Spider-Boy

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martedì 30 aprile 2013

Gira e rigira


Ilaria Guccione, Palermo in vetrina 1. (Palermo, 2013)

Sarà che al risveglio te lo puoi ritrovare che va al contrario. Il mondo, quello tuo che ti sembrava così sicuro, che dici che te lo proteggevi tra pareti alte e invece eri tu che gli chiedevi riparo.
Sarà che le cose crollano quando decidono loro e, anche se ti regalano il preavviso di una crepa, tu fai sempre in modo di non accorgertene.
Sarà che è la gente che va al contrario quando più le conviene, si nasconde dietro il primo angolo disponibile e si fa ombra e non si lascia più incontrare. 
Intanto un disco gira alla velocità che conosce e la musica è sempre la stessa. Gira e rigira la mia testa e la direzione dei pensieri non fa che cambiare.

Ilaria Guccione, Palermo in vetrina 2. (Palermo, 2013)


venerdì 26 aprile 2013

Di baci a migliaia

Ilaria Guccione, Dammi mille baci che sappiano di mare (Palermo, novembre 2012)

Il pomeriggio sa di pioggia, che anche se ora ha smesso te la ritrovi fuori ad ogni passo.
(E attenta che ora scivoli. Poco, ti manca poco e scivoli.)
Il bambino in calzoncini ha un secchio da svuotare ma al cassonetto non ci arriva e allora apre un enorme sacco nero buttato per terra. Se ne va soddisfatto circumnavigando le pozzanghere. A due passi c'è una via che è tutta un fremito, un avanzare di sedie e tavolini in attesa di avventori e bicchieri da riempire e vuotare, possibilmente ad alta velocità. Non so perché ma mi viene in mente Catullo, quello che Lesbia l'amava e l'odiava e intanto continuava a scriverne. Sull'edizione critica dei carmi di Catullo ci ho passato ore in bilico tra metrica e traduzioni e ogni tanto qualche verso ancora mi assale, rigorosamente in latino. Il professore di Letteratura latina I era l'unico che alle otto del mattino lo trovavi già in aula. Quello che Catullo l'aveva tradotto in siciliano e allora ci declamava le poesie. Quello che il giorno del mio esame: Ilaria ma che bel nome, io da giovane ero innamorato di Ilaria Occhini. Quella che giorni fa l'ho vista recitare, giovanissima, con Paolo Stoppa nelle vesti del commissario De Vincenzi.* Quello che era il protagonista dei gialli di Augusto De Angelis. Quello che un fascista l'ha ammazzato a forza di botte, nel '44.
Da mi basia mille, deinde centum,** verso che in italiano è ben noto ai consumatori di baci Perugina. E quando di baci ne avremo raccolti ormai a migliaia, dice lui, ne confonderemo il totale per perderne il conto noi stessi. Perché nessun bastardo invidioso ci affascini. Cioè ci faccia il malocchio. Ché le persone felici dovevano guardarsi dagli iettatori, ché se qualcuno ti sapeva ogni tuo bene, il rischio del tuo male aumentava. E allora dovevi pur far qualcosa, magari sputarti sul petto, come Teocrito*** o dichiarare bancarotta,**** come il poeta latino, perché nessuno quei baci li potesse rovinare.
(E attenta che ora, tra versi e ricordi ti confondi.)
Poi mi viene in mente quella canzone che: e vorrei contare i tuoi capelli fino all'ultimo senza sbagliare e alla fine dire che son belli e confonderli e ricominciare. 
(So cadere quasi sempre in piedi e se mi vuoi contare i capelli, sappi che il conto lo perdi prima ancora di cominciare.)

* Ne: La barchetta di cristallo (1977).
** "Dammi mille baci e poi cento": Carme 5, quello che comincia con: Vivamus, mea Lesbia, atque amemus. ("Viviamo e amiamo, Lesbia mia".)
*** Idillio 6, 39: Per evitare il malocchio, tre volte ho sputato nel mio petto.
**** Conturbabimus illa: "ne imbroglieremo la somma". Conturbare rationes, rem familiarem o in assoluto conturbare: "far bancarotta". (da: Il libro di Catullo, Introduzione testo e commento di M. Lenchantin de Gubernatis, Torino, 1991.)




T'illumino d'immenso

Ilaria Guccione, Tutto sotto costo (Palermo, 2013)


Sono tempi che dice che bisogna risparmiare, anche sulla luce. Basterebbe imparare a manovrare i propri interruttori da soli e riuscire a fare anche qualche passo al buio. Eppure incontro sempre più gente che si lascia accecare il buonsenso a pagamento. Ma forse è gente che di buono e di senso non ne ha mai avuto. Ora dirai che sono io che voglio avere sempre ragione. Ed io non vedo perché non possa avere torto tu.

Seguici, noi siamo illuminati. E già che ci sei lascia un po' di euro all'ingresso, perché sai com'è. Ti aiutiamo a trovare il benessere psichico nell'incontro con l'empirico ma ci serve un contributo per la spiritualità e non ti preoccupare perché puoi usufruire delle favolose offerte del mese. Che se poi non ti accendi, ci riproviamo. Ché noi la via sì che la sappiamo, tu intanto seguici, che magari non sei ancora arrivato perché hai sbagliato di nuovo la strada ma noi abbiamo il tomtom esoterico interplanetare e ti ricondurremo sulla retta via. Che magari te la sei persa perché, proprio mentre stavi svoltando, il capricorno si scornava con l'ariete: roba seria che bisogna aspettare sereni l'arrivo di un temporale, quando i pesci  finalmente annegano nell'acquario: abbi astrologica  pazienza e seguici.
Vieni che ti facciamo fare un corso sulla consapevolezza inconsapevole del sè e ci mettiamo in mezzo magari due biscotti a forma di stella e un the. E dai che ti insegniamo a relazionarti col tutto cosmico, che devi respirare come ti diciamo noi ma che noi in fondo non sappiamo di che cazzo stiamo parlando ma in fondo attechettefrega? Tu sei qui per riconciliarti con l'universo mistico, con la chiave nella toppa ma anche con il cazzo nella topa, l'importante è chiudere l'occhio sbagliato e tenere aperto quello giusto e orientare il respiro a nord-est e recitare il mantra giusto e tutto va al posto giusto. E se non funziona, segui il nostro corso d'approfondimento, che sono pochi euro in più e vedrai che poi.







mercoledì 24 aprile 2013

Le mani mie, le mani tue

Ilaria Guccione, Le tre età (Aspra, 2013)

Bella voce che hai. Che con me non la usi mai, neanche per l'eco distratta di un bella ciao, e dire che questi sono giorni che va. Belle mani che hai. Che potresti parlarmi d'ombra su quel muro là ma non lo fai mai, e dire che sei uno che le sa usare, vabbè ma che lo dico a fare, tu le mani le usi bene solo per suonare.
C'era una piazza in fondo a un lungo andare che, a farlo a piedi e a reggere striscioni e bandiere, ci si era arrivati quasi stanchi. Ma poi si fece l'ora di pranzo e la piazza rimase sola. E il giorno dopo c'era di nuovo il solito vuoto, perché mica possiamo farci togliere un altro giorno di stipendio ma non se ne parla nemmeno ma che siamo scemi? Vacanza finita, e vai compagni che si torna tutti a giocare a scuola, non si sa bene ad insegnare che, se ad imparare non siamo buoni a niente. Rimasero tracce di slogan sul selciato, in attesa della prima pioggia buona. Ed io, che anche prima mi sentivo sola, mi rivoluzionai la strada ed ogni mia mezza giornata, chiudendo porte e via le chiavi e cercando vie che ormai nessuno ci passava, in fondo a tutto, in fondo a me. E niente sbarre a fare intralcio, che non mi piace il muro di nessuna prigione. Ma se un po' mi conosci, già lo sai.
Ti stai chiedendo perché te lo racconto oggi. Dev'essere colpa di quest'acqua che viene e va, che da quando hanno riconfermato il presidente della repubblica la primavera si è nascosta. Sarà che dicono che la Gelmini di nuovo. Sarà.
Tanti anni fa misi una giacca che ci navigavo, era di mio padre, era carnevale e di suo avevo anche le scarpe, imbottite sennò chissà dove finivano, è che avevo deciso di vestirmi da clown. Ti stai chiedendo perché te lo racconto oggi. E' che parlavo di Lolli con un amico e allora sai com'è. Sarà che non è più tempo di giacche ma per i pagliacci...
Ma tu lasciami pure un messaggio in segreteria, che ti richiamo e ti spiego tutto. E dai chiamami, io non ho nessuna segreteria. E vabbè, non ti agitare, rimani pure zitto. Lasciamo tutto com'è.


lunedì 22 aprile 2013

Aspettando Godot



Ilaria Guccione, En attendant (Palermo, 2013)

 
VLADIMIRO: A ciascuno la sua piccola croce. Durante il piccolo oggi e il breve domani.
ESTRAGONE: E mentre aspettiamo, cerchiamo di conversare senza montarci la testa, visto che siamo incapaci di star zitti.
VLADIMIRO: E vero, siamo inesauribili.
ESTRAGON:E Lo facciamo per non pensare.
VLADIMIRO: Abbiamo delle attenuanti.
ESTRAGONE: Lo facciamo per non sentire.
VLADIMIRO: Abbiamo le nostre ragioni.
ESTRAGON:E Tutte le voci morte.
VLADIMIRO Che fanno un rumore d'ali.
ESTRAGONE: Di foglie.
VLADIMIRO: Di sabbia.
ESTRAGONE Di foglie.*

ATTO I
Ad aspettare. Il ritorno del sole che se non c'è ti maldispone la giornata o il passaggio di un autobus che sennò fai tardi a lavoro. Quella telefonata che non ci dormi, sempre che tu faccia in fretta ad offrirle la voce prima dell'ultimo squillo.
Ad aspettarti sempre una buona o una cattiva uscita, rischi di addormentarti all'arrivo della primavera, di sbagliare la fermata, di non uscire neanche da casa o di non ritrovare più la strada per tornarci in tempo per la cena.
Le foglie, quelle sì che non aspettano. Anzi, aspettano il giusto e poi si lasciano cadere. E intanto non smettono per un attimo di parlare, non si accontentano di essere vissute né di esser morte. Bisogna che parlino, fino all'ultimo soffio di vento. E tu rimani qui a cercare parole da dire o da cantare ma ti manca sempre il coraggio dell'inizio.

ATTO II
Il secondo atto ripete di necessità il primo. Fallo cominciare dalla fine o dall'inizio, come ti torna più comodo per vincerti la noia e mantenerti un'ombra di speranza sulle spalle. Siediti un po' più a destra sulla panchina, guarda l'albero che hai accanto e prova a convincere il tuo compagno di sedute che è lo stesso albero di ieri e che oggi è pieno di foglie. Lui ti dirà che ti stai sbagliando e che, anche se non avete fatto un solo passo, ieri eravate in un altro posto. E così rimani qui a cercare di distinguere i giorni e intanto un'altra sera se ne va. Le parole son sempre quelle di prima, quelle che più le cerchi e più ti si ingarbugliano tra rami ormai secchi.

* da: Aspettando Godot, Samuel Beckett. 




sabato 20 aprile 2013

Tra il dire e il dare



Ilaria Guccione, Allegoria della Fortuna in cattedrale (Palermo, 2013)

Era per dare e non per dire. Ci siamo giocati un malinteso per una cazzo di vocale. Mi hai colpito d'insulto e di silenzio proprio su quello zigomo che mi fa male. E allora rubo due lettere e decido di andare. Poi le butto via, recupero una sillaba e mi fermo a guardare. 
Intorno trovo solo gente in costume, c'è quello da suora che studia, che lo indossa una ragazzina seduta e carte ed evidenziatore giallo tra le mani. E poi quello da vacanza nella città di sole e mare e venditori di ombrellini bianchi tutt'intorno. Giro intorno al carro della santa patrona e un incipit mi bussa nella testa.
Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s'è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia.* Rosa che mi hai punto e avvelenato il cuore. Lia che ti sei avvinta, ciatu di lu me cori che tento di respirarti e ogni volta mi trafiggi il cuore.
Rosalia che chissà dov'è finita, è carro posteggiato senza più statua ma tranquilli che a luglio ritorna, le scolpiranno un'altra faccia, l'agghinderanno nuovamente di rose e allora vai col solito viva Palermo e santa Rosalia, che almeno dalla peste ci salviamo sempre.
E mi fermo davanti a quella ruota enorme. Ruota che sa di Fortuna. Fortuna che la disegni donna e donna cieca perché tutti ama e tutti odia senza fare differenza. Poi penso anche alla Mala Fortuna, che la devi fare donna su una nave che non ha timone e albero e vela rotti dal vento e allora forse la santa ha capito tutto in tempo ed è scappata via e tanti saluti e baci e ci rivediamo il 14 luglio per il consueto vaccino e per il resto salvatevi come potete.** E gira e rigira questa benedetta ruota e capita che anche la Fortuna sia sfortunata, come quella povera allegoria in un affresco del 1751 che, pur di fotografarlo, trovo la scala della lunghezza giusta ed eccomi su un soppalco ed eccomi distesa per terra tra i pezzi di affresco crollati e salva il salvabile, che allora ci credevo sul serio e a ripensarci oggi qualcosa ho salvato, almeno per la memoria. Era l'estate del '95, due tre vite fa. E quante scale da allora ho salito e sceso per troppo amore, che il conto dei gradini l'ho perso. Lalalalalalala.


* Vincenzo Consolo, Retablo, 1992.
** La ruota è uno degli attributi iconografici dell'allegoria della Fortuna. Se ti interessa, sfoglia un po' l'Iconologia di Cesare Ripa. E comunque te ne riparlo meglio un'altra volta. Intanto guarda questo manifesto di Marcello Dudovich per la Pirelli: http://media3.justluxe.com/articles/galleries/47410.jpg




lunedì 15 aprile 2013

Il tempo della strada

Ilaria Guccione, I giocatori di carte (Aspra, 2013)

E la strada. C'era solo quella a farci compagnia fino all'arrivo ma poi quanto ci dura l'arrivo se già stai a pensare al tempo del ritorno. Strada che si faceva stretta e incerta senza chiederci il permesso, che sapeva di pesce e poi di fogna e costruzioni abusive e clacson e poi eccoti il padre Pio da giardino che ti benedice a ogni passaggio. E alla fine furono soltanto schiaffi di vento, sorrisi beati e gli occhi a fessura, come se fossi un cane al finestrino a godere di un paesaggio sfocato. E musica, quella l'avevo scelta io. Era De André.
C'era tutto quel che serviva per andare avanti e per tornare indietro di anni, con tutte quelle storie ai margini che vai a ricordartele dall'inizio alla fine: finiva bene, finiva male? Ma io i dettagli li so e chiedimeli, se ne hai voglia e coraggio e di storie te ne racconto a migliaia, da quando ero alta un niente e chissà che, tra Palermo che è bandita e che poi arrivano i corsari.* Sarà il corsaro nero ma no che sarà quello rosso e con mio padre si ride. E poi davvero che importa, Palermo è quel che è, è persa e conquistata che il conto ormai si è perso, tra chi vince e chi perde. E noi sempre qui a navigarci a vista.
E la strada, dicevamo la strada. Che il tempo della strada non facciamo che perdercelo. Tra il nostro parlare e il guardare di sbieco, che io ne ho bisogno per tirare il fiato. E di ciclisti e corridori, quanti ne vuoi. E sulla sinistra. E aspetta ancora un po' per dirlo, che tra un po' si arriva, e siamo proprio davanti al mare. E scusami se io poi scappo via, che a star ferma non mi sento viva. E allora mi perdo tra un'onda e l'altra. Tra un'occhiata al mercato del pesce e bambini che vanno di monopattino e poi guarda quegli altri sulla giostra. E poi guarda quella giravolta tutta mia per tornare al mare, per colmare un vuoto improvviso che pesa di sale. Finisce bene, finisce male? Il tempo per la risposta non ce l'ho, ancora qualche minuto ed è già tempo di tornare.

*Palermo bandita e Acqua dei corsari sono i nomi di due borgate marinare.


venerdì 12 aprile 2013

Punti di vita

Ilaria Guccione, Il giardino che porta al mare (Palermo, 2013)

Il punto di domanda si fermò timidamente al primo punto di svolta disponibile e lo interrogò su come raggiungere un centro raccolta punti, perché aveva un disperato bisogno di incontrare qualcuno con cui condividere il suo punto di vista. Ma, una volta arrivato, trovò solo un punto di rottura e dovette tornare indietro, trascinandosi dietro quella frase pronunciata da chissà chi a cui rimaneva appeso eternamente come una condanna.
L'ago, tirato fuori dalla sua bustina, si rifiutò di mettere in croce il punto ma il filo, che era noto per il suo masochismo, si consumò lentamente davanti al punto d'accesso dell'ospedale più vicino, offrendosi a buon prezzo per poter dare almeno un punto di sutura.
C'è chi colleziona punti di partenza che hanno consistenza di pietra e chi traccia i suoi punti d'arrivo sulla sabbia. E adesso non puntare i piedi se ti dico che non sai sceglierti buoni punti d'appoggio per la memoria ché non è questo il punto. Prova a tirarti qualche linea intorno e vedere che effetto ti fai dal tuo punto di svista. Dicono che sia garantito un premio, ad ogni punto di vita guadagnato.
O mettici pure un punto e andiamo tutti a capo. 




martedì 9 aprile 2013

Tra vecchi libri e mutande nuove

Ilaria Guccione, Flaccovio tra reggiseni e fast food (Palermo, 2013)


PALERMO, INIZIO ANNI CINQUANTA.
L'uomo alto e robusto ogni mattina si lascia il mare alle spalle e attraversa il centro storico. L'uomo fa colazione sempre nella stessa pasticceria, in compagnia di un libro e niente di strano che ci rimanga delle ore e faccia fuori un romanzo intero. Poi compra dei dolci, li ficca in quella sua borsa di cuoio dalla quale, insieme a libri e pasticcini, possono far capolino anche delle zucchine e raggiunge la libreria Flaccovio, dove rimane a lungo a sfogliar volumi. L'uomo si lamenta perché “Qui a Palermo, non soltanto non giungono le  opere degli autori inglesi moderni, ma neppur si può sentire la loro eco. Flaccovio espone in vetrina, non senza sussiego, come “novità” The Cocktail Party e The Family Reunion che hanno venti anni di anzianità. Che Graham Greene esista lo si sa per fama ma non in modo tangibile (nel testo). Occorre andare per lo meno fino a Roma o sottomettersi al supplizio delle “ordinazioni” (che due volte in tre non hanno esito) per avere un esemplare di un libro corrente.” *
L'uomo scrive. Un romanzo che agli editori non piace, il primo a rifutarlo sarà nel '56 quel "cochon" di Mondadori.** Ma lui continua a lavorarci e, ricoverato in una clinica romana, ultima un altro capitolo.  E' il 1957, il libro glielo rifiuta anche Vittorini, la comunicazione arriva tra il 17 e il 18 maggio.
Il 23 luglio Giuseppe Tomasi di Lampedusa muore a Roma per un tumore ai polmoni. Il Gattopardo verrà pubblicato l'anno successivo da Feltrinelli.



PALERMO, APRILE 2013.
E dice che ora che Flaccovio ha chiuso i battenti in quella libreria, nata nel 1938, si venderanno mutande, eppure se ci passi davanti ci trovi scritto che è chiusa per rinnovo locali e non te l'immagini. E chissà cosa diventerà quella libreria Agate che era anche casa editrice e che fu rilevata da Flaccovio e che è nota come libreria Dante, quella ai Quattro Canti, quella davanti alla quale Tomasi passava la mattina attraversando corso Vittorio Emanuele, arrivando ai Quattro Canti, dove già nel Settecento nella sua Stamperia dei Santi Apostoli, un certo Pietro Bentivenga i libri li stampava e li vendeva. E intanto quel palazzo di famiglia che Tomasi avrebbe tanto voluto far rivivere dopo le devastazioni dei bombardamenti, diventa un condominio di lusso.
Ma in fondo sono tempi che in libreria ci vai per mangiare il panino con la milza e magari, prima di salire al bar, puoi anche comprarti una bella tazza così poi ti ci fai versare il the che più ti piace e poi magari se ci pensi compri anche qualche brutto libro.
Ma in fondo sono tempi che ci usiamo e gettiamo con la stessa velocità di quelle paia di mutande e calze da prezzo conveniente e qualità scadente, che gli cambi solo il marchio e per il resto si va avanti contenti a vita e memoria breve.


* Riportato in: David Gilmour, L’ultimo gattopardo. Vita di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ed. Feltrinelli 2003,  p. 128. (La reperibilità di certi libri rimane, in certe librerie, un problema.)
**  "Refus de ce cochon de Mondadori", annota la moglie nel suo diario, il 18 dicembre 1956.

Ilaria Guccione, Nuoce gravemente alla vista? (Palermo, 2013)