava la proiezione del film e, a ricordarlo proprio oggi che Giuseppe Tomasi di Lampedusa compirebbe 117 anni e vabbè sono troppi ma a cosa pensi mai eppure se ci pensi un attimo è morto che ai 61 non ci è arrivato ed erano ancora pochi, mi rivedo sul divano a guardare e riguardare solo Il gattopardo.
Erano i tempi del presepe, che a metterci mano non si poteva che non è cosa tua e dai che sei troppo piccola ma magari passami il pezzo di sughero o il pastore però l’anno dopo chissà forse mi faccio grande ma ancora aspetto e il presepe non lo si fa più. Ed io che ci passavo ore lì davanti, il tempo scandito da lucine intermittenti, a inventar storie tra una grotta e un fiume che col Vangelo non c’entravano neanche un po’.
Erano i tempi del babbo natale che ti aspettava per una foto ricordo in via Mariano Stabile, che era la via de L’Ora ma allora il tempo te lo misuravi solo in giorni di festa. Erano i tempi della caccia al tesoro, l’arrampicata in due per aprire l’armadio che dentro di sicuro ci trovi qualcosa, il soppesare pacchi e la speranza buona che ci fosse dentro proprio quel regalo là.
Oggi sono tempi che da tempo ormai mi danno solo noia e impiccio a scansar buste per strada che reggono persone e a guardare questo tempo accelerato degli altri che si misura in file per pagare e che cozza col mio che non ha mai niente da contare.
E scusa se non ti ho regalato niente ma a giocarsi il tempo su piani diversi, anche ad averci qualcosa da scambiare, non ci si incontra mai.

mercoledì 18 dicembre 2013

E' una strada persa in uscita di voce

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Ilaria Guccione, Il turno (Palermo, dicembre 2013)

Ogni volta che si trova uno sfruttatore bisogna schiacciarlo. Ma che vuoi schiacciare, tenerezza mia, più ne schiacci e più ce ne sono. E va bene, ma forse bisogna schiacciarli lo stesso.
(Giorgio Scerbanenco, da: Venere Privata)

E’ un arrampicarsi molesto di parole quello che cerca di sfiatare una storia maldestra e spacciarla per buona, ci si sfilaccia rapidi la trama del senso e sopravvive solo un cattivo ordito nel ricordo, di quelli buoni per le vendite di fine stagione o magari d'inizio. L'unica certezza, signora mia, è che la mezza non esiste più e quindi s'organizzi il portafogli e le uscite di conseguenza.
E vai a capirci poi qualcosa, se è valso più un addio slabbrato o un incontro quasi mancato, la fede cieca nell’attesa, il capo chino nei giorni della resa, la voglia folle di scappare o il desiderio onesto di sparare.
L’uomo a due passi da me puzzava d’alcool e di ricordi e la sua storia la ripeteva a chiunque incontrasse per strada perché aveva paura che lei lo lasciasse lì da solo senza un ultimo tenero saluto, ché alle spiegazioni aveva rinunciato da tempo e vai a sapere quanto, che ci beveva su per non doverci far di conto.
Ma cosa vuoi che ti dica più di quel che non ti ho detto, è una strada persa in uscita di voce, un giocarsi l’anima a dadi truccati, un cercare di uscirne vincenti, un continuo barare sul turno, che a rispettarlo sempre son solo io che ti rimango indietro.
E’ un invito continuo a cercar di sfiorare qualcosa che, arrivati al momento del soldo, mi rimane da portar via soltanto un impagabile ricordo che mi oscilla in peso tra le mani e il non saper più dire.


lunedì 16 dicembre 2013

Tra una crepa e l'altra del ricordo

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Ilaria Guccione, Sviolinate (Palermo, dicembre 2013)

Il bicchiere è mezzo vuoto e la testa sovrappiena.
Gira e rigira il pensare, in giri che si fanno inutili in bisticcio di parole e farci pace mai e neanche afferrare li puoi, ti esplodono sul tavolo in sillabe furiose e ferite che boccheggiano rassegnate a quel colpo di spugna che darà il saldo del conto, mentre la loro eco tu te la trascinerai fino al letto del riposo che ormai non sai.
Un piede leva l’altro dall’impaccio del qui non ci so stare e tutt’e due fanno strada e ce ne vuole ad arrivare.
Che per un punto d’arrivo te ne devi saper giocare mille in sbilenche partenze. C’è un muro a sinistra che t'impone il silenzio, sulla destra un cancello che ti fa solo urlare. E si va avanti di fosso in fosso da saltare, se non si cade prima di stanchezza e d'impazienza e di non saper più che fare.
Ho attraversato un sogno storto che non mi voleva far tornare e una strada obbligata dal dolore e frasi rassicuranti e scadute a perdermi di casa e una smorfia sul viso e a quel punto che fu dove vuoi che io potessi ancora andare.
Ho incontrato quelle crepe che mi fanno intera e non le ho potute contare, m’è franato il passo ed il rancore, mi son dovuta fermare.
E tu. Soffiami appena un bacio quando ripassi tra una crepa e l’altra del ricordo.







mercoledì 11 dicembre 2013

La vita è un far di conto che non torna


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Ilaria Guccione, L'emozione da regalare è solo quella che non si può comprare (Palermo, dicembre 2013)

Regalami qualcosa, magari uno sputo di attenzione o qualcos’altro ancora che mi sia spunto almeno per mezza riflessione. Un po’ del tuo tempo migliore che io ci metto tutto il mio e forse pure un pizzico d’amore.
Qui si fa presto a fingersi contenti, li vedi tutti in fila e affanno per comprarsi una qualunque iniziazione che ci sta sempre l’offerta conveniente, ché ce n’è sempre per ogni tasca in ogni continente.
Li incontri a gongolare per un diploma o una pergamena o un anello al dito, che a legger tra le righe e tra le dita non ci capisci un cazzo. Inchino fasullo all’abilità e alla sensibilità e tutti a ritrovarsi piccoli maestri del fotografare, del ballo che più va, dell’anima salvata e benedetta dal primo dio che il convento passerà. Eppure non sanno guardare al di là del proprio naso, eppure sanno a stento regolarsi il passo, eppure affondano nella solita disperazione.
Te li ritrovi poi quasi tutti investiti di uno stesso ruolo che a te puzza di falso e pulsa di maldestro, a farsi venditori di quel medesimo poco che han comprato e vale men che niente, alimentando il solito perpetuo girotondo che puzza di moneta in questo gran mercato che si chiama mondo.
A furia di iniziarsi a qualche cosa, ci si consuma e ci si perde il bello dell’inizio di ogni vera cosa.
Quand’è che tutto aveva avuto inizio? Si era davanti a una cabina telefonica, l’amore ai tempi del gettone, le stazioni passeggiate per distrarsi l’attesa.
Palermo, Stazione Centrale, la solitudine che assedia tra i ricordi e dai che manca poco per partire e guadagnar distanza.
Roma, Stazione Termini, fila interminabile per un panino che quasi ci svieni, occhi a mangiar titoli di libri in vetrina ma i soldi non ce li hai e ti tieni stretto quel libro già iniziato che ti accompagnerà.
Quel giorno là andai via dalla stazione prima dell’arrivo del treno, per conservarmi per buono l’inizio che ormai se n’era andato e per non fare una brutta fine a litigar di nuovo col passato.
La vita è un far di conto che non torna, che sconti non ne fa e a tasche vuote ci si ritrova tutti insieme là.
 
 












domenica 8 dicembre 2013

Storie che dimentico

Ilaria Guccione, Quando si fanno attenti gli occhi (Palermo, agosto 2013)


Ed ecco che per raccontare una storia ne sacrifichi un’altra che era lì che ci giravi intorno da tempo e lei ti chiedeva speranzosa una fine, qualunque essa fosse, pur di potere arrivare da qualche parte, pur di poter respirare infine in pace, tu metti un punto e lei acquisisce voce. Ma è colpa di quelle tue frasi sparse qua e là che ti hanno fatto deviare, di quelle frasi che, a scriverle, all’inizio non le avevi nemmeno capite ma poi ti hanno dato da pensare a ripensare a quell’altra storia che si dava sottovoce, che ti ha proiettato in un altrove che senti più vicino in un giorno di inverno mite, di biancheria stesa, di passi affrettati che ti affettano il respiro e scartavetrano i soliti pensieri. E ti dici che di tempo ne avrai per raccontare ancora, per ritornare indietro con lucidità di parola e allora parti in prima ad innalzare parentesi delicate, poi acceleri di quarta e ti frantumi la trama e avanzi inseguendo il desiderio del dire, che ormai ha trovato un’altra strada. Finisce poi che il resto lo dimentichi, lo chiudi in quel cassetto già pieno di parole a giocarsi gli accenti in altre storie ancora.
Fino a quando quelle frasi recluse non ti pungono il fianco sollecitandoti con punta di dispetto e di rimorso una sintassi sgrammaticata del ricordo.



lunedì 2 dicembre 2013

La morte non la puoi fotografare


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Ilaria Guccione, Vietato fumare (Palermo, luglio 2013)

Fra il gruppetto ad un tratto si fece largo una giovane signora; snella, con un vestito marrone da viaggio ad ampia tournure, con un cappello di paglia ornato da un velo a pallottoline che non riusciva a nascondere una maliziosa avvenenza del volto. Insinuava una manina guantata di camoscio fra un gomito e l’altro dei piangenti, si scusava, si avvicinava. Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’orario di partenza del treno doveva essere vicino. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo, e così, pudica, ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari.
Il fragore del mare si placò del tutto.
(Giuseppe Tomasi di Lampedusa, da: Il Gattopardo)

Venivamo dalla via dei matti, in una giornata di caldo pieno, per raggiungere i morti e quel loro trionfo sotterraneo e storto e appeso che risponde al nome di catacombe dei Cappuccini, quell’ostensione di corpi consunti e paglia a fuoriuscire dagli abiti lisi e nomi in parte noti e in ogni caso nomi e nomi e date ad attraversare secoli e ufficiali dai baffi cadenti, vergini in abito da sposa che s’è fatto camicia da eterna notte, bambini ossa di vetro in casse condivise.
(E provati a pensarli quando sembravano essere lì sospesi per eccesso di sonno e come stai, Salvatore? Aspetta che ti spolvero il vestito e Annuccia mia, non ti muovere troppo che ti riavvio i capelli.)
Dopo avere riguadagnato la luce agli occhi, entrammo nella Selva che selva non è più da tempo ma cittadella funeraria in superficie.
Mi sa dire dov’è la sepoltura di Tomasi di Lampedusa? Il custode n. 1 chiamò il custode n. 2 che ci guidò sicuro, ma da quell’incespicare sul nome capimmo che la sua unica certezza era spaziale.
Sostammo davanti a quel marmo, il più silenzioso in quel luogo di silenzio, che sembrava fare l'eco a quell'amore per la solitudine, quel circondarsi più di cose che di persone che lo aveva accompagnato dall'infanzia. Ma c'era anche quel senso di abbandono che sapeva di lettere in nero a perdere, a cui fa da contraltare quel libro postumo che trovi dappertutto e tutto quel blablabla intorno a farci convegni e festeggiamenti, proprio quel libro che una decina d'anni fa avevo regalato a Roma all'amica francese che in quel giorno di fine luglio era con me davanti alla tomba.

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Ilaria Guccione, La sepoltura di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e di sua moglie (Palermo, luglio 2013)

Girammo ancora un po’ e ci fermammo ad osservare un uomo, occhi inchiodati a una parete fitta di foto e fiori e voce che dal mormorio di una probabile preghiera andò crescendo in urla da maledizione. Ci guardammo in uno stupore a tratti divertito e raggiungemmo l'uscita.

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Ilaria Guccione, Ospiti del cimitero dei Cappuccini (Palermo, luglio 2013)

E la morte, la morte dov'era finita o quand'era iniziata? Perché lo inseguiva fino a farlo fuggire, che poi era l'unico stratagemma possibile perché lui le andasse incontro?
Il fotografo la prima volta si salvò perché le aveva scattato una foto. Si illuse poi di riconoscerla, morte di ossa a cavallo, morte di peste e di frecce fissata su intonaco nella sua eterna corsa, morte che dal muro di un ospedale si era ritrovata dentro un museo perché la si potesse guardare. Ma che la morte non la puoi fotografare fu lei stessa a tempo debito a dirglielo e a farglielo provare.







venerdì 29 novembre 2013

Quando presto è già tardi

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Ilaria Guccione, E' arrivato il tempo del calcio (Palermo, ottobre 2013)

Il tempo a nostra disposizione, purtroppo, sta finendo. Cloto e Lachesi hanno terminato il loro compito, e ora tocca a me. Lorsignori mi perdoneranno, ma in questo attimo, che io sto misurando su una clessidra diversa dalla Loro, è apparso per tutti Loro lo stesso anno, lo stesso mese, lo stesso giorno, la stessa ora di tagliare il filo. Ed è questo che, non senza dispiacere, mi credano, sono incaricata di fare. Adesso. Ora. Subito.
(Antonio Tabucchi, da: Si sta facendo sempre più tardi)

E’ presto, lui proclamava  con cadenza regolare e saltando i giorni di festa, ché in quelli aveva altro a cui pensare. E’ ancora presto, lo ripeteva a voce alta e accompagnandosi con la lentezza stupidamente solenne di ogni suo gesto. Che fosse chiaro a chi di dovere che di tempo ce n’era ancora a bizzeffe per aspettare e rimanere.
Per lui era sempre troppo presto e a furia di ripeterselo si ingarbugliò nella sua vecchia cantilena e quando arrivò il giorno buono per annunciare che ormai era troppo tardi lo fece a mezza voce e di cattiva lena.
E fu così che il momento giusto non fu mai e di buone rimasero solo le scuse. Quelle che te le giochi sempre come vuoi, che ci corazzi il tuo piccolo mondo e fino al prossimo tuo presto continui a girarci in tondo, ché tanto poi t'appiglierai al solito pretesto.

mercoledì 27 novembre 2013

Io, quand’ero piccola


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Ilaria Guccione, Nonna e nipote. O almeno così mi piace immaginare (Palermo, luglio 2013)

Io, quand’ero piccola.
Le storie non me le facevo mai mancare. E passavo ore a guardare vecchie foto su cui avevo sempre da inventare e mi dicono che l’album del matrimonio dei miei l’ho fatto a pezzi. La mia prima storia scritta a inchiostro e carta la portai al mio maestro delle elementari perché le trovasse un titolo. E quante storie allora che prendevano forma nel giocare e io a distribuire ruoli e battute.
Io, quand’ero piccola.
Glielo dicevo alla baronessa di Carini che doveva scappare ma lei non mi ascoltava e si faceva ammazzare. E poi c’era quell’impronta di sangue su un muro del castello e io che la volevo vedere ma mai nessuno che mi ci abbia voluto portare. E quel Cesare Lanza, il padre della baronessa. Quello faceva parte della mia lista di cattivi e di conseguenza Adolfo Celi era cattivo.
Poi all’università mi ritrovai a studiare l’economia del ‘400 in Sicilia e anche se il Lanza non stava più in quella lista, per me ha continuato ad avere la sua faccia.
Io, quand’ero piccola.
A pranzo finito, prima che si addormentasse, tormentavo mio nonno perché mi cantasse quella canzone che non mi negava mai: Mamma, mormora la bambina, mentre pieni di pianto ha gli occhi, per la tua piccolina non compri mai balocchi… e ogni volta ci speravo che la bambina non morisse, eppure non accadeva mai.
Io quand’ero piccola.
Mi si facevano grandi gli occhi quando c’era l’Odissea e Ulisse me lo porto dietro anche ora e intanto giravo con un vecchio libro di mitologia di mia madre e tutte quelle storie le conoscevo a memoria. E un altro che mi piaceva era Ercole e ogni tanto urlavo al mondo: sono forte come Ercole! E mia zia mi rimproverava perché una brava bambina sai com’è non fa così e sta seduta composta. E come glielo spiegavi che uno come Ercole si comportava in altro modo. E oggi mi sa che me lo dico ancora quando torno dal fare la spesa con una ventina di chili distribuiti tra spalle e mani, però il fiato per urlarlo non lo trovo più e altro che dodici fatiche, ne basta una per farmi schiattare al quarto piano.
Io, quand’ero piccola.
La mia prima fuga da casa l’ho tentata che avevo circa due anni e il cane Black per compagno, lui che mi veniva fratello maggiore di due anni e sembrava il cugino di Lassie ma era più bello. Lui che però mi ha abbandonato tra un piano e l’altro e allora vai di pianto e vabbè mi hanno scoperta e riportata a casa.
Io, quand’ero piccola.
C’erano delle domeniche che erano giorni di festa perché si montava lo schermo, ci si sceglieva in salotto il posto a sedere, si faceva buio e partiva il film. Ogni tanto se ne affittava qualcuno ma c’erano quelli che erano solo nostri, c’era Mandingo e Sole rosso e Il Gattopardo.
E c’era quel tempo da film che si misurava in pellicola, lo schermo si faceva bianco, ci si poteva concedere una pausa e quante volte ci ho provato a chiedere a mio padre di metterci mano e lui che me l’ha concesso solo una volta e io che me lo ricordo ancora.
E poi c’era Nell’anno del Signore e io ogni volta ci speravo che Targhini e Montanari non venissero ammazzati e mi concentravo mica poco, eppure il finale non cambiava mai. E poi facevo la prova del coltello ma forse non se ne sono mai accorti e comunque le dita mi son rimaste tutte.
Io, quand’ero piccola.
Avevamo anche l’ultima parte de La bella addormentata, che è la fiaba Walt Disney che so meglio, ché quando ancora stavo nel letto con le sbarre mio padre mi portò in regalo la musicassetta e uno scamiciato. E ti giuro che so ancora le battute a memoria e ti potrei pure cantare So chi sei, di tutti i miei sogni il dolce oggetto sei tu…
Io, quand’ero piccola.
Mi sono buttata di testa nella vasca piena d’acqua fredda e mio padre di spalle che si radeva e pare che non sia stata una bella cosa ma io, che forse volevo solo toccare il fondo per saperne parlare, non ti saprei dire di più, se non che dopo un doppio ventennio mi ritrovi qui e te lo posso ancora raccontare.
Io, quand’ero piccola.
C’erano tutte queste storie che ogni volta aspettavo fiduciosa il lieto fine eppure quello non arrivava quasi mai, probabilmente per farmi un dispetto. Ma io che la bella speranza ancora ce l’avevo ero sempre pronta a riguardare o rileggere, sicura che qualcosa potesse cambiare. Poi però ho smesso, ché a stare in mezzo alla vita ho imparato che il lieto fine arriva solo quando tu non te lo sei aspettato.





















domenica 24 novembre 2013

Pioggia nera

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Ilaria Guccione, Sopra tutto, l'ombrello (Palermo, ottobre 2012)

Pioveva nero. Mia madre dice che l’espressione è mia. Sostiene perfino che ho cominciato a usarla quando ero ancora piccolissimo. Ma, in fatto di ricordi, non c’è da fidarsi troppo di lei. E’ un campo in cui non siamo quasi mai d’accordo. I suoi sono ricordi dolciastri e sbiaditi come i santini col bordo a forma di merletto che i devoti conservano nei messali.
(Da: Georges Simenon, Pioggia nera)


Quella pioggia fitta me la sfiatavo lenta, me la scrutavo attenta quell'acqua che si faceva tenda dai filamenti infiniti prima di trionfare sul selciato in finale di pozzanghere. M'affondavo distratta in quelle piccole cascate tra uno scalino e l’altro, negli abeti costretti in vasi troppi piccoli che sembravano naufraghi costretti ormai alla resa. Faceva un freddo da disperarsi le mani nude, eppure rimanevo davanti la porta, che magari sarebbe finita, che magari saresti tornato, di certo circospetto come il sole dell'inverno.
Mi chiedevo se anche tra noi fosse scesa una pioggia simile, inizialmente lieve poi sempre più intricata, abile nel dissimulare ogni possibile via d’uscita verso il bel tempo. Vicoli a riunire strade parallele che potessero garantirci una visione limpida di tutte le infinite realtà che avremmo potuto ancora attraversare.
Ma te ne andasti rapido per una via in facile discesa con un ombrello di pretesti insulsi e neanche una scusa da lasciarmi e neppure un gesto. 
E ne è passata ormai di acqua sotto i ponti e son sopravvissuta a mille allagamenti. Eppure. Oggi mi piovevano ricordi fra cielo malandato e quelle scarpe nuove da misurarsi ancora tra l’andatura rapida e il rovinoso cadere e allora ogni passo me lo dovevo contare.
Piovevano ricordi tra una balata e l'altra, da farmi nuovamente scivolare. Eppure. Quel pensiero obliquo e quasi allegro che l'acqua, almeno quella. Cada come cada, è sempre uguale. Quel pensiero bagnato che poi ti fa tremare. Quelle lacrime da niente che ti fanno rincasare.


venerdì 22 novembre 2013

E buonanotte alle parole e al sogno


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Ilaria Guccione, Travasi (Palermo, novembre 2013)
 
E io ci provo a guardarle ma di stelle stanotte ce ne sono davvero poche. O forse sarà il mio sguardo stanco da insonnia e l'occhio distratto da diottrie mancate.
E allora non c’è niente da cantare ma di storie a mille e una notte da raccontare.
E allora ti racconto che. Ma c’è il gatto che mi interrompe col suo solito richiamo, ché la sua ora è sempre buona per mangiare.
E allora volevo dirti che. Ma c’è come un pensiero da niente che mi distrae le parole e mi si impigliano nel buio e non le so davvero ripescare.
Ma l’hai già sentito che. Ma c’è come una nota stonata che non mi fa parlare e non ho neanche voglia di cantarci su quella canzone che potresti ricordare.
Ma io comunque volevo che tu sapessi che. Ma ho come un brusio tra le dita che non mi fa più continuare e mi manca la voglia del tentare e ritentare.
Ma davvero tu non sai che. Ma il discorso è già finito e scusami tanto, che io la fine ti confesso che non ce l'ho.
Ho come un fiato sospeso che non mi sa più dire.
E buonanotte alle parole e al sogno.


Parti in fretta e lentamente ritorna


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Ilaria Guccione, Impressioni di novembre (Palermo, novembre 2013)

Quando sarete uomini, partirete sempre. Partirete a piedi, a cavallo, partirete sul mare, nell’aria. Partirete perché vi aspetta qualcosa o perché voi aspettate qualcosa, e tanti nomi avrà la partenza: da attesa a desiderio, a bisogno, a tradimento, a distacco, a paura, a coraggio, perché infinite come questi petali sono le partenze, uno solo è il ritorno.
(Da: Roberto Vecchioni, Prologo, in Viaggi del tempo immobile)

Henri Bergson partì che stava tornando: il cuore scavalcò l’orologio e da lui in poi il tempo fu finestra, non percorso; la durata si fece esposizione di colore. Troppo breve l’eternità di una gioia, infinito un attimo di dolore.
(Da: Roberto Vecchioni, Le partenze, in Viaggi del tempo immobile)

Devo aver confuso qualche sillaba, parecchio tempo fa. Devo aver frainteso qualche parola, un paio di monosillabi almeno e di sicuro il senso di qualche domanda. Da uno a tre verbi capovolti di senso nelle interferenze del telefono.
Bisognava che facessi un po’ di strada, dall’andata al ritorno, per capire meglio e capire –fino a vomitarmi il senso e invertirmi nuovamente il passo- di aver scambiato un segnale di pericolo per un invito.
(E dice che lei torna. Lo sapevi? Questione di strada e di fretta. Bisognerebbe raccontarle la storia, occorrerebbe dirle del campo minato e delle luci che si accendono di giorno sempre in numero dispari. Dici che se ne accorge da sola? Ma sì lasciamo stare, rimaniamo a guardare dall’altro lato della strada, che salti in aria da sola.)
Sogno ancora quel sogno in cui lei si rintanava a piangere in bagno e poi la portavano via a forza di camicia. E di nuovo quella telefonata che mi risuona accanto al letto. E’ lei che parla urla piange urla parla e aggiunge peso al peso dicendo che non può. Scappare non si può. Ci sono quelli che parlano. Nella sua testa parlano. E non sa da dove siano sbucati fuori. Si appostano dietro di lei perché non se ne accorga, la seguono a ogni istante e si prendono gioco di lei e le proiettano insulti intermittenti alle spalle. Cade la linea, cade il telefono, si guasta tutto. Controllori di ogni pensiero, l’accendono e la spengono. Ma lei non ci sta e allora si cortocircuita da sé.
“Non tornare. Scappa. Hanno detto che non devi venire fin qui. Vattene perché farai anche tu una brutta fine, come me.” Ecco. L’aveva detto, è vero. Ma a confondere il giorno con la notte ci stai un attimo se sei costretta a quel telefono mentre quella urla piange urla e ti ripete “Cancella ogni traccia, sparisci. Anche se alla fine loro ti troveranno lo stesso, tu sparisci. E’ tutta colpa mia, dicono. Ma io non ho fatto niente.” Piange urla piange.
Poi cambia tono che fa spavento e mi dice che è anche colpa mia. Perché io sono d’accordo con loro, io sono in contatto con loro, io devo farmi dire da loro cosa vogliono. Lo scaldabagno salta, la radio si brucia, e poi lei è vedova di guerra, è tutta colpa di Bush e dei suoi dannati missili.
Poi cambierà ancora tono che per me sarà grave di tormento per infinite volte gridando che la colpa è tutta mia.
E’ che c’era un buco nella sua testa e uno lo sparò sulla mia gamba sinistra ed io che continuavo ancora ad arrivare col passo zoppo e il respiro corto per non perdermi di tempo e di pazienza.
Se passa lei non passo io. Il nostro spazio non coincide. Sono stanca di ripeterglielo girando intorno ad un tavolo traballante di parole e spostando a ogni giro il posacenere sbreccato dal malumore. Come la tua testa. Ecco, l’ho detto. Lei ha un buco nella testa che non mi appartiene. E quello che lo attraversa ogni notte è solo roba sua. E allora io vado. E scusa che non ho tempo neanche per un saluto. Lascio tutto sul tavolo, fotocopie, fotografie e appunti e soprattutto quei miei fottuti sogni. La nostalgia me la ritroverò poi in tasca quando riuscirò a frugarmi dentro con calma. Ci troverò lacerazioni di penna e inchiostro bruno e lacrime di biacca. Non mi do tempo neanche per l’ascensore, volo via per due piani fino al giardino e all’ingresso. Ancora trentasette passi correndo e sarò fuori.
(E dice che lei se n’è andata. Lo sapevi? Questione di vita e di fretta. L’ha capita da sé la storia, alla fine c’è arrivata. Da un campo minato all’altro cerca un marciapiede buono per andar lontano.)
Devo aver poi confuso di nuovo qualcosa, poco tempo fa. Devo aver frainteso qualche parola, un centinaio di sorrisi almeno e di sicuro il senso dei tuoi occhi. Da uno a tre baci capovolti di senso nelle interferenze di ogni abbraccio.
Pronomi personali e aggettivi possessivi che hanno giocato al bisticcio. Colpa di quelle interferenze maledette che si danno tra mittente e destinatario, destinazione e destino che litigano per giocarsi qualche lettera e il senso.
Bisognava che facessi nuovamente quel po’ di strada, dal ritorno all’andata, per capire meglio e non capire –fino a vomitarmi il senso e invertirmi nuovamente il passo- di aver scambiato un divieto d’accesso per un invito.
(E dice che lei sta cadendo. E guarda che lo vedi che sta scivolando. E dice che è meglio se la butti giù con un calcio, lì. Invece di tenerla per mano che poi ci crede che non la stai lasciando, lì. E dice che eri l’unica ombra, ben camuffata, a seguirvi in una giornata assolata. E dice che era meglio se glielo dicevi, lì. Che tu non esisti, qui. Perché dopo è impossibile crederci. Con quelle tue ombre che si complicano. E’ la peggiore caduta che le potessi regalare.)
Spazio che non è spazio che non mi lasci spazio perché tu non ci fai dentro neanche un passo. Spazio che non ha nome e non ha colore, spazio che ci fai buio, così ci puoi anche passare e dirti che hai sbagliato a svoltare. Passo che ci ripasso da quello spazio. Anche se non voglio mi ci imbatto, non ho bisogno di chiederti il permesso e lo percorro e mi contrasto, contando alla cieca ogni mio passo. Spazio che tu tieni vuoto ma è pieno che straripa. Ci sento risuonare le mie suole che calpestano parole. Cade qualcosa in questo vuoto e qualcos’altro accade. E’ il gioco della polvere sulle pareti, tutto rimane al tatto. Perdo il conto dei graffi. Piovono pezzi di intonaco che mi pesano nostalgia.













mercoledì 20 novembre 2013

In tre tempi

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Ilaria Guccione, Tre per due (Palermo, giugno 2013)

Il tempo è elastico e così la sua attesa, finché ci si aspetta. Finché non ci si spezza e non si giunge, chi ancora dolente e chi indolente ormai, alla resa.
Bisognerebbe studiarlo bene, il tempo. E il tempo dentro il tempo e il tempo speso bene e quello andato a male e il tempo infinito del sospeso e quello becero del malinteso.
Bisognerebbe navigarlo il tempo ma solo se lo si sa annotare. Per sopravvivere ad ogni tempesta che finisce per puzzar d'inganno e tener per sé tutto quel tempo che ha regalato incanto.

PASSATO REMOTO
Tra loro, ospiti distratti di occasioni mancate, tutto avvenne con puntuale ritardo: si consumarono così buone maniere e fantasie slavate e fiori di gesso, che quelli son sempre buoni per tirarseli addosso.
Sopravvissero soltanto nascondigli improbabili per scuse sbiadite dal latitar di voce e scuse.
Lui fu fante dai troppi cuori accesi, lei regina dai mille dolori sottintesi.

PASSATO PROSSIMO
Una decina di cattivi ricordi  s’inchiodarono alle assi di un portone per conservare impronta di ciò che loro non sarebbero mai stati. Tiratura media, matrice malamente lavorata e ormai biffata. Nessun capolavoro possibile tra loro: lui s’era sempre professato un uomo giusto e lei l’aveva eletta a ipotesi da consumarsi i giorni di festa.
I loro segni non hanno mai coinciso se non per incrociarsi un giorno a un bivio.

IMPERFETTO PRESENTE
Lei campa come può, tu dalla panca del per ora mi conviene non ti schiodi neanche i giorni di pioggia.
Lei potrebbe falciarti senza alcun preavviso ma continua a  sognarti sottovoce eppure ti nasconde il viso. E con quel cuore rattoppato che te lo presta ma solo per la sera giocaci pure come fosse svagato passatempo, un cappello fuori moda, un vestito troppo stretto, una calza smagliata dal troppo tirare nei giorni  scaduti del riso.
Ma il tempo per fortuna sa viaggiare: mentre vi coniugate imperfetti nel presente, lei si occlude e tu ti espandi assente, ti serra nel baule delle memorie amare.

lunedì 18 novembre 2013

Infiniti sono i gesti dell’attesa


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Ilaria Guccione, I gesti dell'attesa (Palermo, novembre 2013)

Infiniti sono i gesti dell’attesa e facce sospese  e smorfie esplose ed il giocarsi d’inganno che quasi sempre ti ci perdi e poi ti tocca pagar pegno.
Io che ci giro intorno, tu che rimani fermo. Tu che ti giochi in fiato un motivetto che te lo ricordi a stento, io che batto il marciapiede di fronte e sul tempo ritardato un po’ dissento.
Chi si proietta sulle vetrine in sconto e chi si catapulta sull’universo altro che gli offre l’ultimo modello di cellulare per guadagnarsi un mondo.
Io che mi fisso l’ombra, tu che ti cerchi il sole. Tu che controlli l’ora con indifferenza, io che mi sfoco il passo con insofferenza.
Chi galleggia nel decimo caffè e chi affonda nel primo aperitivo.
Io che conto traballando fino a cento senza saper contare, tu che conti poco e sai come rimanere fiducioso ad aspettare.
Chi si lascia intrattenere dal primo concertino che si fa e chi si lascia scivolare nel primo letto buono che si va.
Tu che ti conti i giorni in base agli anni e ti va bene lo scontato, io che mi conto il senso di giorno in giorno e mi sorprende sempre un dolore inaspettato.
No, non parlatemi. Bisognerebbe ritrovare le giuste solitudini, stare in silenzio ad ascoltare.


sabato 16 novembre 2013

Un bacio. Ed è lungi.


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Ilaria Guccione, I baci non scioperano (Palermo, novembre 2013)

E’ una febbre, un delirio. Che cosa? La vita, che diamine: “fever called living”; è come la febbre, oscura. Accenna talvolta ad alcunché di fiato, sembra proporre uno svolgimento e una conseguenza, ma son momenti.
Dicono che l’annegato, nell’attimo supremo, coi suoi occhi morenti, veda svilupparsi il rotolo veloce della trascorsa esistenza: no, la vera immagine della vita è questa, per esempio questa che della mia mi giunge a raffiche, dalle quali sarebbe difficile, vano, cavare od astrarre un’alleanza, una parentela, e le quali sarebbe vano voler comporre in unico vento.
(Da: Tommaso Landolfi, Un amore del nostro tempo)

Eppure io quel bacio me lo ricordo ancora. Ma non saprei come raccontarlo. Ho fallato il tempo per segnar parole, sforato lo spazio disponibile per raccoglierle e portarle via e riascoltarle con calma. E poi pensavo che il tempo non m’avrebbe tradito, lasciandomi su un marciapiede improprio a chiedere la strada per tornare.
Lenta lenta che il piede me lo sollevavo a stento e di strada davanti ne avevo tanta, ché dovevo arrivare fino all’Eur.
Mi sorprese un’eclisse di senso, l’appuntamento con ogni possibile parola fu mancato, mi rimase solo uno stupore zoppicante nel silenzio della sera.

Un bacio. Ed è lungi. Dispare/giù in fondo, là dove si perde/la strada boschiva che pare/un gran corridoio nel verde.*

* Guido Gozzano.

Della follia di Orlando


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Ilaria Guccione, Quel puparo d'un gatto (Palermo, novembre 2013)

Oggi ho inseguito un matto per strada, uno di quelli che se sei di questa città non puoi non avere incontrato almeno una volta per via. Quand’ero parecchio giovane e mi capitava di arrivare in centro storico che sembrava davvero di essere lontani da tutto, cambiavo marciapiede, ché con quello sguardo torvo e quel suo dire a se stesso che non si capiva, mi faceva davvero paura.
E ora che in centro storico mi gioco i passi e il conto degli anni l'ho perso e non mi bastano le dita per contare i matti che ho imparato, nessuno mi spaventa più ed ecco che lo incontro e mi appare stanco, lento di una lentezza che sarà colpa dagli anni e di tutto quel girare.
E così, scommettendo di traversa in traversa, gli ero già davanti, ché col suo passo ciondolante non ci avevo messo niente e la via dei matti chissà com'è che la so sempre.
E son tornata poi indietro o forse andata avanti. Imboccata la via dei pupari, mi è venuto incontro un gatto.
Mi sono inginocchiata con quegli stivali che oggi erano fuori tempo eppure ieri il freddo ed in ginocchio anche il mio tempo appresso che oggi me lo trascinavo lento. E il gatto ad annusarmi, a strusciarsi e saltarmi sul ginocchio e a dirmi: voglio cantarti di Angelica la bella che fuggiva per infiniti mondi pur di non farsi catturare, ché io so tutto anche se qui tra i pupi non mi fanno mai entrare. E voglio raccontarti di quell’Orlando e della sua follia giocata in metri. Che non fu d’amore la condanna e non bastò Astolfo a ripagare quel senno perduto. Per un Orlando che si salva, qualcun altro paga e per salvarsi vaga e non c'è letteratura o verso che lo possa trattenere.

venerdì 15 novembre 2013

Anima bella e quel suo specchio infranto


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Ilaria Guccione, Brasil (Palermo, novembre 2012)
 
Anima bella che non sapeva dove andare e allora si trattenne il passo per mille anni ancora ad aspettare.
Sparse ricordi di ghiaia perché la si potesse ritrovare ma dopo tutta quell’attesa si perse di speranza e si provò alla cieca a rincasare.
Attraversò deserti di parole altrui, mostri sbilenchi e vuoti eppure strasicuri di esser saldi come ogni niente a dispensar certezze e buonumore a tutti quegli idioti che solo loro sapevano pregare ed ascoltare.
E tutti a rimanere fermi senza neanche un'eco da ascoltare mentre lei voleva soltanto ritornare.
Scelse per sé il silenzio ed il guardar lontano ma si dovette pizzicare il fianco e la gola per non farsi troppo male.
Regalò infine fiato e fumo a quel suo vecchio specchio infranto dal saperla lieta e poi disfatta, poi ancora lieta e nuovamente stracca, che le ridava il sentimento e il senso ad ogni suo ritorno.


mercoledì 13 novembre 2013

Nessun rimpianto però alle volte il pianto

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Ilaria Guccione, Donne che vanno, donne che restano (Palermo, novembre 2013)

Andavo. A una velocità che il fiato te lo taglia. Andavo che era tardi, correvo a colpi di orologio ma non avrei voluto raggiungere la soglia che mi aspettava impietosa ma cortese. Sai com’è, a volte la paura. Sai com’è, a volte le cose della vita che non capisci perché proprio a te ma non puoi farci niente.
Mi raggiunse all’improvviso come un’immagine improbabile, come un ricordo falsato eppure così reale da poterlo toccare, come una scena da film eppure. Vedevo anche me come non avrei dovuto ma non avevo tempo per pensare o per rimproverare la memoria, se non quello solito della mia strada, che ovunque sia prima o poi devo arrivare.
Saremo reali almeno in una foto di qualcuno che come me spende tempo ed occhi a fermar tempo e raccontare storie.
Passai da una piazza del sentimento ormai passata a quella del presente, ché il volersi tanto bene non serve proprio a niente. Regalai un sorriso alla distanza ormai breve e a quella infinita del ricordo, ingoiai quel po’ di lacrime che si confuse con la pioggia lieve, mi dissi qualcosa per consolarmi, che nella fretta dell’andare non ebbi il tempo di capire. O forse è solo che stasera non te lo voglio proprio dire.


martedì 12 novembre 2013

Come fa rumore ogni addio


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Ilaria Guccione, Lui che passava per la Felice Porta, un dì di festa (Palermo, luglio 2013)

Foglia non cade ancora ma scivola pioggia. Stillano ricordi che te li ritrovi a galleggiare disperati sull’asfalto bagnato, vorrebbero salvarsi ma pesano troppo, boccheggiano, affondano nel fango di giorni nuovi che non sanno.
Io. Che ho la faccia stordita e distorto il sorriso dal capogiro dell’assenza.
Io. Che ho l’indirizzo del tutto va bene ormai smarrito e vallo a ripescare sotto un cielo indispettito da questo nostro tempo cattivo che non lo liberiamo mai come vorrebbe.
Io. Che ho un solo piano di fuga con una scala sotterranea di disaccordi tanti, che non contempla mai la strada dell’oblio.
Tu. Senti come vibra oggi il silenzio, senti come fa rumore ogni addio.


venerdì 8 novembre 2013

Giocarsi a carte scoperte


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Ilaria Guccione, Mancarsi gli occhi (Palermo, novembre 2013)

Lei gli ostentava i suoi begli occhi bassi, e non era dispetto né paura ma il ripassarsi con coraggio del commiato l'andatura.
Lui le cercava ripetutamente il viso, per riproporle compromessi noti come fossero un regalo inaspettato e perché lei gli ammirasse il suo sorriso becero e ostinato.
Lei scivolò un istante sui soliti pensieri accesi, si ritrovò scottata e canticchiò alla punta delle scarpe quella vecchia canzone con la sua andatura stonata.
Lui disse guarda che domani io e poi dopodomani noi. Ma insomma tu. Perché non mi guardi più? Perché lo sai che io. Ciononostante noi. Ma insomma tu. Perché cazzo non vuoi guardarmi più?
E’ che lei, a furia di giocarsi sempre a carte scoperte, ormai sentiva un freddo da farle crepare il cuore. E allora continuò a cantare lentamente quella canzone, che sapeva scaldarla più di qualsiasi bottiglia.
Gli lasciò frettolosa sul tavolo un due di picche con il bicchiere mezzo pieno e il conto da pagare, ché lo sapeva bene ormai: soltanto quello lui era in grado di saldare.
Lui la rimpianse tanto ma proprio tanto: il tempo che durò tra loro quell'imprevisto e rapido saluto.


giovedì 7 novembre 2013

Di Sosia in sosia

Ilaria Guccione, Somiglianze? (Palermo, novembre 2013)



No, questo era un altro Goljadkin, assolutamente un altro, ma nello stesso tempo identico al primo: la stessa statura, la stessa figura, vestito allo stesso modo, con la stessa calvizie; in una parola niente, assolutamente niente era stato trascurato per avere una somiglianza perfetta, tanto che, se si fossero presi e messi uno accanto all’altro, nessuno, letteralmente nessuno, avrebbe osato dire chi fosse realmente l’autentico Goljadkin e chi il falso, quale il vecchio e quale il nuovo, quale l’originale e quale la copia.
(Da: Fedor Dostoevskij, Il sosia)

Sosia. Dicono che sia uno che ti somiglia tanto ma così tanto ma proprio tanto che potrei scambiarlo per te.
E tu intanto mi dici che io di te ho conosciuto solo il tuo sosia che ora se n'è andato chissà dove e io allora mi dico chissà se a parlare ora sei tu o il sosia del tuo sosia o un altro sosia ancora. Forse sei proprio come Sosia che, pur di non prendere ancora botte dal suo sosia, cominciava a dubitare di essere se stesso. E ci provava a giurare su Giove che lui era lui e non diceva mica il falso ma il suo sosia gli rispondeva d'esser pronto a giurare su Mercurio che Giove non gli avrebbe mai creduto. E aveva ragione da vendere, perché il sosia di Sosia altri non era che Mercurio, che aveva assunto le sembianze del povero schiavo di Anfitrione. Mentre Giove se la spassava con Alcmena la quale pensava di concedersi al vero Anfitrione, cioè suo marito.

La mattina lei entrava in classe barcollando leggermente sui tacchi e con la sigaretta già accesa tra le labbra. Piccola, le borse sotto gli occhi che erano tratteggiati sempre a nero. Aveva gambe sottili e una pancia prominente. Erano forse quei bicchierini di amaro che riempiva e svuotava in un lampo aprendo e chiudendo un vecchio mobile a chiave, per nascondere al marito la bottiglia. Non sopravvisse molto alla mia licenza liceale, appena qualche anno, eppure era la più giovane dei miei docenti, era più giovane di me adesso, quando arrivava con quel suo passo oscillante ed il sorriso spartito con la sigaretta. Passava le ore di lezione camminando per l'aula e fumando, passando dal greco al latino al sanscrito, tirando a sorte le vittime da interrogare coi numeri della tombola. Un giorno portò l'Anfitrione di Plauto e cominciò a leggere, anzi: a recitare, saltellando allegra tra latino e italiano, tra un personaggio e l’altro.

Che sia una tragicommedia, fa dire Plauto a Mercurio nel prologo dell’Anfitrione. Una tragedia che un dio sa bene come mutare in commedia senza cambiare neanche una battuta. Come tutto questo folle andare, questo continuo giocare a scambiarsi i ruoli, invertire le battute, rigirarsi il senso delle frasi più chiare. Fingere di non capire, sbattere la testa contro qualunque muro e dirsi che nessuno si è fatto male. Provarsi infine a scegliere una risata che sappia almeno un po’ d’intelligente per non dover ammettere di non aver capito niente. Per non chiedere spiegazioni, per non spendersi in scuse e potere andare altrove a ricominciare, tirando fuori le stesse battute. Tentare di salvarsi in extremis, giocandosi l’onestà dei gesti andati dicendo falso quell’essersi somigliati tanto.
 
Fai attenzione però che non ti capiti di imbatterti nel tuo sosia come successe a quel povero diavolo di Jakòv Petrovic’ Goljadkin, che si rivelò essere il suo peggior nemico, tra tutti quelli inesistenti che già aveva da affrontare. Ché quel suo sosia crudele era se stesso e lui finì ricoverato, continuando ad esser matto.





domenica 3 novembre 2013

Quel posto chiamato nostalgia


SanDomenico
Ilaria Guccione, Saudade (Palermo, settembre 2013)

In greco “ritorno” si dice nòstos. Álgos significa “sofferenza”. La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare. Per questa nozione fondamentale la maggioranza degli europei può utilizzare una parola di origine greca (nostalgia, nostalgie), poi altre parole che hanno radici nella lingua nazionale: gli spagnoli dicono añoranza, i portoghesi saudade. In ciascuna lingua queste parole hanno una diversa sfumatura semantica. Spesso indicano esclusivamente la tristezza provocata dall’impossibilità di ritornare in patria. Rimpianto della propria terra. Rimpianto del paese natio. Il che, in inglese, si dice homesickness. O in tedesco Heimweh. In olandese: heimwee. Ma è una riduzione spaziale di questa grande nozione. Una delle più antiche lingue europee, l’islandese, distingue i due termini: söknudur: “nostalgia” in senso lato; e heimfra: “rimpianto della propria terra”. Per questa nozione i cechi, accanto alla parola “nostalgia” presa dal greco, hanno un sostantivo tutto loro: stesk, e un verbo tutto loro; la più commovente frase d’amore ceca: stỳskà se mi po tobě: “ho nostalgia di te”; “non posso sopportare il dolore della tua assenza”. In spagnolo, añoranza viene dal verbo añorar (“provare nostalgia”), che viene dal catalano enyorar, a sua volta derivato dal latino ignorare. Alla luce di questa etimologia, la nostalgia appare come la sofferenza dell’ignoranza.  Tu sei lontano, e io non so che ne è di te. Il mio paese è lontano e io non so cosa succede laggiù.
(Milan Kundera, da: L’ignoranza)

Nostalgia è questo non sapersi il giorno del ritorno.
Immaginarsi mille volte il gesto del saluto, l’incontro rinnovato, le antiche geometrie di un abbraccio, il battito del cuore accelerato, l’odore dell’erba impregnata delle memorie ambigue della notte.
Prendere appunti, intanto. Sperare di riconoscersi tra i piedi la strada che sa di casa inchiodandoci i ricordi come cartelli, aggrapparsi ai sassi, alle crepe delle case, al cielo stordito dal tramonto, ridisegnarsi un sorriso antico che allo specchio continua a salutarci straniero.
E lui che finalmente scorse la strada del ritorno, si regalò il passo cieco del silenzio fino a raggiungere vendetta e donna e regno. Ma fu un approdo di momentanea quiete, ché già pensava a regalare al mare e a sé nuova partenza.
Ed io che dopo anni mi portai a forza sotto quel balcone, armata di dolore e malcontento, alzai lo sguardo verso quel cielo che minacciava di parlar di pioggia e mi ritrovai pronta per mille altri viaggi. Fu come incappare in un sorriso che mi sapevo già e che avrei ancora incontrato in chissà quanti ritorni.



giovedì 31 ottobre 2013

La strega pasticciona e il suonatore d’organetto



Ilaria Guccione, Musicomio (Palermo, 2013)

E’ la notte del 31 ottobre. Anche quest’anno è ormai tornata la notte delle streghe, quella che gli abitanti del mondo normale chiamano notte di Halloween, con i suoi dolcetti e scherzetti per i bambini, e gli adulti tutti pronti a camuffarsi da esseri più o meno spaventosi perché ogni scusa è buona per far festa tra loro.
Carola aspetta ogni anno questa notte con impazienza: perché lei è una strega, inesperta ancora, ma pur sempre una strega. E le notti magiche come questa le permettono di rigenerarsi e di ricevere in dono qualche nuovo potere o formula magica.
Ma stavolta per lei questa notte ha un significato speciale: un’occasione unica per compiere una magia che non potrà mai più ripetere.
Di secolo in secolo, di generazione in generazione, nella sua famiglia i poteri sono stati tramandati di donna in donna. E così ricette astruse, formule estrose e candele accese a migliaia da causarti l’insonnia, ché non ti puoi mica addormentare fin quando non finiscono di bruciare o rischi di autocondannarti a un rogo casalingo.
Una gran fatica quella di essere streghe, Carola lo aveva capito fin da subito. Perché lei è una strega buona e le streghe buone non fanno altro che aiutare gli altri. Perché la gente viene a cercarti anche se non sa che sei una strega: è come se la legge della calamita si impossessasse di te. E allora c’erano giorni in cui Carola sentiva l’esigenza di fuggire e nascondersi dal mondo normale, quattro robe nella sua borsetta da viaggio ed eccola scappare sulla sua scopa, fino ad una grotta in collina.
Ah… la meraviglia del silenzio profondo, della solitudine che ti avvolge e ti permette di liberare i pensieri… e anche di fare magie, beninteso. Una strega che si rispetti non può mai smettere di esercitarsi e quindi avere un proprio rifugio è fondamentale, un buco, un piccolo buco oscuro illuminato solo dalle candele e dalla luna, un buco in cui nessuno ti venga a chiedere aiuto.
Che poi le streghe non esperte come Carola, diciamolo pure, non sono mica tutte brave ad aiutarsi da sé: a volte ridiventano come tutti gli altri, avrebbero bisogno di un po’ di sostegno perché provano paura e stanchezza anche loro, ma se la gente è abituata a vederti come il suo parafulmine neanche ci arriva al fatto che forse anche tu, magari ogni tanto, anche solo per qualche oretta, puoi trovarti in difficoltà come ogni essere umano. E allora, via: meglio il buco!
Negli ultimi tempi Carola stava sempre di più rintanata nel suo amato buco. Come era rassicurante la sua tana, solo lì si poteva perdere in se stessa, poteva veramente riposare o almeno fingere di farlo. Però ogni tanto anche le streghe hanno bisogno di mantenere i contatti col mondo: lei allora usava la sua bella e potente sfera di cristallo, che però ha i suoi pro e i suoi contro: perché finisci con il captare sempre le solite persone che hanno bisogno del tuo aiuto. Ma lei ormai cominciava ad ascoltarle sempre di meno, un “sì” ogni tanto, un “bene”, un “hai ragione”, mentre viveva parallelamente nella sua dimensione magica e solitaria.
Finché un bel giorno d’estate, anzi una sera, forse per una curiosa interferenza della sfera, era entrata in comunicazione con un tipo che non conosceva. Lei era distratta e distaccata come sempre però trovava che fosse proprio simpatico, la faceva ridere e le faceva perfino dimenticare tanti affanni che una strega per quanto giovane come lei aveva già sulle spalle.
E poi lui le aveva detto di essere un suonatore d’organetto… Come deve essere bello, pensava Carola, fare magie con la musica, come fa lui. Note che danzano nella testa, fino a trovare un ordine, una collocazione nota dopo nota, un senso, volteggiando nell’aria.
Ah lui: anche lui ovviamente aveva un nome, si chiamava Valentino. Che nome buffo, romantico anche: tutti gli abitanti del mondo normale si rivolgono a un santo con questo nome quando sono innamorati, almeno per un mazzo di rose o una confezione di cioccolatini una volta l’anno.
Valentino e Carola si ritrovarono a parlare anche di solitudine… ah che interminabili discussioni! Lui continuava a ripeterle che non si può stare soli, che la vera sfida è l’essere in compagnia, che è facile condurre una vita in solitudine, che lui lo sapeva bene, mentre lei si affannava a sostenere che no, la solitudine non è necessariamente una condanna, ché lei aveva consacrato anni della sua vita alla solitudine e che da sola ci stava benissimo: come si fa a condividersi anima e pelle con qualcuno se prima non si è imparato a star bene da soli?
Intanto Carola si ritrovava a pensare: come sarebbe bello girare il mondo insieme e camminare e camminare per boschi e sentieri e colline e spiagge e fischiettare piano la sua musica raccogliendo bacche ed erbe mentre lui suona!
Intanto il tempo passava, passavano i giorni, le sere e anche i mesi e passò una stagione intera e improvvisamente Carola dovette riconoscerlo: Valentino era sempre più spesso nei suoi pensieri. Mmm che cosa incresciosa, pensava la strega. Incresciosa e pericolosa. Io sono una strega, mica una qualunque, che si sveglia la mattina, apre la finestra e dice al mondo: oh mi sono innamorata.
No, no no… è roba troppo rischiosa, Carola non ti puoi mica innamorare di questo suonatore d’organetto, e poi lui è un tipo assai bizzarro! Perché qualcosa di strano ce l’aveva, lei lo sentiva, lo leggeva tra le righe… e tra le nuvole sulle quali così spesso lui si perdeva.
Non che Carola non si fosse mai innamorata, accade anche alle streghe, sia chiaro, un incidente di percorso come un altro, questa era ormai la considerazione della nostra strega sull’argomento. Perché lei ormai lo sapeva, aveva capito che quando stava sola, nel suo buco oppure in giro per il mondo, in mezzo agli abitanti del mondo normale, stava meglio. Aveva studiato l’arte della solitudine con scrupolo per anni, non era mica una impreparata sulla materia!
Però qualcosa si stava insinuando in lei, Shhhhhh c’è qualcosa che avanza nel mio cuore, striscia, come uno di quei serpenti che di solito all’improvviso ti incanta… qualcosa che forse ormai l’aveva presa per distrazione. La distrazione è l’unico modo in cui si possono catturare le streghe.
Ecco, dev’essere stata colpa della mia maledetta distrazione! Eppure quante volte a lezione di magia le avevano detto: una strega non deve mai distrarsi, altrimenti è la fine. E invece no, lei è anomala anche come strega, una che si perde, non crede che esistano solo due mondi, quello normale e quello magico: per lei c’è un terzo mondo, il suo, quello che è totalmente suo e in cui lei si sente perfettamente a suo agio, come sotto una coltre in pieno inverno, delizia, consolazione e rifugio.
Eh… però… Patatrac! La frittata eccola lì ormai, nel suo bel piatto di portata: la strega si era innamorata. Fosse stato un amore non corrisposto, di quello che sbirci silenziosamente l’oggetto dei tuoi desideri attraverso la sfera magica o specchiandoti nell’acqua di un ruscello in certe notti di luna crescente o piena, sarebbe stato forse meglio.
Ma lui no, il suonatore di organetto diceva di amarla, e mentre glielo ripeteva, le suonava melodie sconosciute in cui lei si perdeva, le regalava abbracci sconfinati e sorrisi e baci dalla durata infinita e le raccontava di lei come se la conoscesse da sempre.
Perché sì… almeno di questo erano certi: si erano semplicemente ritrovati, si conoscevano da sempre. Dovevano essersi conosciuti in un’altra vita, magari vagando per il cielo, lei con la sua scopa e lui sospeso tra una nuvola e l’altra.
Lei ci provava a opporsi a questa nuova, insolita magia ma la sua resistenza durava poco, non poteva proprio sottrarsi perché ci credeva, perché non faceva altro che pensare a lui e allora finiva col fare disastri, come bruciare i pentoloni con le sue pozioni, rischiando di dar fuoco alla casa.
Sentiva il suo respiro respirare col suo. Lo sentiva costantemente accanto a sé anche se di fatto lui non era lì con lei e ciò le procurava gioia e a volte pena. Passava le notti a vegliarlo, a proteggerlo, perché lui le chiedeva di tenerlo stretto a sé e di essere protetto. E lei trascorreva ogni giorno ad aspettarlo.
E lo sentiva, come averlo dentro, come essere il suo riflesso, anche quando lui era triste e diventava cattivo, quando si dilaniava alla ricerca della perfezione ma non la trovava. Non avrebbe potuto, lui apparteneva al mondo normale che è privo di perfezione, ma lui non era perfetto come non lo era il mondo di cui faceva parte. Dirglielo però era inutile, soprattutto in quei momenti.
Insomma, anche per una strega come Carola mica potevano esistere storie d’amore perfette. Ah già… la perfezione! Non può esistere perfezione in una storia d’amore tra un abitante del mondo normale e una strega. La cattiveria, quella sì che sa essere perfetta e inopportuna e ti assale come un’accusa ingiusta quando meno te l’aspetti.
E quando lui diventava cattivo, lei si sentiva sommersa, invasa dalla sua rabbia, e avrebbe voluto anche lei distruggere il mondo (ma quale poi? Finiva solo con lo scalfire il suo), e per non farlo si ritrovò un giorno a scappare nel bosco e a ferirsi a un braccio in mezzo ai rovi per smettere di sentirlo e tentare di liberarsi da quel peso così opprimente, come di nuvole pronte a scatenare temporale.
Si sentiva persa, sì… come si sentiva persa tutte le volte che lui la accusava di essere troppo buona. Ma io sono una strega buona, sono così, come potrei essere diversa? Continuava a ripetergli. E allora ecco arrivare le lacrime silenziose, e la sfera ricoperta col suo panno scuro e il rifugiarsi nel suo buco.
E se qualcuno la cercava, le poche volte che metteva il naso fuori dal suo nascondiglio, rispondeva distrattamente: cosa mai avrebbe potuto capire la gente che la prendeva per matta così com’era, nella sua finta veste di abitante del mondo normale? Delle streghe       -ahimè-  ci si serve per convenienza, poi ci si dimentica di loro e si mandano al rogo o in un angolino: questa è la triste realtà. E allora giù altre lacrime copiose…
Carola ci provava però a reagire e, lentamente, mandava sorrisi e pensieri tinti di speranza e gioia a Valentino, non appena presagiva i suoi malesseri, ma ogni tanto sbagliava di nuovo, perché lei non era ancora una brava strega, e provava a parlargli, e veniva di nuovo travolta dalla cattiveria e ogni frammento di mondo possibile le crollava addosso, aguzzo. E non importava di quale mondo fra i tre fosse… faceva male e basta.
Eppure glielo aveva anche detto, fin da subito: io non sono perfetta, se tu cerchi la perfezione hai sbagliato indirizzo e destinataria, vivo in un mondo perfetto in cui sono felicemente imperfetta… non mi distruggere, ti prego.
E lui prometteva che non lo avrebbe fatto, che voleva solo che lei rimanesse così com’era, che stesse con lui finché lo avrebbe voluto: soluzioni semplici e rassicuranti per una situazione complicata. Ma poi lui ricominciava, come se tentare di distruggerla fosse necessario e spigoli di cielo le piovevano addosso, come frammenti di specchio infranto; lei però, ostinata, attendeva paziente che rispuntasse il sole e allora sì che poteva uscire dal suo buco e sorridere. E sorridergli, respirando finalmente a pieni polmoni, sollevata.
Ma ogni strega che si rispetti, e in fondo anche lei lo era (almeno un minimo rispetto le toccava!), sa che nel mondo reale lei non può esistere. Questo era ciò che più intimoriva Carola. Per una strega non c’è posto nel mondo normale e per quanto Valentino vivesse tra le sue nuvole, faceva pur sempre parte di quel mondo. Sì, lui aveva il suo mondo, nel bene o nel male, del quale lei non avrebbe mai fatto parte. Ma ogni tanto Carola non ci pensava, perché era così bello ritrovarlo lì, così indispensabile lasciarsi cullare dalle sue parole e dai suoi abbracci, vivere la necessità del loro esistere in due.
Ma un brutto giorno, come solo nella realtà accade e non nelle fiabe, Valentino decise di andare via. Non voleva più stare con lei. Non voleva e basta. Aveva altro da fare e basta. Aveva paura e basta. Non voleva parlarle più e basta. Aveva fatto le sue scelte e basta: aveva il suo mondo normale che l’aspettava. E questo gli bastava. Gli abitanti del mondo normale sono fatti così, vanno via e basta.
Così Carola si ritrovò suo malgrado con delle ferite da donna normale da curare, ché neanche i medicamenti magici servono a molto in questi casi e decise che solo il silenzio e il suo buco avrebbero potuto, non curarla, ma almeno lenire il dolore. E ci si rintanò, per l’ennesima volta, senza sentire più niente, senza vedere più nessuno. Ascoltava le musiche che lui un tempo le suonava, scoppiava a piangere… poi niente più.
Un assordante silenzio la cullava in notti di infinita veglia, in cui i rari sogni si popolavano di persone che parlavano, parlavano, urlavano ed ecco che le voci, il rumore che durante il giorno rifuggiva si riversavano in apocalittici incubi. Come se tutti volessero dire la loro: era forse la solita gente che aveva bisogno di lei? Come se ognuno dovesse parlare più forte dell’altro per farsi sentire: le gridavano per l’ennesima volta che era pazza?

Ma ritorniamo finalmente all’inizio della nostra fiaba: la notte del 31 ottobre, la notte delle streghe. Ne ha già vissute tante Carola, questa però è davvero speciale: vuole che almeno in questa occasione il suo Valentino sia con lei.
Ma perché una creatura del mondo normale e una strega che non ha al suo attivo grandi e potenti incantesimi si incontrino grazie alla magia, esiste solo una possibilità: che lui sia trasformato in qualcos’altro. E come se non bastasse lo sforzo necessario a trovare il coraggio per parlare con Valentino e proporglielo, ci si mette anche lui, perché non è mica convinto, lui è uno che i dubbi li coltiva con cura (forse non ci crede affatto che lei possa fare una cosa simile?) ma alla fine le dice: mmm… vorrei essere trasformato in un cavallo bianco.
Oh e perché mai? Chiede stupita Carola.
Così… per essere un po’ romantico! Risponde lui, disarmante.
Ma… mi toccherà cavalcarti, lo sai? E se poi tu mi disarcionassi? Non sono mai andata a cavallo, io. E se ci perdessimo?
Lui la rassicura, no, certo che no: tutto questo non succederà.
E allora Carola si concentra e recita la formula magica appropriata:
Tre dita di assenzio e un rametto di corallo:
Che tu sia trasformato in un bianco cavallo.
E pouffffffffffffffffffffffffffff! Al posto di Valentino, ecco ora un cavallo bianco!
E adesso dove vuoi andare? Gli chiede lei.
Ma nella Camargue, mia Cara! Esclama lui, scalpitando. Allora intraprendono il loro viaggio, e lei cavalca prima un po’ impacciata, poi sempre più rilassata e sicura.
Ma un giorno Valentino diventa improvvisamente irrequieto, scalcia e la disarciona e solo dopo le dice: perdonami, è che sono triste, sono inquieto, volevo essere un cavallo bianco per sentirmi libero ma la sabbia e la terra mi hanno sporcato e il colore che ho ora non mi piace, non mi hai messo sella né briglie ma io mi sento ugualmente prigioniero e… non posso più suonare. Trasformami in qualcos’altro, ti prego. Trasformami in un grillo.
Un grillo? Ripete stupita Carola.
Sì, così sarò tascabile e leggero e potremo continuare a viaggiare a lungo e soprattutto potrò cantare per te. Così sì che mi sentirò libero!
Va bene, dice Carola, anche se certo non è proprio convinta al pensiero di  portarsi dietro un grillo, non perché tema di diventare un po’ come Pinocchio martellato dalla sua coscienza ma perché i grilli non l’hanno mai fatta impazzire. Però è sempre Valentino, e allora le scappa un sorriso e si dice: ma sì, che importa! Ci vuole la formula giusta… Devo solo ricordarmela:
Un due tre... un pizzico di timo e due di rosmarino
Da adesso tu sarai il mio grillo canterino.
E poufffffffffffffffffffffffff! Ecco Valentino trasformato in grillo!
Il grillo si dimostra un compagno di viaggio sempre più divertente e simpatico e con grande allegria percorrono nuovi spazi, e quando si fermano a dormire sotto cieli limpidi e stellati Valentino canta per lei e Carola si lascia cullare e si addormenta felice.
Dal momento che lui ora è piccolo piccolo e così leggero e sta tranquillamente in un taschino, lei lo porta a fare lunghi giri nel cielo sulla sua scopa, perché possa toccare finalmente le nuvole, bianche, morbide che si inseguono eternamente nel cielo.
Valentino le parla a lungo delle sue amiche: io amo le nuvole perché sono sagge, le nuvole parlano, suggeriscono, consigliano. Ti nascondono all'occorrenza, ti consigliano e consolano e ogni tanto ti ributtano giù, sulla nuda terra, perché qualcosa di sicuro te l'hanno insegnato e allora vai un po' da solo e vedi che ti succede laggiù. Puoi sempre risalire, quando vuoi... Ma loro non smettono mai di danzare: hanno bisogno di musica per non smettere di respirare. E io allora le accompagno con il mio organetto. Ci si fa compagnia a vicenda.
E poi si spingono ancora più in là, volteggiando, fino a raggiungere la luna. E Carola gli racconta quello che ha imparato su questo magico pianeta, sulla sua forze occulte, sulla sua capacità di influenzare le cose, di comandare ciò che nasce e ciò che muore. La luna accresce, la luna toglie. La luna sì che può incarnare l’assoluta perfetta cattiveria, un po’ come se fosse una perfetta proiezione del mondo imperfetto in cui Valentino vive.
Ma un giorno Valentino ridiventa improvvisamente cattivo e comincia a graffiarla con le zampine. Ti chiedo nuovamente scusa, ma sono triste: ti ho chiesto di trasformarmi in grillo perché volevo essere allegro e spensierato e pazzerello. Pensavo che il grillo mi somigliasse parecchio. Ma non ci riesco, e neanche così mi sento libero, e neanche così posso suonare.
E Carola diventa sempre più malinconica, avevano condiviso insieme un tempo infinito, un tempo di meraviglie e sorrisi e scherzi in cui erano stati insieme ma il loro rimaneva pur sempre un incontro nel mondo magico e nonostante questo le interferenze del mondo normale non li avevano mai abbandonati.
Bisogna che Valentino ritorni al suo di mondo, quello normale, e che Carola torni agli unici due mondi per lei possibili. Ci vuole la formula, quella giusta e come per incanto Valentino tornerà immediatamente da dove è venuto e neanche per un istante Carola potrà trovarselo davanti. Che tristezza, eh! Ma se ne farà una ragione, prima o poi…
Un pizzico di grano e di amaro sale
Che tu torni dunque nel tuo mondo normale
Un soffio di lavanda e di nostalgia
Che tu torni ad essere ciò che tu vuoi che sia.
Eh… però… stavolta succede un pasticcio perché i lacrimoni di Carola si mischiano al grano e al sale e intanto Valentino è di nuovo indeciso e per un attimo, quell’attimo magico, non sa bene chi o cosa voglia essere, si sente mancare la terra sotto i piedi e non sa più dove si trovi e dove voglia stare.
E così Valentino… pouffffffffffffffffffffff! Si trasforma nel suo organetto!
E a quel punto Carola rimane sbigottita, confusa, perduta… perché si ritrova con l’organetto sul suolo a pochi metri di distanza, e non conosce nessuna magia rimedia pasticcio. E mentre il cavallo e il grillo parlavano, l’organetto proprio no, tace.
Che disperazione, cosa faccio ora? Cos’ho combinato? Ma perché non me ne sono stata buona nel mio buco rassicurante, con tutte le candele intorno e le essenze che bruciano e la mia coperta di foglie per le notti di inverno? Che non lo sai, stupidina, che i desideri non sono roba da streghe? Le streghe si pigliano quello che vogliono con determinazione, non desiderano. Vogliono, e in un batter di ciglia e polverine magiche nell’aria, ottengono.
Tu non solo non puoi desiderare alcunché ma, diciamolo pure, non sei neanche fatta per amare, in nessun mondo. Anche gli abitanti del mondo normale, come le streghe, vogliono, pretendono, impongono e ottengono, che poi si sia felici o no, è un dettaglio al quale in pochi badano. Tu invece sai solo desiderare timidamente, a bassa voce. Carola, sei una strega fallita. E adesso che si fa?
Eh… che si fa adesso? Carola rimane seduta per terra a contemplare l’organetto, in compagnia delle sue lacrime, fino a quando… comincia a sentire qualcosa, come uno strano formicolio alle mani, è come se lui volesse essere preso, e lei si avvicina con cautela. Ecco: è tra le sue mani e… le sue dita si muovono sui tasti o forse no, forse sono i tasti stessi che fanno muovere le dita di Carola…
È come se Valentino stesse respirando tra le sue dita e le stesse parlando attraverso quelle musiche che le suonava un tempo. Chi suona chi? Chi parla a chi? Chi respira chi? Sono diventati magicamente una cosa sola… E Carola ha già dimenticato le sue lacrime e si rimette in viaggio, suonando.
E’ stanca ma continua a camminare, è contenta e non smette mai di suonare, e attraversa lentamente la Francia, fino ad arrivare a Parigi. Si è dimenticata perfino di essere una strega e suona, suona, suona sulle rive della Senna, di ponte in ponte, di giorno in giorno, di melodia in melodia.
E il tempo scorre, lento come le acque del fiume. Lento, come le stelle che trapuntano il cielo, quando Carola si addormenta sotto un ponte. Lento, come le nuvole che continuano a danzare ascoltando la musica di Valentino e Carola.
Ma le streghe, si sa, son dappertutto e anche Parigi ne è piena.
Ed è così che Carola si imbatte in una vecchia vecchissima signora, apparentemente innocua, che se le guardi però in fondo agli occhi vedi come delle fiammelle che si agitano frenetiche e un po’ ti spaventi… Si tratta niente meno che della strega della Senna! Lei sì che è potentissima, lei sì che riconosce al volo le streghe e i loro pasticci. Lei sì che ha una soluzione per ogni problema.
La strega ferma la nostra Carola e la apostrofa: tu, mia cara, sei proprio una strega pasticciona. Volenterosa, sicuramente, ma tanto tanto maldestra e molto molto distratta. Vuoi fare la suonatrice d’organetto a vita, forse? Hai una missione da compiere nella tua esistenza, sei una strega, quindi ti darò una mano a porre rimedio a questo tuo pasticcio. Cosa vuoi fare, portarti dietro un umano sotto forma di organetto per sempre? No, no, no… non si può. E ricorda sempre una cosa, non siamo noi che non esistiamo per loro: sono gli abitanti del mondo normale che per noi non esistono. E’ tutta una questione di punti di vista, bisogna sempre ribaltarli, è questo che salva la vita, anche a noi streghe che in un certo senso non ne dovremmo avere mai bisogno.
La strega fa una giravolta, i suoi lunghi capelli bianchi fluttuano per qualche istante nell’aria per poi ricadere sulle sue spalle ricurve e continua a parlare:
Non pensare però di cavartela impunemente: il mio incantesimo ti priverà dei tuoi poteri. Non sarai più una strega ma sarai condannata a vita a percepire tutti i problemi di tutta la gente che incontrerai, non potrai compiere più alcuna magia ma ti farai sempre carico degli altri e continuerai a dover scappare per trovare sollievo. Per te adesso esisteranno solo due mondi, quello normale e il tuo. Ti ci abituerai, col tempo…
Detto questo, la potente strega della Senna fissa il suo terrificante sguardo su di lei, leva le mani al cielo e poi le punta verso Carola e l’organetto, pronunciando la sua formula magica:
Che il sentiero pria unito
Sia da me poscia diviso
Di Valentino ritorna il viso
Tu suonatrice ritorna al tuo sito
Ad ognuno la sua via, così ho detto e così sia.
E pouffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffff!
Carola, terrorizzata come mai le era successo, non fa neanche in tempo a posare l’organetto da qualche parte, anzi non ci pensa nemmeno, continua a tenerlo stretto a sé come se potesse difenderla da tutto quello che sta accadendo e, nel giro di pochi secondi, si ritrova avvolta da un gran fumo, e… l’organetto improvvisamente… riprende le sembianze di Valentino.
E così la nostra Carola e il nostro Valentino si ritrovano abbracciati… e così stretti e così vicini possono finalmente guardarsi negli occhi.

A questo punto però la nostra fiaba s’interrompe, perché noi di finali lieti e anche tristi per le fiabe ne abbiamo a bizzeffe, ma lasciamo che le storie del mondo reale vadano avanti da sé.
Possiamo solo dirvi che oggi su Parigi risplende un sole d’autunno sereno, e le nuvole danzano, tra un frammento e l’altro di azzurro cielo.