Spider-Boy

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martedì 28 gennaio 2014

Fin dove possono i passi

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Ilaria Guccione, Stereo sound man (Palermo, gennaio 2014)

E non ebbi neanche tempo di parola che potesse scagionarmi.
E non ebbi tempo di saluto che sapesse almeno consolarmi.
Mi rimase tempo di strada e di memoria per continuare a raccontarmi la mia storia.
Che sarà poca cosa ma me la porto in giro come la gioia più preziosa.
Non chiedo più parola, ché ne ho fin troppe in tasca dopo anni di scuola.
Non chiedo più saluto, ché non sai mai se rimi in onestà con benvenuto.
Passo, davvero passo e inciampo e cado e mi riprendo e passo e vado avanti fin quanto posso.
E tu ricordati, se puoi. Del mio cantarti stonato sottovoce, del mio non metterti mai in croce, di quel voltarmi appena ad ogni malevolo cambio di scena. 
Del mio sorriso appeso a far speranza, quello che sa ancora sfiancare ogni incompresa lontananza.

Iconografia

CarteVecchi
Ilaria Guccione, Tressette col morto (Palermo, novembre 2012)

Il fumatore lo riconosci dalla tosse che fa ingombro tra casa e marciapiede quando ride di cuore e il polmone gli singhiozza, l’anziano  lo capisci dal tempo rallentato fatto di sedie e carte in mano e conti alla rovescia che dice che ormai gli manca poco e poi davvero passa. Il bambino dalla curiosità del gioco, che non l'ha ancora finito e ne ha già un altro per le mani.
L’artista lo puoi trovare inchiodato ad uno specchio con una reflex possibilmente ultimo modello o con lo spartito o il libro degli altri, possibilmente morti, sotto al braccio e sempre con un breviario di citazioni che gli straripa in gola e sempre con quel sorriso idiota da televisione che gli si è incastrato tra i molari.
L’innamorato che s'inventa felice lo sai da quel vagare degli occhi e della mente che lo porta lontano. L’innamorato che si è scoperto deluso lo sai da quel fissare un portone chiuso che non lo porta da nessuna parte.
Lo stronzo lo identifichi dal volto che gli si irrigidisce non appena ha deciso di chiuder partita, di far posto ad altri tra vita, tavolo e contratti, di cestinarti con un calcio perché non gli torni più comodo.
Me mi riconosci dal passo e dalla fretta. Da quel che, inutile, dimentico che è sempre meno di quello che m'importa e lo trattengo, dal bianco e nero che mi gira intorno, dal voler sempre ostinata sottrar distanza ad ogni lontananza.

(Se non sai cosa sia l’iconografia, puoi leggere qui.)



venerdì 24 gennaio 2014

Amore che hai

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Ilaria Guccione, Love dating (Palermo, gennaio 2014)

Amore di cosa, amore perché.
Che mille volte te l’hanno scucito, strappato, rispedito per dispetto a un indirizzo sbagliato e non te l’hanno neanche un poco rammendato.
Che hanno fatto di tutto per fartelo odiare, perché lo nominassi invano e poi lo volessi bestemmiare.
Amore da quando, amore per chi.
Che tu ci hai sempre speso senza pesar mai guadagno e loro invece a navigar d’invidia e costringerti al ristagno.
E allora te ne sei andato per non sentire inutili rumori, per ricucir parole al fiato e non cedere ad altrui rancori.
Per non perderti il bene che ti vuoi nei giorni che il mondo t'affanna. Ché l’amore che hai non t'ha mai negato niente, seppur spesso t'inganna.


mercoledì 22 gennaio 2014

Tutto nel mondo è burla

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Ilaria Guccione, Linguacce (Palermo, dicembre 2013)

Tutto nel mondo è burla. E così che cala il sipario, sul Falstaff di Verdi e su ogni ridicolo scenario e non è detto che odori di commedia ma spesso s'apparenta alla tragedia. Ci sono giorni che me lo canticchio questo finale e sono giorni come questi che, a pensar bene, di meglio non puoi far niente.
Era la bella estate del 2000, Roma scoppiava di sole e regalava ad ogni incrocio meraviglia. Era l’estate del Falstaff, che un mio amico debuttava nel ruolo del protagonista e s’andava e veniva dal chiostro della Basilica di san Clemente per fare e seguir prove.
E c’era un tenorino biondino americanino che aveva calamitato l’attenzione di una mia giovane amica arrivata in quei giorni dall’isola. Bocca baciata non perde ventura però fai presto che non si sa mai che ti riservi l’ora futura.
E poi c’era tutto quel tempo, benedetto tempo, che ti sembrava di averne un’infinità a fianco e ti fermavi a stento ché avevi troppo da guardare, fare, aspettare, giocar d’imbroglio per poi ricominciare.
Ci gabbò tutti il tempo, hai voglia a fare quelli circospetti e attenti, a spalancarsi braccia per trattenere il mondo. Ci ritrovammo col culo per terra, chi a voce rotta dal disincanto, chi a desiderio spento a fischiettare note nel rimpianto. Rispondemmo alla telefonata sbagliata, ci perdemmo di strada mancando la fermata. Ci ritrovammo a sbiadirci il sorriso in poche foto che ora vai a ritrovarle in fondo a chissà quale cassetto e magari neanche ti va.
Sempre meglio che venir gabbati dal primo idiota di turno allo sportello del potere che tu non sai che farci e ti dicono che sia preferibile il tacere e penna rossa a colarti ingiusto inchiostro imponendo correzione e tutto quel minacciar sorridente che sottolinea sempre costrizione.






venerdì 17 gennaio 2014

S’è fatta ‘na certa

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Ilaria Guccione, S'è fatta 'na certa (Palermo, novembre 2013)
Pubblicità vuole che ogni orologio segni le 10.10, minuto più, minuto meno. E’ leggerezza che porta inconsapevole allegria, l’andare verso l’alto di una linea curva che batte la forza di gravità nel farsi alta, come nell’istante del sorriso. Un tempo immobile che ci misura tutti quanti con le stesse lancette.
E vissero tutti nell’acquisto felici e contenti.
E vallo a dire a chi il tempo se lo segna con il peso di ogni passo, a chi si è portato avanti di mezzo minuto e parecchi metri e lo sa bene che è arrivato in anticipo ma poi si sente dire che si è fatto tardi e gli si spegne il sorriso e non gli rimane che tornare indietro, dopo averci girato intorno che non si sa mai un ripensamento, un errore di calcolo, un malinteso da due soldi, qualcuno che ha voluto giocargli uno scherzo.
Mi ricorda una storia in cui andando di corsa m’ero anche persa eppure avevo fatto in tempo ed ero sfiatata ma contenta ma vallo a dire al tempo degli altri e se pensi che la storia te la racconti adesso aspetta e spira, ché di tempo ne avrei ma la voglia mi si è dispersa.
Sogno una misura del tempo che ci permetta sempre di venirci incontro.

giovedì 16 gennaio 2014

Ci sono giorni che

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Ilaria Guccione, Assaggio (Palermo, gennaio 2014)

Ci sono giorni che il passo ti diventa lento, che disincanto ti rima solo con spavento.
Ci sono giorni che a passarteli in famiglia non ci trovi mai nessuno che ti rassomiglia.
E tu che non hai a disposizione nessun bastone ti perdi il passo adatto ad ogni occasione.
Ci sono giorni che fa fatica il fare, che ci si impiglia saldi tra il non saper restare ed il voler comunque andare. 
E a te che non temi mai distanza non resta che guardarti sfocare immota in lontananza.
Ci sono giorni che ti dondolano tra il non volersi niente ed il pensarsi peggio. 
E ti chiedi tutte le risposte in un secondo ma almeno sai che non ti darai a noleggio per nessun prezzo al mondo.
Ci sono giorni che la tristezza insiste col darti di carezza. 
E tu che ti perdi ad ogni giro matematico non sai come sottrarti e cedi a quel suo insistere antipatico.
Ci sono giorni che non si sceglie il giorno e allora aspetti che si colori l’ora del buon ritorno.
Ci sono giorni che i pensieri te li spari col silenziatore perché non sentano troppo dolore.

mercoledì 15 gennaio 2014

Assolo in gennaio

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Ilaria Guccione, Fiato e afflato (Palermo, dicembre 2013)

Ho guardato. Donne in bilico su vetrine tirate a lustro gioire d’un prezzo falsamente dimezzato.
Ho lasciato. Che la banda sfiatasse il suo motivetto leggero per non farle incontrare il mio umore malandato.
Ho pensato. Che le regole son tutte sbagliate ma che piacciono a troppi per ammettere che il gioco sia sempre sporco e scontato.
Ho cercato. Di pescare un sorriso che sapesse di buono dal groviglio ingombrante che fa il mio tempo passato.
Ho sperato. Che il mio amore mi lasciasse per strada i suoi occhi ma se n’era già andato.
Ho passato. Il mio turno all’idiota del giorno e nessuno che mi abbia informato.
Ho ascoltato. I miei passi a ritroso fino a quel mio solito vecchio punto di partenza che non mi ha mai scordato.
Ho contato. Il mio esser qualcosa e il non contar niente e poi l’ho scompigliato.
Ho cantato. Senza quasi ascoltarmi la voce una vecchia canzone che mi ha consolato.

domenica 12 gennaio 2014

Se bastasse accontentarsi per farsi contenti

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Ilaria Guccione, Il sonno dei fusti (Palermo, gennaio 2014)

Ma antichi e ricorrenti sono i naufragi, sono d’ogni epoca, d’ogni avventura, sogno, d’ogni frontiera elusa, noi naufraghi di una storia infranta, simboli di un epilogo, involontarie comparse, attoniti spettatori di questa metafisica.
Di cui non conosciamo i confini, dimenticammo l’inizio, ignoriamo la fine, ma riferiamo incauti il vario apparire nelle luci e nei tempi irriferibili.
(Vincenzo Consolo, da: Retablo)

Se bastasse pagare un corso di fotoritocco a fare una foto decente.
Se bastasse chiudere un occhio per proclamarsi leggeri e innocenti.
Se bastasse uno studio virtuale a consacrare in plausi il buon musicista.
Se bastasse pararsi il culo con quello degli altri per sentirsi puliti.
Se bastasse aumentarsi il tacco per ritrovarsi cresciuti.
Se bastasse truccare le carte per risultare vincenti.
Se bastasse chiudere gli occhi per potere dormire.
Se bastasse un buon correttore per diventare brillante scrittore.
Se bastasse sventolar bandiera per avanzar rivoluzione.
Se bastasse stringere i denti per sentirsi davvero resistenti.
Baby, è il mercato del senso becero riciclato, del prendi tutto e fallo in gran fretta e non guardare se è già scaduto, se puzza di merda e se è slabbrato e liso, se è la solita mediocre storia che va in centesima replica e nessuno che dica mai basta e tutti a farselo bastare questo abusato niente.
(Se bastasse accontentarsi per farsi contenti.)

sabato 11 gennaio 2014

Scampoli di memoria

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Ilaria Guccione, Frange (Palermo, gennaio 2014)

Nella stanza del cucito c’era un divano fiorito che mi faceva da letto e guai a tirar via il lenzuolo in notti accese da battaglia, ché quei fiori pungevano parecchio. E poi un grande armadio di quelli buoni per frugarci al buio, che qualche tesoro nascosto poteva sempre venir fuori o magari ci trovavi quel mostro che di notte ti tirava il lenzuolo e a quel punto  ti mettevi al sicuro con tutti i giri di chiave possibili. E poi c’era il mio bagaglio di bambole, lo stretto necessario per sopravvivere in trasferta calabra e poi ancora quello della fantasia ma per quella, grazie a me, ho sempre avuto spazio bastevole. E ancora quella foto gigantesca che viva gli sposi e il sole che li baciava così tanto che oggi a riguardarla scolorita a casa dei miei mi appare fuori posto nella mia fu stanza di bambina e ragazzina. La finestra dava sull’enorme cortile, quello di tutti i giochi possibili quando ti davano il permesso di andarci. Anni e anni di arrampicate estive per guardar giù. C’era di giorno la Singer che mia nonna faceva andare, quel rumore che ci accompagnava regolare ed io che frugavo nel cesto e ottenevo pezzi di stoffa per portarmi avanti col corredo della Barbie o della Corinne, che a nominarla oggi fa parecchio vintage, che è come dire che ormai sono vintage pure io. E dai che il filo nell’ago lo infilavo sempre io e mi sentivo importante e prova a chiedermelo adesso che me lo chiedo da sola e incespico nella mia lieve presbiopia e non ti posso dire in quanta nostalgia.
C’erano i biscotti al mattino da affogare nel latte e la baffuta testimone di geova che ti portava il pollo ruspante e poi ti doveva far convinta che dalla torre  di guardia avevano avvistato la fine del mondo e io che sbuffavo guardando mia nonna.
E poi mi feci alta abbastanza per abbracciare il cortile e per sedermi sul davanzale, e grande il giusto per raggiungere la via principale del paese e comprar libri e cartoline su cui baciare francobolli e per far vasche in villa comunale. Fino a quando non ammazzavano qualcuno e allora mi dicevano abbastanza piccola per non andar fuori da sola e io e il nonno ci tenevamo il broncio.
E cuci e scuci il tempo andato, rattoppati i ricordi, tira il filo e ricomincia come sai. Che  di scampoli di memoria ne ho quanti ne vuoi. Filo filo del mio cuore avanza finché puoi.

giovedì 9 gennaio 2014

Si abboni a un'altra vita e sarà richiamata

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Ilaria Guccione, E' finita in una bolla di sapone (Palermo, dicembre 2013)

Come un telefono che lo si lascia risuonare nell’infinito vuoto. Come per dire al niente che sei tu che non hai più buona memoria del tempo che fummo ed io qui che aspettavo una risposta e tu lì che sei partito nella tua fretta ben organizzata ed hai lasciato la mia domanda in un cantuccio abbandonata. Attenda, prego. Che magari, se nel frattempo s'abbona a un'altra vita, sarà prontamente richiamata.
E allora mi piacerebbe rispondere che io sono ancora quel che ero quando mi muovevo a stento, quand'ero un gioco a quattro zampe su quel rassicurante pavimento ma poi in fondo tu che ne puoi sapere di quel mio annaspare o di quel farmi gara su due gambe che ora è il mio andare e poi cos’è che io riesco a ricordare se non quello che mi va meno male, quel poco che ho salvato, quel tanto che ho ripulito per come si poteva e per come mi son costretta ad imparare a fare.
E poi è cambiato il pavimento e poi ne è trascorso davvero parecchio di tempo. E' finito anche il respiro trattenuto dal singhiozzo dei gettoni ma si fa sempre presto a scommettere su nuovi ritardi e soliti abbandoni.
Risponderò solo che c’è sempre un buco nero in cui si rischia di cadere, una bolla bella di sapone che ci si sforza a trattenere, un gorgo di dolore che non sai come fare per lasciar di te solo brandelli al fondo e riaffiorare quasi intera. E si finisce sempre che qualcosa scoppia, esplode o affoga, che non hai mai il tempo di capirci niente ma si ritorna sempre a respirare, anche se all'inizio a respirar di nuovo ti ci ritrovi a stento.
Attenda, prego. Si provi intanto a cambiar vita, ché da qualcuno prima o poi la faremo richiamare.

lunedì 6 gennaio 2014

Un non luogo a procedere in distanza

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Ilaria Guccione, Facce (Palermo, dicembre 2013)

E' che si può amare da morire ma poi, per non morirci troppo su, si può andar via con un saluto malamente sillabato e tracce di un sorriso che sa già di assenza sul selciato. Con quella stessa fretta di quando ci si alza all’alba, che c’è il lavoro che ti aspetta e si ha giusto il tempo lento di un caffè, un occhio ce l’hai ancora chiuso e l’altro è aperto chissà su che e già si corre via a farsi prendere da un treno o da un tram.
E’ un non luogo a procedere in distanza, un dichiararsi ingenuamente arresi che già sa di smisurata lontananza.
Io di treni ne ho sognati e presi e attesi tanti ma mai nessuno che mi abbia riportato il tuo viso e quel tuo andare rapido per via e quel tuo sguardo tiepido e obliquo come il cielo delle cinque. E allora, per ingannarmi il tempo, ho contato biciclette a passeggiare donne per la piazza ed io a girarci intorno, come se fossi solo io quella dal cuore infranto e dalla mezza faccia pazza.
E la faccia tua dove l’hai lasciata, mantieni ancora quella buona per il saluto del mattino mischiato al dentifricio del mezzo sorriso e quella della buonanotte che sa di lenzuola e noia e quella armata di chissà cosa per la rivoluzione da cantarsi al primo domani che si può, al primo concerto che si dà?
Io mi trattengo ancora la faccia impressa nell’ora indefinita del cuscino che non so più che farne, se rivoltarlo di parole o soffocarlo di silenzi e intanto ci  rimango, occhi aperti sul silenzio della notte, ad aspettare nuovamente il giorno.





venerdì 3 gennaio 2014

Ho steso le parole

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Ilaria Guccione, Si sta come d'estate i panni ad asciugare (Palermo, luglio 2013)

Ho steso le parole sul filo del bucato per regalarmi tregua e dare loro fiato. Ne ho misurato ogni distanza senza aver cieli a vista dentro alcuna stanza.
E poi quella grandine inattesa del ricordo a scompigliare il va pensiero del buon giorno che dicono in tanti, quello del cercati strada dritta che arrivi prima e ti conservi intera, quello che tanto non gli do retta perché non mi vivo né scrivo mai di fretta.
Ho ritirato le parole in un abbraccio saldo in nostalgia e poi le ho lasciate libere di andar lontano dalla logica degli altri, libere di girarmi intorno e regalarmi ancora un loro girotondo.
E forse ora sì che posso andare e adesso sì che so di nuovo raccontare e potrei scrivere di quando e potrei dirti non sai quanto.