Spider-Boy

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giovedì 28 febbraio 2013

Il ragazzo vecchio ed il vestito nuovo

Ilaria Guccione, Il vestito piazzato (Palermo, 2012)


Il ragazzo. E' di spalle, il ragazzo e rimarrà così fino alla fine della storia. Ha un nome che non è facile né difficile ma non diremo quale perché anche quelle poche lettere ci possono servire per raccontare. E poi  non è neanche più un ragazzo ma anche questo non importa. Il ragazzo ha una buona dose di paura che se la nasconde dentro i pantaloni e quando la sente esplodere non chiede il permesso a nessuno, va via senza lasciare un saluto.
Il ragazzo ha una storia complicata, così ti dice se lo incontri e riesci a parlargli. Il ragazzo ha una storia semplice, ché a complicare tutto siamo sempre noi ma questo lo dico io e ai fini della storia sua non vale, che non ci raccontiamo tutti allo stesso modo, ognuno ha il suo punto di vita e se non lo tieni da conto ti conviene il tuo punto di vista, fare il giro degli specchi di casa, un inchino e non uscire più di casa.
Il ragazzo cerca qualcosa. Che lui cosa sia nemmeno lo sa, sì a volte forse ci pensa ma poi è costretto a distrarsi. Per respirare meglio, per far meno conti, per fingere di annullarsi ogni debito. E continua ad andare. Perché quello che cerca non te lo sa raccontare se non con le parole degli altri. Ma vai che vai te lo ritrovi sempre qui.
Il ragazzo cerca un vestito nuovo, di quelli buoni anche per i giorni cattivi. Ma il ragazzo non sa quale colore scegliere né che modello né dove andare a trovarlo. E allora continua ad andare. E quando capita prende quello che trova e lo indossa in fretta.
Il ragazzo a volte finge di dimenticare ma non credetegli ché ha buona memoria. E' solo che passato e presente non li sa affrontare. E far voti per il futuro è sempre più semplice.
Il ragazzo dice che ha un dolore che si porta da sempre nel taschino della giacca. E ci prova anche a spiegartelo ma di sintomo in sintomo se non ci sei passato non lo puoi neanche immaginare.


Di partenza e di arrivo

Ilaria Guccione, Donne in sosta (Palermo, 2013)

A volte si è di partenza e di arrivo nello stesso momento. Che è come dire che non hai fatto un solo passo di quelli che non conoscevi già, di quelli che un minimo dettaglio della faccia te lo cambiano, per evitare di perderti. Che poi non sapresti come fare a muoverti, che poi non sapresti a chi chiedere aiuto, che poi non sapresti neanche se quel che vuoi è tornare indietro. Anche se magari un po' qua e un po' là hai macinato chilometri e sei convinto di poter battere il dubbio degli altri su una distanza misurata in biglietti e dépliants.
E sul peso di regali che non ti avevano neanche chiesto e su quel qualcosa che hai sicuramente comprato, ché un souvenir serve sempre e lo si può tirare fuori al momento opportuno. E neanche ci fai caso che l'hai già buttato insieme agli altri a far polvere.



martedì 26 febbraio 2013

Un capoverso con un buon rientro di senso

Ilaria Guccione, E la bimba si diverte (Palermo, 2013)

E le giornate storte. Che ci si fa lo sgambetto da soli. Che mi accontenterei almeno di un occhio chiuso sulla notte, per evitare che i pensieri più aguzzi mi prendano a botte fino all'alba.
Le giornate storte. Che io magari ne ho una ogni dieci e lo dico, tu ne hai trenta ogni mese e taci. Ci si potrebbe giocare alla conta dei danni e degli strappi. Che io i miei li so e so pure che vinco io perché tu i tuoi, assuefatto come sei dalla fila dei giorni e degli incontri e del come e del quanto e del meglio ma forse e per ora mi va bene così, non te li riconosci nemmeno.
Ti ci vorrebbe un capoverso nuovo con un buon rientro di senso. E spazio che ti basti per mettere insieme almeno un paio di frasi in cui tu ti riconosca per davvero. Poche essenziali battute per giocarti d'anticipo te stesso battendo il tempo che gli altri ti danno. Dici che non ti serve, dici che tu ne puoi fare a meno? E dai, regalati un incipit. Un buon incipit è per sempre e ti porta lontano.


domenica 24 febbraio 2013

Mi sono mancata

Ilaria Guccione, Siamo alla frutta (Palermo, 2013)



Ieri c’era tanto sole da confonderti stagione. C'era perfino caldo a girare per le solite vie dove passavano le solite facce e facce nuove che ci si osserva sempre tutti e si rimane in silenzio, un candidato al senato che ci guardiamo male con chi gli guarda le spalle e tanto vi ho già fotografati, un ragazzo che suona per strada e mi ringrazia non per le monete che gli ho lasciato ma perché gli ho scattato delle foto, bambini che si rincorrono sorrisi, facce annoiate tra sigarette e panchine, un uomo che si lascia portare al guinzaglio da otto cani in miniatura. Attimi di vento che al mercato i pantaloni hanno tentato la fuga, piccioni che si presentano puntuali all'ora di pranzo su scheletri di balconi, avanzi di frutta e verdura per terra e cassette vuote a giocare a quale casca prima.
Andavo che avevo fretta. All’appuntamento che mi ero data sono arrivata in anticipo. Ho aspettato l’ora stabilita nel punto convenuto ma non mi sono incontrata. Mi è parso di scorgermi dentro una vetrina ma non potevo essere io che non ho niente da comprare, anche se quell’espressione seria me la sono già vista sulla faccia. Ho fatto il giro dell’isolato per concedermi ancora il tempo di raggiungermi ma quando sono tornata in quel punto lì non mi sono trovata ad aspettarmi. Mi sono mancata anche stavolta ma non avevo voglia di pensarci  o darmi colpa e ho imboccato la prima strada a portata di piede, da sola.


Non voto, ho fatto un voto

Ilaria Guccione, Vota me (Palermo, 2013)
 
Disgiunti, congiunti, dissociati, associati. E croce su tutto quello che ti offrono gli altri che poi ti convinci che lo vuoi pure tu. E va bene così, fai pure quel che vuoi ma non rompere i coglioni a me, ché io da tempo ho fatto un voto e non voto. Ti ricordi di quando votavo? E te lo ricordi almeno che non facevo come te?
Te che una volta ti convince il tempo cattivo, una volta il cognato e ancora meglio se è l'amico dell'amico. E un'altra volta ancora la speranza che siano gli altri a cambiare quello che tu con le tue mani non hai mai provato a modificare. Tra mode del momento che hanno a stento durata di stagione e simpatie che te le porti da casa al seggio e poi chissà. Che poi il seggio è l'unica cosa che nessuno ti cambierà, almeno fino a quando non comunicherai un cambio di residenza.
Convinti, indecisi, col naso tappato, con un occhio chiuso, col pugno alzato, col ginocchio piegato.
Si va di girotondo da una direzione all'altra, che di cerchio in cerchio chi vuoi che se ne accorga. Che qualcuno esulterà e qualcun altro si lamenterà e il gioco poi si ferma qua. Che poi chi si lamenta aumenta ma il gioco rimane fermo qua.


sabato 23 febbraio 2013

Il paese del sorriso

Ilaria Guccione, Il paese del sorriso. 1 (Palermo, 2013)

Il paese del sorriso, titolo da operetta. Di Franz Lehàr. Roba che ci si andava di sera quand'ero piccola alla stagione estiva del teatro Massimo, a Palermo. Roba da lieto fine, che ne mettevano in scena almeno un paio e ti ripagavano di tutti quegli amori tragici invernali, di quelle donne tisiche e di pugnalate e di cantanti che si buttavano da castel sant'Angelo. Perché forse in estate tutto quello che non finisce bene si pensa che porti solo male.
Roba che molti anni dopo ci si spostava dal quartiere romano di Talenti, il grosso della compagnia a casa mia e si arrivava a san Sebastiano e dopo l'ennesimo lieto fine si riaffrontava il viaggio, un po' di Sicilia e di Emilia e Veneto e Toscana, a perdersi di notte in notte la strada di casa.
Il paese del sorriso, dicevo. Ma sì, che anche se non ti piace l'operetta, Tu che m'hai preso il cuor la sai pure tu. Roba da sottofondo pubblicitario per la pasta De Cecco, roba degli anni '80, come l'ouverture de La gazza ladra di Rossini per il grana padano. Oppure l'hai ascoltata in duetto tra la Pausini e un Pavarotti ormai avariato, peggio per te.
Il paese del sorriso, dicevo. Tra Vienna e Pechino si canta e ci si ama. Eppure, stranamente, in quest'operetta qui se ne tornano tutti a casa e l'amore non trionfa, salvo scegliere di rappresentare la variante del finale. E allora dice che l'unico sorriso che rimane è quello della Cina, che poi che ci avranno da sorridere i cinesi non lo so. Insomma, di' addio con un sorriso sulle labbra e poi crepa pure di malinconia.
E a noi, che non ci siamo mossi di un passo, non rimane che farci strangolare da tutti quei sorrisi ipocriti da sagra di paese che, anche se non accendi la tv, te li ritrovi per strada. Nessuno che riesca mai a rubarti il cuore e regalarti qualcosa, al massimo ti si capovolge lo stomaco e ogni volta manca così poco all'ora di cena. Questo nostro non è paese da sorriso ma da bicarbonato.

Ilaria Guccione, Il paese del sorriso. 2 (Palermo, 2013)

L'eccezione è l'unica regola

Ilaria Guccione, La regola (Palermo, 2013)

Ilaria Guccione, L'eccezione (Palermo, 2013)

Ci sono giorni e giorni che procedi a passo lento e sicuro, sempre nella stessa direzione, quella che le coordinate le conosci a memoria perché te le sei studiate a tavolino, sul tuo solito marciapiede di tranquillità apparente, curandoti gesti ed abitudini. E faccia buona per gli acquisti e faccia in posa per i social network e gesti di misura per i giorni feriali e gesti da cerimonia per la messa e per la festa. Solite messe a punto che non si va mai a capo.
Che sai esattamente qual è il vestito giusto, qual è il compromesso che ti costa di meno per accavallare le gambe su ogni divano, con quale gesto della mano sollevi il bicchiere con più eleganza.
Capita, a volte, che un imprevisto ti tiri per i capelli o per la giacca, costringendoti a invertire il passo, a maledire la scelta della scarpa, a non concederti tempo sufficiente per mantenerti il sorriso ufficiale né per distinguere il tuo marciapiede da quello degli altri. E che ti tocchi correre a perdifiato senza saperti più niente, in un attraversamento sragionato di strade che neanche conosci.
A tenere a mente che l'eccezione è l'unica regola che ci segue sempre, ci guadagneresti almeno in fiato.




venerdì 22 febbraio 2013

A due passi di memoria e di cassetto

Ilaria Guccione, Un pulcino tra le pulci (Palermo, 2012)
 
Tra la smania di spacciare il vecchio altrui come fosse il proprio nuovo e quella di acquisire un nuovo che si fa sempre più in fretta vecchio, ci si dimentica bellamente di indossare quelle storie che ci seguono da sempre a due passi di memoria e di cassetto.
Ci si dirotta il passo a portata di moda e di vendita, dovunque ci sia uno specchio ipocrita a comprarvi dicendovi perfetti. Per la serata, per il concerto, per ogni occasione buona da strappo di sorriso e approvazione. E mai nessuno che vi faccia notare quelle ragnatele che vi penzolano costantemente dalle spalle, nessuno che vi ricordi che di quelle sì che dovreste averne cura. La verità è che non se ne accorge nessuno, si è tutti fin troppo concentrati a spolverarsi vicendevolmente la faccia.





giovedì 21 febbraio 2013

Il barbiere dei fratelli Coen

Ilaria Guccione, Barb/ieri (Palermo, 2012)

- E se fosse qualcosa che non si può raccontare?
- Che vuol dire? Tutto si può raccontare. Basta mettere una parola dietro l’altra.
- Qualcosa che non si può raccontare. Qualcosa che è passato da tempo, ogni tempo ha i suoi racconti, e se si lascia passare l’occasione, allora, a volte, è meglio tacere per sempre. Le cose decadono e diventano inopportune.
- Io credo che il tempo non passi per nessuna cosa, resta tutto lì, in attesa di farlo tornare. E poi, a tutti piace raccontare la propria storia, anche a quelli che non ce l’hanno. Se i racconti sono diversi, il significato è lo stesso.

(Da: Un cuore così bianco, Javier Marìas)

Pensa a un barbiere, il primo che ti viene in mente. Escludi quello sotto casa dei tuoi, quello che era sabato e papà dov'è, è andato dal barbiere, e tornava con quel profumo inconfondibile che l'avresti indovinato lo stesso.
E allora penso a quell'altro, un tipo taciturno e solitario, che di mestiere fa il barbiere, anzi no: lui in quel mestiere ci è inciampato dentro o meglio ancora ci si è sposato. Con la sorella del barbiere.*
La sua è una storia che parte in piedi davanti a una poltrona da barbiere, mani sulla testa di un cliente e finisce che è lui quello che si ritrova seduto, sulla sedia elettrica.
Lui ci prova a cambiarsi la trama ma rimane ingarbugliato, tra un taglio di capelli e l'altro, che ogni volta buttarli via gli costa pena. E continua a inciampare, in un tentativo di riscatto e in uno di ricatto, in un tagliacarte che ci si difende e si ammazza, in una moglie che si impicca in carcere e in un altro morto, che lui non c'entra niente ma è per quello gli tocca pagare.
E lui che in mezzo a tutto questo si sente sempre di più un fantasma attraversato dalle vite degli altri. Fino a quando in prigione non scrive la sua storia per una rivista, 5 cent a parola. Che dei soldi non se ne farà niente. Ma tutto quel nero su bianco gli ha fatto acquistare finalmente consistenza e senso. E magari qualcuno si ricorderà di quella storia lì, anche quando i suoi capelli avranno smesso di crescere.


 
*Il barbiere è Ed Crane/Thornton, il protagonista del film  L'uomo che non c'era, di Joel ed Ethan Coen (2001). La frase riprende l'incipit del film.











martedì 19 febbraio 2013

... o finalmente sceglierai

Ilaria Guccione, Italia ingiusta (Palermo, 2013)


Lui la stava aspettando e lei neanche lo sapeva perché aveva perso gli occhiali e salutava con affetto solo le persone sbagliate.
Lei lo stava cercando ma lui neanche lo capiva perché aveva l'orologio che segnava un'ora indietro e mancava sempre ogni appuntamento importante.
E poi c'era tutto quel frastuono, tutto quel dover fare per fare. Tutto quel raccattare punti per non sfigurare. Tutte quelle facce per strada a far gara a chi è il più bravo. Tutti quei vestiti sui muri a far gara a cosa è più vantaggioso. E tutte a segnar prezzi, sospese su tacchi che nessuno te lo dice che fanno veramente cagare perché gli sbatteresti in faccia il prezzo. E tutti a segnar nomi mai sentiti, che nessuno te lo dice che fai veramente pena, perché gli sbatteresti in faccia il posto che hai.
Si incontrarono ad un seggio elettorale. Ma, impegnati com'erano a far eleggere qualcuno, lei il migliore in assoluto che era sempre quello, lui il meno peggio che a stento ne ricordava il nome, non ebbero il tempo di guardarsi negli occhi e di scegliersi, strappando l'uno all'altra qualcosa.
Eligere.* Di verbo in verbo, di parola in parola è sempre la solita fastidiosa storia. Ci si ferma al primo significato, quello che la gente ti vende a buon prezzo, quello della tv, quello dei fidati di me che poi basta una telefonata.
Così neanche ci provi più ad aprire un dizionario e ragionare di tuo, neanche ci provi a regalarti la possibilità di una scelta. Come quando ti  fiondi al cinema più vicino perché di fine settimana ti tocca. Come quando lasci che a scegliere il film siano gli incassi al botteghino e le recensioni allettanti. E poi magari ti lamenti anche. E come quando... come quando. Regalati un attimo solo per te e vedrai che lo sai.

*Eligo, is, legi, lectum, ligere: scegliere, eleggere, strappare (cogliendo).


Quando due occhi son troppi

Ilaria Guccione, San Cataldo alle spalle (Palermo, 2013)


Ci sono giornate che ci devi per forza fare il conto. Ci sono giornate che è come stare a una finestra e tu li guardi, tutti a passare e andare via. Ti forzi ad un tentativo di saluto e neanche ci riesci, che tanto non ti guarda nessuno. Son presi da quel tenersi compagnia d'orologio che non prevede nessuno sguardo da due decimi di secondo per te. E i tuoi soliti due occhi non ti bastano. Ostacolo di distanza che ti sfoca tutto. Imprevisto di lacrima che ti appanna la vista mentre loro ancora vanno. E' che certi giorni due occhi son davvero troppi, per piangerci e per addormentarli. E' che non ho mai avuto un fazzoletto buono per i saluti. E' che certa gente non vale neanche il tempo di un mio sputo.
E allora ciao ciao, che neanche te  lo dico. Che con le persiane ormai chiuse non mi sentiresti nemmeno.



domenica 17 febbraio 2013

Post quasi d'amore

Ilaria Guccione, Prova a togliermi la brioche (Palermo, 2012)

C'è un bambino che sale un cancello
ruba ciliegie e piume d'uccello
tira sassate e non ha dolori
volta la carta, c'è il fante di cuori.


Chissà dove sei, chissà dove sei mai stato.
Sepolto sotto un mucchio di parole che fanno troppo peso e sempre disarticolato tra il desiderio e il fare.
Se volto carta, non ci trovo quasi niente. Non trovo nessun fante ma a volte un impiccato ciondolante.
Impegnato in quale guerra che tanto perdi sempre in partenza, che sarebbe meglio starti dentro o almeno andare altrove e di tutto il resto fare senza.
Qui non c'è quasi niente da dire. Che se anche ci fosse, per te sarebbe uguale ma di sassi da schivare ce n'è sempre in abbondanza e anche di dolori da scontare con la solita pazienza. Si fa quel che si può, si avanza e si indietreggia fino a luce spenta. Che raramente porta sonno, ripago con la notte ogni mio santo giorno.
E non tenermi mai in memoria di noia. Trattienimi nell'ombra se ancora ti riesci a ricordare dove trovare entrambe. E il resto lascia stare.


Filo filo del mio cuore

Ilaria Guccione, Balcone con signora alla Kalsa. 1. (Palermo, novembre 2012)
 
Passa il tempo e la gente ci passa attraverso, pensando di rimanere immobile e protetta dai consueti rassicuranti rituali. La tazzina di caffè al mattino e va bene così con lo zucchero, la biancheria stesa nei giorni buoni e speriamo che non piova proprio oggi. E quel migliaio di soliti pensieri circolari a tentar di far quadrare. E se la geometria non funge, per ora lascia stare.
Passa il tempo che neanche te ne accorgi se non fosse per dettagli microscopici. Ché devi averci occhio buono per vedere quella goccia di caffè caduta sotto il tavolo e quel piccolo foro nel lenzuolo troppo usato. E memoria inossidabile per distinguere il prima dal dopo.
Passa il tempo che non passa né rapido né lento. Passa con il suo tempo e ti allenta e ti tira il filo, te lo dice quella smagliatura da trucco che ti violenta l'occhio e allora ti disperi, te lo dice quella cicatrice che ti è sbiadita sull'addome e tu ormai neanche ci fai caso.
Filo filo del mio cuore che dagli occhi porti al mare, c'è una lacrima nascosta che nessuno mi sa disegnare.

Ilaria Guccione, Balcone con signora alla Kalsa. 2. (Palermo, gennaio 2013)



venerdì 15 febbraio 2013

Andate a rubare

Ilaria Guccione, Andate a rubare (1) (Palermo, 2012)

Ho rubato qualcosa a qualcuno che era appena mattino. Senza nessun piano da tirar fuori al momento giusto dal mio zaino sdrucito. Ché il tempo mi mancava, che la voglia di far conti non l'ho mai avuta e poi già ci avevo perso in sonno e non potevo più fermarmi a pensare ma solo spingere ed accelerare. Ho rubato che ne avevo assolutamente bisogno, eppure non l’ho fatto per me. Ché le cose più belle e necessarie sono quelle che rubi per qualcun altro, per farne un regalo inatteso, per tirarle per aria in una giornata estiva. E tutti distesi su un prato ad aspettare che ci arrivi addosso, sicuri che non ci farà alcun male. Non mi capisci? E' che cose e persone le sai solo comprare o giocarci al baratto.
Ho rubato qualcosa che sapeva insieme di nuovo e di vecchio. Roba che non potevo farne a meno, roba che a pensarci bene qualcun altro me l'aveva rubata a sua volta. E allora che cazzo vuoi e ringrazia che prendo e vado via, senza spaccarti la faccia.
Andate a rubare tutto quello a cui non potete rinunciare e che vi viene negato e sotratto. Non importa dove lo farete ma quando. Vi sentirete come appena scesi da un treno, in una stazione completamente deserta, a respirare l'aria fresca e pungente del mattino.


Ilaria Guccione, Andate a rubare (2) (Palermo, 2012)

giovedì 14 febbraio 2013

Vale, per quel che vale

Ilaria Guccione, Dentro la pozzanghera (Palermo 2013)

Acqua che cade e non cade e intanto c'è da andare. Acqua che piove sempre nel posto sbagliato, dal tetto bucato, su un materasso occupato e sulle scarpe buone degli altri, quelle da tacco in festa che non ti portano mai da nessuna parte ma ci vai su lo stesso. Acqua che preferisco i miei stivali consumati buoni per passi lunghi. E intanto baci e bacetti, fiori e regali cadono a pioggia di vetro in vetro. Che più ti compro e più ti amo e più ti amo e più mi costi. Di santo in santo, si cambia prezzo ma non il vanto.  
Roba da scappare. E poi concedersi quella mia solita panchina per riprendere fiato e raccogliere parole da promemoria per i prossimi giorni di pioggia. Che un po' si bagnano, un po' si confondono e allora ricomincio da capo. 
Ti ho incontrato capovolto tra una pozzanghera e l'altra. Non eri più lo stesso. Dicono: lavori in corso, poi andrà meglio. Ma avevi labbra rifllesse di un grido muto e nessun braccio accanto che fosse pronto a tirarti d'impaccio. Vado che devo andare, che oggi è tutto tempo che mi sbatte contro. eE io che invece ho solo voglia di scappare. Vado che neanche apro l'ombrello, con la pena che mi fa questo inciampare. Ed io che continuo a raccogliere ogni goccia, vado vagando in tutto questo tempo mio che se ne fotte di orologio e calendario.  
Vale, per quel che vale. Cerca di starmi bene, insomma. Almeno fino al tuo prossimo temporale.




mercoledì 13 febbraio 2013

La puttana e il filosofo

Ilaria Guccione, Il gioco del silenzio (Palermo, 2013)



La bella ragazza gli propone di offrirle da bere. La bella ragazza è una puttana. Lui è un filosofo che ha superato la sessantina. Lei si siede accanto a lui, lui le parla di Dumas. Parla per parlare e parla del parlare.*

E non si potrebbe invece smettere di parlare, non sarebbe meglio. Che alle volte le parole giuste non te le trovi da nessuna parte e allora magari è meglio il silenzio, vivere in un assoluto rassicurante silenzio. Perché, se le parole non le trovi, vuol dire che loro non fanno altro che giocare a nascondino tra la testa e la lingua e tradirti. Dice lei.

E guarda che anche noi le tradiamo, le parole. Bisognerebbe riuscire a dire quello che c'è da dire e che siamo così bravi a scrivere. Il problema è trovare le parole giuste, quelle che non feriscono, quelle che non uccidono, quelle che riescono ad essere vere, che quel che dici ti coincide con quel che pensi, che è parola muta. E mentre le cerchiamo, oscilliamo. E mentre le scegliamo, sbandiamo. E mentre le escludiamo, a volte finiamo col mentire senza volere ingannare. Bisognerebbe anche essere allenati ad usare la testa, sennò si fa la fine di Porthos che l'unica volta che si è fermato a pensare non se l'è potuta godere perché ci ha lasciato la pelle.
Parlare in un certo senso è mortale. Perché è come rinascere, come se non facessimo altro che passare dalla morte di una non vita fatta di silenzio a una nuova vita ricolma di parole. Dice lui.

Parlare è accettare il rischio.
E allora le parole. Usarle, tirar fuori proprio quelle. Quelle che sai, quelle che so. Quelle che se non lo fai ci muori due volte ad ogni silenzio o ad ogni sillaba soffocata con cura dal peso delle prime tre che tieni in serbo sul letto per cautela.
Per parlare bisogna usare parole.
Per comunicare bisogna sapere e volere usarle. Dico io.


* La puttana è Nana/Karina, il filosofo è Brice Parain. Il film è Vivre sa vie, di J.L Godard, 1962. Il dialogo tra i due avviene nella parte finale dell'undicesimo quadro ("Nana fa della filosofia senza saperlo").



martedì 12 febbraio 2013

Questo sentimento del contrario

Ilaria Guccione, Ma che freddo fa (Palermo, 2013)

Che stamattina piovesse me lo diceva più che altro quel giocare di gocce sui miei occhiali sempre più rapido mentre io giravo lentamente intorno a villa Garibaldi continuando a pensare al finale di un film con un pianoforte piombato come una promessa di speranza in un cortile malmesso da città del Sud ricolmo di gente tra strada e balconi. Un po' Marsiglia, un po' Palermo, scena che non ricordavo più e vai con qualche lacrima che tanto non mi vede nessuno. Tra un'inferriata e l'altra, ho passato in rassegna distrattamente le statue di garibaldini ripetendomi che sembrano tutti maledettamente uguali a Garibaldi. Pensieri da due soldi per non sentire freddo in una giornata così grigia.
Mi sono ritrovata in una strada senza capire come, una qualunque strada che sapeva sempre più di pioggia e io ero sempre senza ombrello. Ho incrociato un numero spropositato di gente con un occhio a cristo e uno a san Giovanni e ho cominciato a temere che in questi giorni da clausura per salvarmi le vie aeree, che poi me le gioco in un'ora tornando con la testa bagnata, ci sia stata un'invasione aliena. Ancora il pianoforte nella mia testa ma stavolta qualcuno canta.  Amore grande, eterno amore, di più di questo non sai dare.  
O forse sono finita in una dimensione parallela, dovrei riuscire a trovare l'unica via ammessa dalla trama per tornare indietro ma forse prima è il caso di capire se non sia meglio rimanere qui, dove sembra che la gente non riesca a guardarti come dovrebbe e magari mentre ti ruba qualcosa tu riesci a fare altrettanto.  
Con te ho salito i sette piani cercando appigli con le mani.
Tutti mi fissano come se fossi io l'aliena. Sarà che non sono strabica. Sarà che non sto usando l'ombrello e nessun altro tipo di difesa, come sempre. Sarà che lo so che i miei occhi oggi raccontano qualcosa che sta da un'altra parte e in un'altra stagione e che peccato che non ci sia nessuno a scattarmi una foto. 
Ma non trovare all'improvviso la tua presenza ed il tuo viso sarebbe come una mattina svegliarsi ed essere a Messina. Città che è degna di ogni stima ma che vuoi che ci faccia io... a Messina.
Continuo a camminare. Due bambini vestiti da supereroi a me sconosciuti urlano e corrono in via Roma e si fiondano dentro un negozio. Passa una suora alta un metro e forse basta davanti la vetrina, proprio lì dove l'ho fotografata giorni fa, avanza in direzione poco ostinata ma decisamente contraria rispetto alla foto. Forse c'è davvero qualcosa che non va, dovrei vedere se ci sono due lune in cielo ma quella è suggestione da libro appena finito. Qui ci si distingue sempre, ne troverò almeno tre. Altro che 1Q84, sono nel 2Q13 e devo sprofondare in una pozzanghera per tornare da dove sono venuta. A trovare quella giusta, che ho perso il conto di quante ne ho incontrate perdendomi in ogni riflesso. 
Buon usuraio dal naso storto chiedi pietà e un passo corto. Con me hai sbagliato posta e gioco, tu vendi troppo, io compro poco.
Qualche starnuto di troppo sollecita il mio buonsenso e decido di rientrare. Mi ritrovo davanti qualcuno che non so cosa sia. Potrebbe essere tanto un uomo quanto una donna. In quella pelliccia enorme, in quel corpo enorme che invade il marciapiede. Come un fantasma per strada, quegli occhi che trapanano dal viso enorme di cerone e neanche ti stanno guardando, è l'unica cosa vera che ho incontrato oggi. E mi prende tutto quel sentimento del contrario che mi fa abbassare gli occhi e cercare le chiavi di casa. Chissà che penserebbe Pirandello di me. Io mi sorrido di malinconia, finché posso.



lunedì 11 febbraio 2013

Bang

Ilaria Guccione, Ar gabbio (Palermo, 2013)
 
E magari stamattina ti sei svegliato malamente all’improvviso e hai realizzato in 5 secondi che tutto ti è cambiato intorno senza regalarti neanche un preavviso. Ma è che ultimamente sei andato di fretta, come se per te non ci fosse più tempo. Come se bruciartelo, il tempo, equivalesse a risparmiarne per ficcarci dentro chissà poi cosa. Che poi non te ne fai niente perché ti ritrovi comunque da solo in mezzo a cumuli di cenere.
E magari ora provi a cercarti un passaggio possibile per garantirti una fuga. Un riparo provvisorio che ti consenta di allentarti il fiato e di smettere di guardarti intorno.
Come se fosse possibile attraversare qualcosa ignorando se stessi, come se esistessero varchi indolore. Ché se dici che l'hai trovato e sei rimasto illeso, allora non ti sei mosso di un passo.
Dovresti procurarti un paio di pistole. Dovresti procurarti un paio di pistole e un cavallo. Dovresti procurarti un paio di pistole, un cavallo e soprattutto una buona dose di coraggio.
E capire davvero in questo mondo straniero
come ti va e se ti trovi sulla riva giusta per aspettare che qualcuno passi e ti riconosca ancora.
E dinamite in quantità, per far saltare tutto quello che non va.