Spider-Boy

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giovedì 31 ottobre 2013

La strega pasticciona e il suonatore d’organetto



Ilaria Guccione, Musicomio (Palermo, 2013)

E’ la notte del 31 ottobre. Anche quest’anno è ormai tornata la notte delle streghe, quella che gli abitanti del mondo normale chiamano notte di Halloween, con i suoi dolcetti e scherzetti per i bambini, e gli adulti tutti pronti a camuffarsi da esseri più o meno spaventosi perché ogni scusa è buona per far festa tra loro.
Carola aspetta ogni anno questa notte con impazienza: perché lei è una strega, inesperta ancora, ma pur sempre una strega. E le notti magiche come questa le permettono di rigenerarsi e di ricevere in dono qualche nuovo potere o formula magica.
Ma stavolta per lei questa notte ha un significato speciale: un’occasione unica per compiere una magia che non potrà mai più ripetere.
Di secolo in secolo, di generazione in generazione, nella sua famiglia i poteri sono stati tramandati di donna in donna. E così ricette astruse, formule estrose e candele accese a migliaia da causarti l’insonnia, ché non ti puoi mica addormentare fin quando non finiscono di bruciare o rischi di autocondannarti a un rogo casalingo.
Una gran fatica quella di essere streghe, Carola lo aveva capito fin da subito. Perché lei è una strega buona e le streghe buone non fanno altro che aiutare gli altri. Perché la gente viene a cercarti anche se non sa che sei una strega: è come se la legge della calamita si impossessasse di te. E allora c’erano giorni in cui Carola sentiva l’esigenza di fuggire e nascondersi dal mondo normale, quattro robe nella sua borsetta da viaggio ed eccola scappare sulla sua scopa, fino ad una grotta in collina.
Ah… la meraviglia del silenzio profondo, della solitudine che ti avvolge e ti permette di liberare i pensieri… e anche di fare magie, beninteso. Una strega che si rispetti non può mai smettere di esercitarsi e quindi avere un proprio rifugio è fondamentale, un buco, un piccolo buco oscuro illuminato solo dalle candele e dalla luna, un buco in cui nessuno ti venga a chiedere aiuto.
Che poi le streghe non esperte come Carola, diciamolo pure, non sono mica tutte brave ad aiutarsi da sé: a volte ridiventano come tutti gli altri, avrebbero bisogno di un po’ di sostegno perché provano paura e stanchezza anche loro, ma se la gente è abituata a vederti come il suo parafulmine neanche ci arriva al fatto che forse anche tu, magari ogni tanto, anche solo per qualche oretta, puoi trovarti in difficoltà come ogni essere umano. E allora, via: meglio il buco!
Negli ultimi tempi Carola stava sempre di più rintanata nel suo amato buco. Come era rassicurante la sua tana, solo lì si poteva perdere in se stessa, poteva veramente riposare o almeno fingere di farlo. Però ogni tanto anche le streghe hanno bisogno di mantenere i contatti col mondo: lei allora usava la sua bella e potente sfera di cristallo, che però ha i suoi pro e i suoi contro: perché finisci con il captare sempre le solite persone che hanno bisogno del tuo aiuto. Ma lei ormai cominciava ad ascoltarle sempre di meno, un “sì” ogni tanto, un “bene”, un “hai ragione”, mentre viveva parallelamente nella sua dimensione magica e solitaria.
Finché un bel giorno d’estate, anzi una sera, forse per una curiosa interferenza della sfera, era entrata in comunicazione con un tipo che non conosceva. Lei era distratta e distaccata come sempre però trovava che fosse proprio simpatico, la faceva ridere e le faceva perfino dimenticare tanti affanni che una strega per quanto giovane come lei aveva già sulle spalle.
E poi lui le aveva detto di essere un suonatore d’organetto… Come deve essere bello, pensava Carola, fare magie con la musica, come fa lui. Note che danzano nella testa, fino a trovare un ordine, una collocazione nota dopo nota, un senso, volteggiando nell’aria.
Ah lui: anche lui ovviamente aveva un nome, si chiamava Valentino. Che nome buffo, romantico anche: tutti gli abitanti del mondo normale si rivolgono a un santo con questo nome quando sono innamorati, almeno per un mazzo di rose o una confezione di cioccolatini una volta l’anno.
Valentino e Carola si ritrovarono a parlare anche di solitudine… ah che interminabili discussioni! Lui continuava a ripeterle che non si può stare soli, che la vera sfida è l’essere in compagnia, che è facile condurre una vita in solitudine, che lui lo sapeva bene, mentre lei si affannava a sostenere che no, la solitudine non è necessariamente una condanna, ché lei aveva consacrato anni della sua vita alla solitudine e che da sola ci stava benissimo: come si fa a condividersi anima e pelle con qualcuno se prima non si è imparato a star bene da soli?
Intanto Carola si ritrovava a pensare: come sarebbe bello girare il mondo insieme e camminare e camminare per boschi e sentieri e colline e spiagge e fischiettare piano la sua musica raccogliendo bacche ed erbe mentre lui suona!
Intanto il tempo passava, passavano i giorni, le sere e anche i mesi e passò una stagione intera e improvvisamente Carola dovette riconoscerlo: Valentino era sempre più spesso nei suoi pensieri. Mmm che cosa incresciosa, pensava la strega. Incresciosa e pericolosa. Io sono una strega, mica una qualunque, che si sveglia la mattina, apre la finestra e dice al mondo: oh mi sono innamorata.
No, no no… è roba troppo rischiosa, Carola non ti puoi mica innamorare di questo suonatore d’organetto, e poi lui è un tipo assai bizzarro! Perché qualcosa di strano ce l’aveva, lei lo sentiva, lo leggeva tra le righe… e tra le nuvole sulle quali così spesso lui si perdeva.
Non che Carola non si fosse mai innamorata, accade anche alle streghe, sia chiaro, un incidente di percorso come un altro, questa era ormai la considerazione della nostra strega sull’argomento. Perché lei ormai lo sapeva, aveva capito che quando stava sola, nel suo buco oppure in giro per il mondo, in mezzo agli abitanti del mondo normale, stava meglio. Aveva studiato l’arte della solitudine con scrupolo per anni, non era mica una impreparata sulla materia!
Però qualcosa si stava insinuando in lei, Shhhhhh c’è qualcosa che avanza nel mio cuore, striscia, come uno di quei serpenti che di solito all’improvviso ti incanta… qualcosa che forse ormai l’aveva presa per distrazione. La distrazione è l’unico modo in cui si possono catturare le streghe.
Ecco, dev’essere stata colpa della mia maledetta distrazione! Eppure quante volte a lezione di magia le avevano detto: una strega non deve mai distrarsi, altrimenti è la fine. E invece no, lei è anomala anche come strega, una che si perde, non crede che esistano solo due mondi, quello normale e quello magico: per lei c’è un terzo mondo, il suo, quello che è totalmente suo e in cui lei si sente perfettamente a suo agio, come sotto una coltre in pieno inverno, delizia, consolazione e rifugio.
Eh… però… Patatrac! La frittata eccola lì ormai, nel suo bel piatto di portata: la strega si era innamorata. Fosse stato un amore non corrisposto, di quello che sbirci silenziosamente l’oggetto dei tuoi desideri attraverso la sfera magica o specchiandoti nell’acqua di un ruscello in certe notti di luna crescente o piena, sarebbe stato forse meglio.
Ma lui no, il suonatore di organetto diceva di amarla, e mentre glielo ripeteva, le suonava melodie sconosciute in cui lei si perdeva, le regalava abbracci sconfinati e sorrisi e baci dalla durata infinita e le raccontava di lei come se la conoscesse da sempre.
Perché sì… almeno di questo erano certi: si erano semplicemente ritrovati, si conoscevano da sempre. Dovevano essersi conosciuti in un’altra vita, magari vagando per il cielo, lei con la sua scopa e lui sospeso tra una nuvola e l’altra.
Lei ci provava a opporsi a questa nuova, insolita magia ma la sua resistenza durava poco, non poteva proprio sottrarsi perché ci credeva, perché non faceva altro che pensare a lui e allora finiva col fare disastri, come bruciare i pentoloni con le sue pozioni, rischiando di dar fuoco alla casa.
Sentiva il suo respiro respirare col suo. Lo sentiva costantemente accanto a sé anche se di fatto lui non era lì con lei e ciò le procurava gioia e a volte pena. Passava le notti a vegliarlo, a proteggerlo, perché lui le chiedeva di tenerlo stretto a sé e di essere protetto. E lei trascorreva ogni giorno ad aspettarlo.
E lo sentiva, come averlo dentro, come essere il suo riflesso, anche quando lui era triste e diventava cattivo, quando si dilaniava alla ricerca della perfezione ma non la trovava. Non avrebbe potuto, lui apparteneva al mondo normale che è privo di perfezione, ma lui non era perfetto come non lo era il mondo di cui faceva parte. Dirglielo però era inutile, soprattutto in quei momenti.
Insomma, anche per una strega come Carola mica potevano esistere storie d’amore perfette. Ah già… la perfezione! Non può esistere perfezione in una storia d’amore tra un abitante del mondo normale e una strega. La cattiveria, quella sì che sa essere perfetta e inopportuna e ti assale come un’accusa ingiusta quando meno te l’aspetti.
E quando lui diventava cattivo, lei si sentiva sommersa, invasa dalla sua rabbia, e avrebbe voluto anche lei distruggere il mondo (ma quale poi? Finiva solo con lo scalfire il suo), e per non farlo si ritrovò un giorno a scappare nel bosco e a ferirsi a un braccio in mezzo ai rovi per smettere di sentirlo e tentare di liberarsi da quel peso così opprimente, come di nuvole pronte a scatenare temporale.
Si sentiva persa, sì… come si sentiva persa tutte le volte che lui la accusava di essere troppo buona. Ma io sono una strega buona, sono così, come potrei essere diversa? Continuava a ripetergli. E allora ecco arrivare le lacrime silenziose, e la sfera ricoperta col suo panno scuro e il rifugiarsi nel suo buco.
E se qualcuno la cercava, le poche volte che metteva il naso fuori dal suo nascondiglio, rispondeva distrattamente: cosa mai avrebbe potuto capire la gente che la prendeva per matta così com’era, nella sua finta veste di abitante del mondo normale? Delle streghe       -ahimè-  ci si serve per convenienza, poi ci si dimentica di loro e si mandano al rogo o in un angolino: questa è la triste realtà. E allora giù altre lacrime copiose…
Carola ci provava però a reagire e, lentamente, mandava sorrisi e pensieri tinti di speranza e gioia a Valentino, non appena presagiva i suoi malesseri, ma ogni tanto sbagliava di nuovo, perché lei non era ancora una brava strega, e provava a parlargli, e veniva di nuovo travolta dalla cattiveria e ogni frammento di mondo possibile le crollava addosso, aguzzo. E non importava di quale mondo fra i tre fosse… faceva male e basta.
Eppure glielo aveva anche detto, fin da subito: io non sono perfetta, se tu cerchi la perfezione hai sbagliato indirizzo e destinataria, vivo in un mondo perfetto in cui sono felicemente imperfetta… non mi distruggere, ti prego.
E lui prometteva che non lo avrebbe fatto, che voleva solo che lei rimanesse così com’era, che stesse con lui finché lo avrebbe voluto: soluzioni semplici e rassicuranti per una situazione complicata. Ma poi lui ricominciava, come se tentare di distruggerla fosse necessario e spigoli di cielo le piovevano addosso, come frammenti di specchio infranto; lei però, ostinata, attendeva paziente che rispuntasse il sole e allora sì che poteva uscire dal suo buco e sorridere. E sorridergli, respirando finalmente a pieni polmoni, sollevata.
Ma ogni strega che si rispetti, e in fondo anche lei lo era (almeno un minimo rispetto le toccava!), sa che nel mondo reale lei non può esistere. Questo era ciò che più intimoriva Carola. Per una strega non c’è posto nel mondo normale e per quanto Valentino vivesse tra le sue nuvole, faceva pur sempre parte di quel mondo. Sì, lui aveva il suo mondo, nel bene o nel male, del quale lei non avrebbe mai fatto parte. Ma ogni tanto Carola non ci pensava, perché era così bello ritrovarlo lì, così indispensabile lasciarsi cullare dalle sue parole e dai suoi abbracci, vivere la necessità del loro esistere in due.
Ma un brutto giorno, come solo nella realtà accade e non nelle fiabe, Valentino decise di andare via. Non voleva più stare con lei. Non voleva e basta. Aveva altro da fare e basta. Aveva paura e basta. Non voleva parlarle più e basta. Aveva fatto le sue scelte e basta: aveva il suo mondo normale che l’aspettava. E questo gli bastava. Gli abitanti del mondo normale sono fatti così, vanno via e basta.
Così Carola si ritrovò suo malgrado con delle ferite da donna normale da curare, ché neanche i medicamenti magici servono a molto in questi casi e decise che solo il silenzio e il suo buco avrebbero potuto, non curarla, ma almeno lenire il dolore. E ci si rintanò, per l’ennesima volta, senza sentire più niente, senza vedere più nessuno. Ascoltava le musiche che lui un tempo le suonava, scoppiava a piangere… poi niente più.
Un assordante silenzio la cullava in notti di infinita veglia, in cui i rari sogni si popolavano di persone che parlavano, parlavano, urlavano ed ecco che le voci, il rumore che durante il giorno rifuggiva si riversavano in apocalittici incubi. Come se tutti volessero dire la loro: era forse la solita gente che aveva bisogno di lei? Come se ognuno dovesse parlare più forte dell’altro per farsi sentire: le gridavano per l’ennesima volta che era pazza?

Ma ritorniamo finalmente all’inizio della nostra fiaba: la notte del 31 ottobre, la notte delle streghe. Ne ha già vissute tante Carola, questa però è davvero speciale: vuole che almeno in questa occasione il suo Valentino sia con lei.
Ma perché una creatura del mondo normale e una strega che non ha al suo attivo grandi e potenti incantesimi si incontrino grazie alla magia, esiste solo una possibilità: che lui sia trasformato in qualcos’altro. E come se non bastasse lo sforzo necessario a trovare il coraggio per parlare con Valentino e proporglielo, ci si mette anche lui, perché non è mica convinto, lui è uno che i dubbi li coltiva con cura (forse non ci crede affatto che lei possa fare una cosa simile?) ma alla fine le dice: mmm… vorrei essere trasformato in un cavallo bianco.
Oh e perché mai? Chiede stupita Carola.
Così… per essere un po’ romantico! Risponde lui, disarmante.
Ma… mi toccherà cavalcarti, lo sai? E se poi tu mi disarcionassi? Non sono mai andata a cavallo, io. E se ci perdessimo?
Lui la rassicura, no, certo che no: tutto questo non succederà.
E allora Carola si concentra e recita la formula magica appropriata:
Tre dita di assenzio e un rametto di corallo:
Che tu sia trasformato in un bianco cavallo.
E pouffffffffffffffffffffffffffff! Al posto di Valentino, ecco ora un cavallo bianco!
E adesso dove vuoi andare? Gli chiede lei.
Ma nella Camargue, mia Cara! Esclama lui, scalpitando. Allora intraprendono il loro viaggio, e lei cavalca prima un po’ impacciata, poi sempre più rilassata e sicura.
Ma un giorno Valentino diventa improvvisamente irrequieto, scalcia e la disarciona e solo dopo le dice: perdonami, è che sono triste, sono inquieto, volevo essere un cavallo bianco per sentirmi libero ma la sabbia e la terra mi hanno sporcato e il colore che ho ora non mi piace, non mi hai messo sella né briglie ma io mi sento ugualmente prigioniero e… non posso più suonare. Trasformami in qualcos’altro, ti prego. Trasformami in un grillo.
Un grillo? Ripete stupita Carola.
Sì, così sarò tascabile e leggero e potremo continuare a viaggiare a lungo e soprattutto potrò cantare per te. Così sì che mi sentirò libero!
Va bene, dice Carola, anche se certo non è proprio convinta al pensiero di  portarsi dietro un grillo, non perché tema di diventare un po’ come Pinocchio martellato dalla sua coscienza ma perché i grilli non l’hanno mai fatta impazzire. Però è sempre Valentino, e allora le scappa un sorriso e si dice: ma sì, che importa! Ci vuole la formula giusta… Devo solo ricordarmela:
Un due tre... un pizzico di timo e due di rosmarino
Da adesso tu sarai il mio grillo canterino.
E poufffffffffffffffffffffffff! Ecco Valentino trasformato in grillo!
Il grillo si dimostra un compagno di viaggio sempre più divertente e simpatico e con grande allegria percorrono nuovi spazi, e quando si fermano a dormire sotto cieli limpidi e stellati Valentino canta per lei e Carola si lascia cullare e si addormenta felice.
Dal momento che lui ora è piccolo piccolo e così leggero e sta tranquillamente in un taschino, lei lo porta a fare lunghi giri nel cielo sulla sua scopa, perché possa toccare finalmente le nuvole, bianche, morbide che si inseguono eternamente nel cielo.
Valentino le parla a lungo delle sue amiche: io amo le nuvole perché sono sagge, le nuvole parlano, suggeriscono, consigliano. Ti nascondono all'occorrenza, ti consigliano e consolano e ogni tanto ti ributtano giù, sulla nuda terra, perché qualcosa di sicuro te l'hanno insegnato e allora vai un po' da solo e vedi che ti succede laggiù. Puoi sempre risalire, quando vuoi... Ma loro non smettono mai di danzare: hanno bisogno di musica per non smettere di respirare. E io allora le accompagno con il mio organetto. Ci si fa compagnia a vicenda.
E poi si spingono ancora più in là, volteggiando, fino a raggiungere la luna. E Carola gli racconta quello che ha imparato su questo magico pianeta, sulla sua forze occulte, sulla sua capacità di influenzare le cose, di comandare ciò che nasce e ciò che muore. La luna accresce, la luna toglie. La luna sì che può incarnare l’assoluta perfetta cattiveria, un po’ come se fosse una perfetta proiezione del mondo imperfetto in cui Valentino vive.
Ma un giorno Valentino ridiventa improvvisamente cattivo e comincia a graffiarla con le zampine. Ti chiedo nuovamente scusa, ma sono triste: ti ho chiesto di trasformarmi in grillo perché volevo essere allegro e spensierato e pazzerello. Pensavo che il grillo mi somigliasse parecchio. Ma non ci riesco, e neanche così mi sento libero, e neanche così posso suonare.
E Carola diventa sempre più malinconica, avevano condiviso insieme un tempo infinito, un tempo di meraviglie e sorrisi e scherzi in cui erano stati insieme ma il loro rimaneva pur sempre un incontro nel mondo magico e nonostante questo le interferenze del mondo normale non li avevano mai abbandonati.
Bisogna che Valentino ritorni al suo di mondo, quello normale, e che Carola torni agli unici due mondi per lei possibili. Ci vuole la formula, quella giusta e come per incanto Valentino tornerà immediatamente da dove è venuto e neanche per un istante Carola potrà trovarselo davanti. Che tristezza, eh! Ma se ne farà una ragione, prima o poi…
Un pizzico di grano e di amaro sale
Che tu torni dunque nel tuo mondo normale
Un soffio di lavanda e di nostalgia
Che tu torni ad essere ciò che tu vuoi che sia.
Eh… però… stavolta succede un pasticcio perché i lacrimoni di Carola si mischiano al grano e al sale e intanto Valentino è di nuovo indeciso e per un attimo, quell’attimo magico, non sa bene chi o cosa voglia essere, si sente mancare la terra sotto i piedi e non sa più dove si trovi e dove voglia stare.
E così Valentino… pouffffffffffffffffffffff! Si trasforma nel suo organetto!
E a quel punto Carola rimane sbigottita, confusa, perduta… perché si ritrova con l’organetto sul suolo a pochi metri di distanza, e non conosce nessuna magia rimedia pasticcio. E mentre il cavallo e il grillo parlavano, l’organetto proprio no, tace.
Che disperazione, cosa faccio ora? Cos’ho combinato? Ma perché non me ne sono stata buona nel mio buco rassicurante, con tutte le candele intorno e le essenze che bruciano e la mia coperta di foglie per le notti di inverno? Che non lo sai, stupidina, che i desideri non sono roba da streghe? Le streghe si pigliano quello che vogliono con determinazione, non desiderano. Vogliono, e in un batter di ciglia e polverine magiche nell’aria, ottengono.
Tu non solo non puoi desiderare alcunché ma, diciamolo pure, non sei neanche fatta per amare, in nessun mondo. Anche gli abitanti del mondo normale, come le streghe, vogliono, pretendono, impongono e ottengono, che poi si sia felici o no, è un dettaglio al quale in pochi badano. Tu invece sai solo desiderare timidamente, a bassa voce. Carola, sei una strega fallita. E adesso che si fa?
Eh… che si fa adesso? Carola rimane seduta per terra a contemplare l’organetto, in compagnia delle sue lacrime, fino a quando… comincia a sentire qualcosa, come uno strano formicolio alle mani, è come se lui volesse essere preso, e lei si avvicina con cautela. Ecco: è tra le sue mani e… le sue dita si muovono sui tasti o forse no, forse sono i tasti stessi che fanno muovere le dita di Carola…
È come se Valentino stesse respirando tra le sue dita e le stesse parlando attraverso quelle musiche che le suonava un tempo. Chi suona chi? Chi parla a chi? Chi respira chi? Sono diventati magicamente una cosa sola… E Carola ha già dimenticato le sue lacrime e si rimette in viaggio, suonando.
E’ stanca ma continua a camminare, è contenta e non smette mai di suonare, e attraversa lentamente la Francia, fino ad arrivare a Parigi. Si è dimenticata perfino di essere una strega e suona, suona, suona sulle rive della Senna, di ponte in ponte, di giorno in giorno, di melodia in melodia.
E il tempo scorre, lento come le acque del fiume. Lento, come le stelle che trapuntano il cielo, quando Carola si addormenta sotto un ponte. Lento, come le nuvole che continuano a danzare ascoltando la musica di Valentino e Carola.
Ma le streghe, si sa, son dappertutto e anche Parigi ne è piena.
Ed è così che Carola si imbatte in una vecchia vecchissima signora, apparentemente innocua, che se le guardi però in fondo agli occhi vedi come delle fiammelle che si agitano frenetiche e un po’ ti spaventi… Si tratta niente meno che della strega della Senna! Lei sì che è potentissima, lei sì che riconosce al volo le streghe e i loro pasticci. Lei sì che ha una soluzione per ogni problema.
La strega ferma la nostra Carola e la apostrofa: tu, mia cara, sei proprio una strega pasticciona. Volenterosa, sicuramente, ma tanto tanto maldestra e molto molto distratta. Vuoi fare la suonatrice d’organetto a vita, forse? Hai una missione da compiere nella tua esistenza, sei una strega, quindi ti darò una mano a porre rimedio a questo tuo pasticcio. Cosa vuoi fare, portarti dietro un umano sotto forma di organetto per sempre? No, no, no… non si può. E ricorda sempre una cosa, non siamo noi che non esistiamo per loro: sono gli abitanti del mondo normale che per noi non esistono. E’ tutta una questione di punti di vista, bisogna sempre ribaltarli, è questo che salva la vita, anche a noi streghe che in un certo senso non ne dovremmo avere mai bisogno.
La strega fa una giravolta, i suoi lunghi capelli bianchi fluttuano per qualche istante nell’aria per poi ricadere sulle sue spalle ricurve e continua a parlare:
Non pensare però di cavartela impunemente: il mio incantesimo ti priverà dei tuoi poteri. Non sarai più una strega ma sarai condannata a vita a percepire tutti i problemi di tutta la gente che incontrerai, non potrai compiere più alcuna magia ma ti farai sempre carico degli altri e continuerai a dover scappare per trovare sollievo. Per te adesso esisteranno solo due mondi, quello normale e il tuo. Ti ci abituerai, col tempo…
Detto questo, la potente strega della Senna fissa il suo terrificante sguardo su di lei, leva le mani al cielo e poi le punta verso Carola e l’organetto, pronunciando la sua formula magica:
Che il sentiero pria unito
Sia da me poscia diviso
Di Valentino ritorna il viso
Tu suonatrice ritorna al tuo sito
Ad ognuno la sua via, così ho detto e così sia.
E pouffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffffff!
Carola, terrorizzata come mai le era successo, non fa neanche in tempo a posare l’organetto da qualche parte, anzi non ci pensa nemmeno, continua a tenerlo stretto a sé come se potesse difenderla da tutto quello che sta accadendo e, nel giro di pochi secondi, si ritrova avvolta da un gran fumo, e… l’organetto improvvisamente… riprende le sembianze di Valentino.
E così la nostra Carola e il nostro Valentino si ritrovano abbracciati… e così stretti e così vicini possono finalmente guardarsi negli occhi.

A questo punto però la nostra fiaba s’interrompe, perché noi di finali lieti e anche tristi per le fiabe ne abbiamo a bizzeffe, ma lasciamo che le storie del mondo reale vadano avanti da sé.
Possiamo solo dirvi che oggi su Parigi risplende un sole d’autunno sereno, e le nuvole danzano, tra un frammento e l’altro di azzurro cielo.

mercoledì 30 ottobre 2013

Come possa il tempo


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Ilaria Guccione, Liquidazione da urlo (Palermo, 2013)

Fai un bel po’ di passi avanti e tanta ansia per l'arrivo, che oggi te ne tocca di strada, e ti ritrovi a fare un salto indietro dopo l’altro e intanto resti in piedi e ti fai meraviglia di quel tuo andare che ti rimane saldo sull'asfalto. E ti attraversi lentamente il tempo andando per strade scevre da quel frastuono che ti è  noto e sorridi salutando con estrema cortesia fantasmi che non ti fanno più spavento. Ti porti dietro il sospetto che in quella parte di città il benedetto tempo che sempre fugge sia rimasto sospeso, ma forse sei tu e tutte le tue altre strade, il rito del saluto consumato altrove, il caffè bevuto in fretta che sapeva di quel bacio che era già ora di ripartire e per non voltarti dovevi convincerti che già te lo eri scordato e allora forse sapeva solo di quella bustina di zucchero che non hai mai consumato.
Forse sei tu. Tu che oggi hai pure dimenticato il cellulare a casa e l’orologio sono anni che non lo porti e allora ti misuri il tempo solo sul ricordo che si fa moltitudine di immagini che le metti a fuoco solo in bianco e nero.
E gira che ti rigira questo tempo, che oggi era un giro lungo, un attraversare spazio per giocarsi incontri che ormai si sono persi. E quell’amore appeso ad un balcone del primo pomeriggio, quel consumare le lancette per non rischiare di tardare e quel saltare i gradini per accorciar distanze. E lettere di carta che ci hai messo una vita a scrivere e lettere stracciate che ci hai messo una smorfia e uno strappo a fingere di rinnegare.
E forse sei tu. Che a volerti dire come il tempo sia passato, non ne sai parlare e ti sai dire solo che non passa lento ma feroce nel suo vorticare, giocando a singhiozzarti verità e bugie tra crudeltà ed allegrie.
Come possa il tempo condannarti ad aspettare è un mistero che ti ci puoi solo perdere e cantare, ché c'è sempre qualcosa o qualcuno da volere ritrovare, ché solo l'incanto sai davvero come poterti raccontare.





martedì 29 ottobre 2013

Dove non posso essere


P1010796
Ilaria Guccione, Fin dove arrivano gli occhi, si è già (Palermo, 2013)

Dove non posso essere.
Infatti sono su
questa carta e nella
parola, che do.
perché la carta svolazza,
allora nemmeno io posso riposare,
e svolazzo a brandelli
sulla strada, di qua, di là, qualcuno
allora vi riavvolge il coltello
insanguinato, perché nessuno lo
veda.
(Ingeborg Bachmann) 

Dice che aveva un nome che se lo sai te lo ricordi per forza. Dice che aveva mani buone per ogni tempo cattivo e pensieri di cera e fuoco per infliggersi ogni condanna da sé. E nessun riparo per le notti di pioggia e di tormento ma una lama nel fianco a regalargli fedeltà compagna. Non esistono giorni che durano, diceva. Solo un grido e la sua eco resistono, bianchi, senza fine.
Per salvare i ricordi gli rimaneva un unico sorriso sulle labbra livide, che se lo accendeva quando gli gelava il cuore ogni lontananza.
Dice che teneva in pugno tutte quelle sue parole come coriandoli compresse tra i ricordi e le dita. Buone per colpire, cattive da ascoltare, che è meglio che ognuno se le conti in solitudine santa, che è meglio che ognuno se le sconti con senno e con pazienza.
Dice che il suo nome non si dice e io almeno per cent'anni sola mi trattengo e quel suo nome taccio.
 
















domenica 27 ottobre 2013

Jules et Jim. Et le tourbillon de la vie


P1010763
Ilaria Guccione, Le bonheur se raconte mal (Palermo, 2013)


Tourbillon: il senso del girare vorticoso, di vento e d’aria e d’ogni cosa che ti si muove rapida dentro e intorno e genera tumulto nella vita.

1956. François l’aveva scovato fra tanti libri d’occasione ed era stato un coup de foudre già dal quel suo titolo che aveva trovato così musicale: Jules et Jim. E lui, critico cinematografico che sognava di fare il regista, aveva subito desiderato farne un film e intanto leggeva il romanzo due volte l’anno e intanto pensava con tristezza che quella storia non fosse proprio possibile portarla sul grande schermo. Fino a quando quel suo sogno di far film non si avverò e lui si convinse del contrario.
1961. On va chanter, disse Truffaut in quella giornata di riprese mancate, l’incidente occorso ad un operatore e poi i soldi che stavano finendo. On va chanter, Jeanne, come quando noi si gira cantando a squarciagola a bordo della Facel Véga decappottabile.
E così Catherine/Jeanne Moreau canta Le tourbillon de la vie, accompagnata alla chitarra dall’amante Albert/Serge Rezvani.
On s'est connus, on s'est reconnus,
On s'est perdus d’vue, on s'est r'perdus d'vue
On s'est retrouvés, on s'est réchauffés,
Puis on s'est séparés.
L’autore del libro, Henri-Pierre Roché, era rimasto entusiasta all’idea del film ma non aveva fatto in tempo a vederlo né a vedere tradotta in più lingue quella parte della sua vita che aveva scelto di raccontare ormai settantenne, la storia della sua amicizia con lo scrittore tedesco Franz Hessel/Jules e della sua relazione con la moglie dell'amico, Helen Grund Hessel/Kathe.
Truffaut racconta che la scelta di non rendere eccessivamente drammatiche alcune scene fu per lui un modo di rispettare Roché che le aveva rivissute a distanza di anni. Il film, come il libro (pubblicato nel '53), doveva essere un album di ricordi.
E dice della sua soddisfazione per avere fatto riscoprire, col suo film, un capolavoro sconosciuto, ché spesso nel mondo del cinema ci si presta a un gioco immorale, quello di appropriarsi di un libro molto noto e magari vien fuori anche un bel film ma intanto ci si approfitta della fama del romanzo.
La canzone, dicevamo. Una canzone che non è nata per il film ma che allo stesso modo dice d'amicizia e d’amore. Rezvani l’aveva composta sette anni prima raccontando la storia d'amore del suo migliore amico Jean-Louis Richard con la Moreau, che si era conclusa con un divorzio nel 1951.
Si tratta dell’unica parte del film in cui il suono è in presa diretta e il regista ha scelto di inserire quella versione che nella sua spontaneità non poteva che risultare perfetta: quella in cui Jeanne si confonde e inverte due versi:
On s'est retrouvés, on s'est séparés,
Puis on s'est réchauffés.
Désolé, Serge! Suggerisce quel suo gioco di mani accompagnato da un sorriso, mentre continua a cantare.
E lui che sembra risponderle a sorrisi e con quel gesto del capo: peu importe, Jeanne. C’èst (le tourbillon de) la vie!







venerdì 25 ottobre 2013

Ortigia-Palermo: appena in tempo per dirti addio


PescatoreGatti
Ilaria Guccione, The cats will know (Palermo, novembre 2012)


Ora è nel cuore di un mondo di calcare, di tufo color miele, nella chiarità orientale, il rigore e la grazia, la retta e la spirale, è al centro d’Ortigia, nell’area sacra, nello spazio a forma d’occhio, nella pupilla della ninfa, nella piazza dove regna la signora della luce e della vista.
(Vincenzo Consolo, da: L’olivo e l’olivastro

A volte veleggia un ricordo remoto al quale non posso negare l’approdo.
Arrivammo a Ortigia in dicembre, era il ‘95, ci riempimmo gli occhi di antica bellezza più che le orecchie delle altrui parole da seminari. Ne serbo memoria di pietra in alcuni scatti, in cupole prossime al crollo e noi allora ignari, in colonne ad abbracciarsi in groviglio di fogli di vite e grappoli d’uva.
L'ultima volta che lo vidi era in ospedale o forse mi confondo, ché l’inizio dell’estate l’avevamo passato insieme, a ripetere letteratura italiana per i suoi esami di maturità. Il viaggio per l'ospedale era ogni volta di un duolo infinito, un malinconico pellegrinaggio su un autobus sbilenco e poi l'attesa. Dice che erano camere sterili, che loro erano infinitamente fragili eppure vedevo tutto così sporco e squallido e avrei voluto solo portarlo via da quel presente ingiusto e inatteso. Un giorno ci arrivai per donargli le piastrine e, tra un sussulto e l’altro delle vene, reggevo i carmi di Catullo da studiare per un esame.
Il primo risveglio a Ortigia mi regalò il senso del mare, spalancate le finestre di quella pensione di suore che a poca distanza si trasformavano in albergatrici di lusso ma a noi, che avevamo due lire e altre due avevamo uscito per il corso, ci toccava il convento. Mi torna ancora quella meraviglia degli occhi che non ho mai avuto qui: Palermo è città di mare in cui il mare non ti tocca.
Era domenica. Ci fermiamo ancora un giorno? No, io devo tornare, con quella mia ansia che avevo di rivederlo e la promessa fatta l'ultima volta, ché quel nostro incontrarci era ormai all’inverso: non più la sua voce al citofono la domenica mattina, gli abbracci infiniti nell’androne, la rosa rubata e portata in regalo né le canzoni e la chitarra che duravano il tempo dei gettoni, la sera.
E oltre a Ortigia ci portarono a Modica e Ragusa Ibla e Noto e non ricordo più dove e tutto quel barocco ad abbracciarci che noi non sapevamo. Ma poi in fondo allora sapevamo ben poco, il sapere degli occhi sui libri ma non quello dei passi. E quanto ho camminato poi, treppiedi in spalla e quanto ho spalancato gli occhi.
Arrivammo in ospedale che era troppo tardi, che era proprio il giorno della sua partenza senza più ritorno, chiesi di vederlo e l’infermiera, più gelida di un cadavere, rispose in tre parole che era deceduto, salvo poi ripiegare su una frase ambigua, ché si sa: i morti non dovrebbero andar via dall’ospedale, non hanno più gambe buone per andare, eppure. Ma il mio menestrello se n’era andato ed io ero tornata appena in tempo per dirgli addio.
A Ortigia mi ritrovai l’anno dopo, per una mostra a palazzo Bellomo e mi ritrovai davanti alla santa degli occhi, quella del pittore dannato in vita e poi tanto osannato e consumammo poi un pranzo in tre, abbandonando il primo ristorante con la scusa che noi si voleva la pasta al nero di seppia ma questa è un’altra storia. E poi nuovamente per un corso che era ormai il 2000, ospite a Siracusa da un amico, travolta da un esilarante girare che ci portò fino a Malta ed è un'altra storia ancora e non è detto che non sappia di sciancata nostalgia.
Mi consumai in una lunga veglia, mi chiesi il perché di quel vestito improbabile come se davanti alla morte bisognasse presentare l’abito buono mai messo in vita ma almeno le tue scarpe da tennis te le avevano lasciate. Mi rimasero petali di rosa e canzoni scritte una sera su dei fogli e una foto in cornice e un pezzo di carte con dei numeri per non scordare dove poterlo incontrare, tutta roba che ha fatto Palermo-Roma-Palermo. Mi chiesi a lungo perché tu fossi andato via così presto, perché hai lasciato me ad invecchiare e tu sei finito lì, in quel riposo che dicono eterno, in quel giaciglio che sta così in alto che puoi abbracciare il mare di Palermo.
 
 
 
 


















mercoledì 23 ottobre 2013

Mi scucio e mi rammendo con filo di nonsenso


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Ilaria Guccione, Salda come le colonne è l'attesa (Palermo, 2013)

L’enfer, c’est les autres.
(Jean-Paul Sartre, da: Huit clos)

Mi scucio e mi rammendo con filo di nonsenso.
Mi rammendo e mi scucio sfilandomi il senso.
Ché son passati tre anni e ancora amo quel mio inferno che odorava di sgarbate tenerezze, e quei suoi occhi a dire la paura e quel suo abisso che nelle nere notti sapeva di morte e brace e la sua voce da selva oscura a tacermi ogni sillaba apparentata al senso.
Quello che mi violava in accorata distruzione da bordello, che mi negava che non gli bastavano tre volte e mi ricreava infine in iperboli di meraviglia e poi tu conta fino a cento che si ricomincia e ti ammazzo nuovamente e vediamo quanto mi resisti. Ed io che ancora sono qui che me lo difendo, tra braccia inesauste di duolo e cura: ché senza non ho pace e non conosco luce.
Mi scucio e mi rammendo.
Mi rammendo e mi scucio per alleviare e sfilacciar la pena.



domenica 20 ottobre 2013

Chi resta, aspetta?

 
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Ilaria Guccione, Attenti, quei due (Palermo, novembre 2012)

 
- Dimmi che distanza c'è tra il partire e il tornare.
- E' la direzione che scegli che fa la differenza.
- E chi resta?
- Chi resta, aspetta.
- E chi lo sa il tempo giusto dell’attesa?
- Chi conserva l’incanto dei passi che non sanno l’orologio ma si consumano il desiderio e le suole.

Erano giorni di treni e vagoni, intervalli stonati di pagine ingiallite e canzoni. Di spinte e ritardi. Di attese che non hai tempo per pensare, che manca poco e già ti parte quella gioia di andare e non importa per dove anche se la meta sul biglietto, quella almeno la sai.
Erano giorni di lividi sul cuore, di attese stropicciate tra lenzuola di veglia, di disaccordi sul dolore, di: e basta col pensare, curati solo il tuo andare.
Stazione ignota e vai. Regali e regoli i tuoi passi su una banchina che sa di casa e poi.
E poi il ritorno, che a ripensarci strimpellava noia perché il tuo arrivo non era che un rientrare. E intanto riconosci una faccia da due soldi sul vagone, che a volerci fare un film non c'è nessuno pronto a girare e ti tieni quello che hai davanti per meraviglia e memoria. Ma che dispiacere, ma come va? Se vuoi ti racconto una storia che non ti piacerà. Oppure ti racconto la tua faccia e quell’arroganza dipinta di nero sugli occhi e quell’ignoranza che ti deforma di rosso le labbra. Ma non hai niente da dire, ché ognuno ha la sua storia ed il suo tempo da giocarsi tra inciampo e inganno.
E’ che tutto al mondo è beffa, è che ogni cosa è un gioco ad incastro, ogni tanto ci infili un sorriso malmesso, ché quello buono te lo tieni stretto in mano.
Voci amiche in lontananza, quella tua in risposta aveva sapore di eco distorta. In un altrove che ancora ci si poteva toccare, le parole sapevano solo di silenzio. E allora continua ad andare.
Il treno è fermo, il treno è arrivato, il treno forse non è mai partito.







venerdì 18 ottobre 2013

Per filo e per segno


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Ilaria Guccione, Mani e piedi (Palermo, 2013)


Miei segni particolari:
incanto e disperazione.
(W. Szymborska, da: Il cielo

Filo che tiri, filo che allenti. Passo che oscilla, pausa che arresta e tu ci rimani secco e ti provi maldestro ad alzare le mani. Filo che il telefono l’hai staccato e lui ti guarda storto e tu ancora ad ignorarlo e muto già ci sei inciampato. Filo che t’ingarbugli ad intrecciar memorie e loro che tramano sempre sicure e tu che ad ogni ricordo ti confondi e tremi e non ordisci un cazzo. Filo che intanto tra un filo e l’altro il tempo ti è volato e ti sorprendi con tutto quel bianco tra i capelli e ti sei perso ormai e il filo e il segno. 
Segno che a far di conto da ragionieri sulla propria pelle ci si casca sempre male. Segno che in questo sputo di autunno, con questo grigio maldestro che colora il vento a metà, si è fatto il tempo di andare. 
Segna almeno chi non vuoi più incontrare, il resto è tutto da inciamparci allegri di speranza e ancora da inventare. 





mercoledì 9 ottobre 2013

E’ solo questione di tempo


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Ilaria Guccione, E' solo questione di tempo (Catania, 2013)

 
Metti l'accento sempre sulle parole sbagliate, lo apostrofò lei che s'era persa il ritmo da pazienza.
Lui si provò ad intonare un senso alla sua faccia sospesa, badando bene al suono dei vocaboli che voleva allineare. Ma gli riusciva bene solo di scordarsi e sdrucciolò  sulle sue frasi fatte.
E’ solo questione di tempo, pensò lei misurando con cura ogni battuta.
Inclinò grave ogni ricordo mentre la pena le si faceva acuta, accentuò il gesto lento della resa e ormai di spalle sillabò rapida un addio.


lunedì 7 ottobre 2013

Ancorare gli occhi


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Ilaria Guccione, Alla faccia! (Palermo, 2013)

Ho cercato le parole più adatte di mercato in mercato e mi son persa e ritrovata punto e al Capo.
Ho trovato solo capitali di lettere frantumate nella polvere da passi svelti ed eco di spezie. E ho incrociato facce scure ed altre pronte per lo schiaffo e facce ancora, smarrite tra il perdersi e il salvarsi. 
E poi quella storia lì, a farmi ombra nuovamente accanto. Quella che non si può dire, quella che la puoi solo mimare, quella che puoi solo sfiatare le tue orme sulla sabbia, quella che meglio sarebbe spedirla altrove. Ché forse a distanza ignota ci si riesce ancora a raccontare.
E allora dimenticarle, le parole. Quelle buone, quelle cattive. Ricacciarsele in gola, smarrirle dentro un vecchio armadio, sputarle all'occorrenza in un fosso, badando che vi anneghino per bene.
E allora guardare. Quel sorriso che ci arriva di sbieco, quel turbinio di gesti che non si sanno contare, quel tremolio delle dita che non si sanno fermare, quella smorfia che le morde le labbra e lei neanche se n’è accorta. Ancorare gli occhi al rossore degli incontri inaspettati, all’infinito gioco dei bambini che sa di terra e sale, al broncio altalenante della sera.