Spider-Boy

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domenica 30 giugno 2013

A capo scoperto

Ilaria Guccione, A capo coperto (Palermo, 2013)




Ci sono giornate che ci vorrebbe un copricapo. E non è questione di riparo da sole o pioggia e neanche di vezzo da ultima moda e vetrina che ti invita ad entrare e tu che esci con qualcosa che ti stona sulla testa ma ti hanno detto che ti sta a meraviglia e ti cerchi intorno tutti i riflessi che puoi per poterti guardare.
Ci vorrebbe un copricapo ma di quelli che ti filtrano i pensieri che fanno più rumore, di quelli che il dolore te lo tengono a distanza. Di quelli che ancora non ci ha pensato nessuno a brevettarli e allora te ne vai come sempre a capo scoperto e ti acceleri il passo perché almeno qualcosa rimanga fuori fuoco e sentimento. Ché tanto lo sai che ti ritorna tutto addosso al primo colpo dispettoso di vento.










giovedì 27 giugno 2013

Da Bologna a Palermo vicini

Ilaria Guccione, Sulla riva (Aspra, aprile 2013)

Questa è una storia di partenza e di mancato arrivo. E' una storia che vola da Bologna verso Palermo, che esplode, frantuma, affonda nel mare di Ustica. E' una storia che oggi fa 33, gli anni di Cristo ad aspettar risposte. E' una storia che fa 81, 61 adulti e 13 bambini morti ammazzati.
E dice che a Palermo li stava aspettando una sera di  bella estate e vento leggero, a ricompensarli di quell'infinito ritardo nel decollo e così avrebbero fatto festa e vacanza. E i coniugi Lachina di sicuro si sarebbero precipitati a telefonare a quella figlia imbronciata che gli aveva negato il saluto, ché l'aereo e la Sicilia li sognava da tanto ma il biglietto anche per lei non l'avevano trovato e allora non ti crucciare, sarà per la prossima volta.
E' una storia che la sanno tutti nella memoria e nel dolore ma quel buco nero nella trama lo conoscono in pochi, quelli che sul tavolo hanno spazio buono solo per tenerci ben in ordine le regole del gioco. E tutta quella morte che non puoi dire perché non devi, la tengono nascosta tra le gambe e il pavimento.




martedì 25 giugno 2013

Il tempo che non c'è più tempo

Ilaria Guccione, A Ballarò (Palermo, 2013)

Il tempo. Di una sigaretta accesa e cenere che cade, di un bicchiere da svuotare e birra che rimane, di una canzone che va per strada e già vorresti che ricominciasse almeno il ritornello, che lo sai. Di parole da inghiottire che non hai fatto neanche il tempo ad ascoltare ma almeno così forse le potrai capire. Ma non è detto che tu poi riesca a digerirle.
Di trovare parcheggio, di sederti dove capita e dirti che nell'unico posto disponibile certo che va bene, di ritrovare per caso qualcosa che la polvere aveva nascosto con cura, di perdere qualcuno eppure era giorno pieno e la strada era deserta.
Il tempo di quella carezza che non hai fatto in tempo a dare, che di tempo in tasca ne avevi messo in conto a mai finire. Il tempo di ripassare tutta quella storia lì, che te la ricordi bene e intanto c'è qualcuno che ti chiama e da qualche parte devi pur andare e ti rimane quel sapore amaro che poi ci penserai con calma e non lo dici agli altri ma te lo porti dietro per obliqua compagnia.
Il tempo che non c'è più tempo e te lo dicono sempre gli altri e tu, come sempre, non ci avevi capito niente.



sabato 22 giugno 2013

Orgoglio e pregiudizio

Ilaria Guccione, Gay pride, tra cappelli e cappelle (Palermo, 2013)

E dice che a Palermo c'è stato il gay pride, quello più importante, quello nazionale, mica cazzi, quello che più a sud non si può. E se vivi in centro storico te ne sei accorto per forza, con i vetri che ti vibravano e la Carrà e la Gaynor e Zero che ti entravano in casa senza chiederti il permesso. Che ci trovavi a sventolare bandiere straniere, del Brasile, ad esempio. E dice che quest'anno mica ci si è fermati alla manifestazione ma c'è stata una settimana intera prima, che potevi andare a sentir musica, sempre che l'amplificazione te lo permettesse, a mangiare e ubriacarti al gay village. Che poi questo gay village chiamiamolo per quel che è e che ritornerà ad essere domani: i cantieri culturali alla Zisa o se ci tieni proprio alla precisione e io ci tengo molto, le ex officine Ducrot, roba dei tempi dei Florio. Insomma, roba dei bei tempi andati. E di altro tempo ne abbiamo visto andare da quando li hanno riaperti. Roba del fu Orlando che da poco è resuscitato. Insomma, riaperti. Te lo dico in due parole, buona parte delle officine Ducrot non è agibile ma fa tendenza, quando serve. Se sei di Palermo o la conosci quel che basta, sai che noi abbiamo il gusto del rudere, dell'apparato effimero e del fumo negli occhi. Così, se ci cade in testa qualcosa, non ce ne accorgiamo neanche.
Un fumo fucsia, magari. Che oggi era il colore perfetto. Il fucsia come colore dell'orgoglio ma se poi sento gli etero esclamare con orgoglio che siamo tutti omosessuali, non capisco l'orgoglio di che. Non ci ritrovo più l'orgoglio dell'essere diversi che ci rendeva tutti uguali in quell'unica giornata nella Roma del giubileo del 2000. E da allora tutto quel troppo trash da media e gay risolti in macchiette e coming out da farci notizia. E non me lo confondere con l'outing perché mi incazzo di brutto. Non sei diverso se metti su una parrucca improponibile per sfilare e poi l'indomani torni a far finta di essere etero e normale e magari pochi o tanti anni fa ti sei anche sposato e magari hai fatto anche dei figli. Poi però. E il poi lo sai meglio di me. Il pregiudizio del quotidiano pesa più dell'orgoglio di una giornata o di una settimana di festa. E in questo sud che più a sud non si può, pesa più che altrove.

Alain Barrière "La foire aux coeurs"

venerdì 21 giugno 2013

Non ho vino da perdere

Ilaria Guccione, Vattel a pesca (Palermo, novembre 2012)
 
Tra le dita il bicchiere ciondola, tra i suoi confini di vetro il vino dondola, ci si tuffano i pensieri che a quest'ora sono più che stanchi, ci si annega il dispiacere che spiace più del caldo di fine giugno e di giorno andato.
Ci galleggia qualche parola di quelle che non c'è verso di mandarle via, ci si formano frasi sospese in gioco di dispetto e di cattiva allegria.
Gioco che solo loro sanno e che mi rompe il capo e per vederci chiaro provo ad affondarle versandoci su dell'altro vino. Ma ci capisco sempre meno e in tutta quella trasparenza da bicchiere ci trovo un fondo nero di sillabe ribelli e allora me lo bevo insieme al resto, così ci penso su, che si fa meglio a bottiglia svuotata. E intanto ho perso il conto di bicchieri e dispiaceri ed è tutto un girare veloce e un sorridere al niente.
Ma ti ricordi di quella volta che noi si stava lì a ridere, ti ricordi del mio viso rosso, ti ricordi della mattina presto e del tramonto, ti ricordi di quando noi, ti ricordi di  quando, ma scusa tu chi sei, perché io di te non mi ricordo mica.
Vai via, su. Vai più lontano che puoi. Va ieccati dove cazzo vuoi, scegliti qualunque mare che non sia il mio. Ché non ho vino da perdere, io.




lunedì 17 giugno 2013

E chissà il tempo

Ilaria Guccione, I muri sono autonomi (Palermo, 2013)

E chissà il tempo. Quanto ci ha tolto e quanto dato, in rughe sulla faccia e in trucco di pensieri e in eccesso di bianco tra i capelli, in sogni disfatti e in desideri ancora accesi ed in acrobazie impossibili che ne valeva sempre la pena, anche quelle volte che ci si è ritrovati col culo per terra.
E chissà poi. Come ci si misura tra una partenza ed un arrivo, su quale marciapiede sia più facile ritrovarsi, se sia meglio il sollievo dell'ombra o l'insistenza del sole prima del farsi abbraccio. 
E chissà il tempo. Se è solo conto in perdita dal giorno all'anno, se il guarda che ormai ne è passato troppo è cosa giusta da dirsi a chi è rimasto. 
E chissà poi. Che si va sempre un po' indietro ed altrettanto avanti e il ritrovarsi è sempre un gran regalo.



domenica 16 giugno 2013

Tra rumore e distanza

Ilaria Guccione, Vado al Massimo (Palermo, 2013)

Gitanes con filtro, la piazza piena e vuota, il sole che va via educato, i gesti buoni interdetti e tutti gli altri sempre a portata di offesa che ti centra sempre e non si sbaglia mai. 
La domanda è sempre la stessa e la risposta manca. Il tempo è quel che è e lei lo lascia andare. 
E io lascio andare lei, che cammina e cammina al centro della strada come per regalarsi un sorriso e uno sguardo di sfida contro quel niente intorno che pesa troppo dentro, giocandosi i suoi passi in una danza che solo lei sa.
Ci si gioca tutto tra rumore e distanza.









sabato 15 giugno 2013

Mettiamoci una pezza

Ilaria Guccione, Tra amici e pantaloni (Palermo, 2013)



A furia di mancarsi il tempo per la scelta, ci si ritrova senza scampoli di voglia per riacquistarsi il senso delle cose, ché quello non lo puoi trovare in nessun mercato e guai a te se ti butti su quello del pensiero usato ma comunque fai pure quel che ti va, io te lo volevo solo dire e tu continua pure a svenderti e giocare. Che io intanto sono altrove e non ti lascio nessuna coordinata buona per gli incontri, se ti ricordi ancora di me sai come arrivare fino a quell'angolo lì ma poi non è detto che io ci voglia ancora passare.
A furia di impigliarsi nei riflessi degli altri ci si perde nella fretta del giorno i propri gesti e si arriva a sera da estranei, a prendersi la confusione della notte e il fiato dei luoghi comuni. E dai che poi ci sta pure una brutta fotografia fuori fuoco e fuori sentimento, che tanto non se ne accorge nessuno e siete tutti contenti, con il trucco sbavato della cena e nessuno che per te spenda un soldo sincero in pena.
Alla fine rimangono solo le pezze e quelle, anche se non le vuoi perché a difendere il tuo buon gusto e la tua approssimata dignità ci tieni, tranquillo che te le tirano addosso gratis tra faccia, cuore e culo, che intanto ti sei fatto vecchio mentre stai ancora lì fermo che aspetti. Che qualcosa o qualcuno ti faccia diventare grande.


giovedì 13 giugno 2013

Spera e spira oppure spara

Ilaria Guccione, Guardare (Palermo, 2013)

Lei sta seduta, di bello e di cattivo tempo, con un sorriso sdentato e un tremolìo di mani che glielo cogli appena. Dice che ormai non aspetta nessuno e niente, se glielo chiedi ti risponde che un tempo degno dell'attesa non esiste. Che se caschi a piè pari nella fossa dell'aspettare, dal fondo non ti sente nessuno e il tuo tempo lì sotto da sola sa solo di fango e sai quanto tempo ci vuole a ripulirti la bocca e il ricordo non te lo smacchiano da nessuna parte. E sai quanto tempo che hai sprecato a dondolarti là sotto, regalandoti tra un'eco e l'altra un monotono monologo del frastorno.
E allora non sperare, ché alla fine spiri. Ma se ti vuoi salvare allora sì, ci sta che spari. Altrimenti puoi sempre sparire, che è come svuotare in fretta scaffali e cassetti, cancellar tracce o almeno provarci, scappare via di notte e non voltarti mai. Ma è roba che non ti appartiene, è un copione che tu proprio non sai.
E allora dammi un calibro buono, che se lo incontro gli spacco il cuore e se ce l'ha davvero di pietra miro altrove. Prima che per noia sia lui a centrare il mio, senza neanche sapermi più guardare. Bang bang.







mercoledì 12 giugno 2013

Venticinque

Ilaria Guccione, Venticinque (Palermo, 2013)

Lo chiamavano Venticinque ma lui sapeva contare solo fino a dieci. E sapeva anche l'arte del chiedere, quella che non hai bisogno di parlare e mano tesa alla distanza giusta e tasche larghe da poter riempire, ché tanto a far di conto a fine giornata c'era sempre qualcun altro in grado di arrivare fino a cento. Ma il sorriso, quello era sempre storto, che di allineare se stesso al mondo non era proprio capace. E faceva a trasi e nesci dalla chiesa dei giorni di festa che non si sa mai. E chissà quante omelie a scivolargli addosso e quanti non ho spiccioli in sacchetta per risposta, a toccarsi la giacca buona in perquisizione volontaria.
Dice che io invece so contare eppure a far di conto non ci tengo e non mi so trovare tra il ballo dell'uscire e quello dell'entrare. Del resto, a farsi due conti di quelli proprio elementari, per te non conto un quarto di niente, neanche di quella luna che quasi ci siamo di nuovo. E allora di mille e mille passi e sguardi, che proprio non li sai perché ti conti e sconti in soldi e saldi e donne da amuleti truccati, mi perdo lentamente finché voglio e mi guadagno assai. Mi avvantaggio in fortuna tenendomi per mano.



domenica 9 giugno 2013

Di pessima notte, di buon mattino

Ilaria Guccione, Bianca (Palermo, 2013)

Di pessima notte, di buon mattino. Aprire e chiudere, finestre ed occhi. Sgualcire appena i pensieri scomposti, lasciarli in prestito alla stanza su una pila precaria di libri, perché storie e polvere li veglino in mia assenza. Scegliere la domanda meno opportuna per un pomeriggio di giugno, quella di quando non sai dove andare e intanto la mano ha già afferrato una manciata di quei pensieri lì, che magari almeno una risposta per strada oggi la trovi oppure si può provare a buttarli in mare e chissà che non anneghino.
Armarsi del primo sorriso che capita a portata di viso, per provare a far fuori questo acre dolersi del giorno.
Lasciarsi guidare dalla curiosità allegra delle dita di una bambina, per ritrovarsi curva e leggera tra un sole assordante e l'ombra che promette nuove domande.


giovedì 6 giugno 2013

Lancerò sassi nella fretta

Ilaria Guccione, Lo studio è sacro (Palermo, 2013)  





No che le parole non bastano in questo giorno sghembo e il tempo a disposizione è poco, il momento dicono che sia sempre quello sbagliato, come il colore dell'inchiostro che ho scelto ed il luogo me lo sento scomodo perché me l'hanno imposto con finta gentilezza. E allora non ho niente da scrivere né da dire. Lancerò sassi nella fretta, nonostante i divieti. Cercherò di non cadere nella trappola affossante della regola. Mi basterebbe centrare quel solo bersaglio o almeno appropinquarmi al tuo punto più dolente per concedermi in premio brandelli di quiete, ché oggi sono così stanca che se mi trattengo ancora il senso del mio essere stata e del mio andare ci muoio.



mercoledì 5 giugno 2013

Tra anestesia e sinestesia

Ilaria Guccione, Anestesia involontaria (Palermo, 2013)

A volersi regalare un'anestesia, ti ci vorrebbe sempre un medico a portata di mano, un intervento nei paraggi, una speranza di salvezza che sappia almeno di ossa, una perdita dei sensi che a una come me non è mai garbata. Che a volte però ormai mi ci ritrovo a pensarci su al mattino, mi chiudo gli occhi davanti allo specchio e mi dico: che ci vuoi fare, aspetta che prima o poi ci incappi in una pausa forzata di sogno. E dai stupida, sorridi che almeno per un po' ci dormirai su.
Io però mi preferisco vigile in una continua sinestesia, ad oscillare tra un incrocio di senso e un altro, tenendomi caro quello mio. E tu prova a distruggermelo, che non ci riesci, me lo posso ammazzare solo da me.
Che profumo accecante, che baci sciancati, che rumore buio che mi si cuciono addosso ogni notte.

Piovve tutta la tristezza del mondo

Ilaria Guccione, Piove e non piove (Palermo,  2013)

Arrivò infine il momento del commiato. 
Il cielo offrì per ultimo regalo un temporale. Piovve su di loro tutta la tristezza del mondo.
-Ti sbagli, era una perfetta giornata di sole e di festa. Si salutarono con pioggia di sorrisi e di abbracci sudati e smisurati.
-Ma stai zitto tu, sono io che sto raccontando e la storia la so a memoria.
Stammi bene. Disse lei. 
Non mancherò. Nei giorni in cui mi tutto mi andrà storto la penserò con pena e con rimpianto. 
Siamo già al lei? Gli chiese cercandosi sulle labbra la sua solita ironia e trovandosi addosso troppi strali di malinconia. 
Bisogna pure che noi si ritrovi il senso della distanza, è un punto di partenza come un altro per dirsi addio girando intorno a quest'antipatica parola, rispose lui.
- E invece non riuscirono a staccarsi, raggiunsero quella grande piazza che non mi ricordo come si chiami e rimasero lì fino al tramonto, in mezzo a tutto quel viavai.
- Non raccontare cazzate che tu non ne sai niente e sto parlando io.
Allora mi stia bene e si eviti la pena. La grazio senza un grazie e vado a cena. E si voltò perché lui se la ricordasse di schiena.
Ma come, te ne stai già andando? Le chiese stupito. E' stato tutto molto bello e allora forse qualche altro minuto.
Ma non ci pensi, su, rispose lei con l'ultimo sorriso già lontano. Trasformeremo il passato prossimo in remoto: è solo una banale questione di tempo, sgretoleremo con successo la sintassi di ogni sentimento.
- Hai raccontato una storia troppo triste, non mi piace.
- E' l'unica storia che conosco.


domenica 2 giugno 2013

La felicità si racconta male


Ilaria Guccione, La forma dell'acqua alla Kalsa (Palermo, 2013)
Musica fa compagnia e sfiora la tenda che danza con passi leggeri di vento, il resto è finta quiete che gravita tra il tavolo e il divano, tra la mente e il piede che batte distratto il tempo.
Malinconia si è rintanata tra le trame del tappeto, si confida in gioco di polvere col pavimento e attende paziente l'eco dei passi che volutamente latitano e le girano intorno.
Dice che la felicità si racconta male perché non ha parole ma si consuma e nessuno se ne accorge.* Ebbi a malapena il tempo di ripetermi queste parole che lei se ne era andata a stare chissà dove e vai a capire lui e dove si fosse volontariamente sotterrato mentre io, incredula e intrappolata in confusione di immagini e vortice di sorrisi, trattenni entrambi stringendomi con forza i ricordi inteneriti tra le dita.
Felicità si affaccia alla finestra, ti gioca all'improvviso uno scherzo, quello che se ti sporgi adesso lei si lascia prendere. Intanto scivola e scorre come acqua che ride.

* Da: Jules et Jim, film di François Truffaut (1962).


sabato 1 giugno 2013

Delle galere solo macerie

Ilaria Guccione, Delle galere solo macerie (Palermo, 2013)

E ora sono qui, in questa cella, nel reparto degli assassini, nella prigione di Folssom! E aspetto il giorno e l'ora in cui i servitori della giustizia mi caleranno nel buio, in quel buio di cui essi hanno tanta paura; in quella notte che li spinge, sgomenti, verso gli altari dei loro Dei dal volto umano, costruiti dal loro terrore e dalla loro viltà! *

Non c'era via d'uscita se non ficcare la testa tra gli spiragli del ricordo e anche quelli a volte erano troppo stretti perché ci potesse passare aria buona per continuare a campare. E il tempo, scorreva così lento il tempo che pareva avessero ingabbiato anche lui, condannandolo a suon di botte a trattenere le lancette. E allora non rimaneva che sognare e traslocare in sogno in un altrove possibile, il più possibile lontano da chi, arrampicato com'è sulla sua alta scala di giustizia, si sente sempre in pieno diritto di poterti mollare da lì un calcio in faccia tutte le volte che vuole.

Ogni santa mattina la vecchia inchiodava il suo corpo ingombrante su una sedia sgangherata, incatenando le sue ore alla condanna dell'attesa davanti la porta di casa. Che prima o poi suo figlio sarebbe ritornato o magari qualcuno avrebbe finalmente fatto saltare per aria quelle catacombe di cemento traboccanti di vivi. Ma a furia di segnarsi sui calendari il suo dolore, fu solo a lei che scoppiò il cuore.


* Da: Il Vagabondo delle stelle, Jack London. (E grazie a Franco!)