Spider-Boy

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giovedì 26 settembre 2013

E intanto maledetto il tempo


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Ilaria Guccione, Sa di azzardo la strada del ritorno (Palermo, luglio 2013)

E lui ci si provò, con quel suo gesto, a fare un passo avanti che avesse almeno l’attenuante della grazia e fu così che le piombò addosso ma ogni scusa buona gli era volata via nella caduta. E allora improvvisò un sorriso che non gli venne neanche male e ci sorrise su, sperando di poterlo riciclare.
Si pentì poi di quel suo fare così ardito e, per tentare di arretrare, si ritrovò precario su una gamba sola a saltellare. Ma gli doleva l’eco di quei suoi passi ciechi indietro e fu così che una sera che non sapeva far di conto, con un bel capitombolo tra le sue braccia ci ricascò.
Venne poi un giorno che si svegliò da ragioniere, così le disse che lui era solo un personaggio da tragedia, tentò un inchino che gli venne male e replicò il sorriso che gli si disegnò a metà. E ritornò a giocare coi suoi castelli di carta riciclata, che gli piaceva sempre dargli fuoco per poter dire che gli mancava la terra sotto i piedi.
E intanto maledetto il tempo che ci passa, che gioca il suo barare sospeso tra l’azzardo e tra l’inganno, che tanto vince sempre lui, che quando si è stancato neanche trova il tempo di un saluto e ci ha ammazzato già.

lunedì 23 settembre 2013

Finisce che m’accerchio di parole


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Ilaria Guccione, Tu sorridi e m'inchiodi alla sedia e puoi fare ogni cosa di me (Palermo, 2013)

Le lettere che continuamente scrivo e sospendo, perché ti voglio ma a niente ti voglio spingere, mi srotolo e poi mi arrendo, lettere che non mando mai per non disturbare, per non importi un’attenzione che non sai gestire, lettere che spengo, ché per quanto le parole siano il mio ufficio e il mercato e anche un incanto,  un piacere, non ho tutte le parole che servono per dirti il ricordo di te.
(Da: Isa, Al balcone, in: L’arte dell’insonnia)

Ma la vecchia. Parliamo della vecchia, della sua ora e passa di libertà e smog che ruota intorno a quella sedia sgangherata. Passi e ripassi e lei neanche se ne accorge, tira fuori come in un gioco di prestigio un pettine e lo lascia andare su quel suo bianco disciolto. In gesti di lenta e infinita bellezza.
Ma io. Con l’irrequieto passo, io. Che, per non pensare, finisce che m’accerchio di parole. Tra quelle che mi assediano impietose e quelle troppo liquide nel loro consolare. E scelgo sempre le prime per regalarmi maldestre ed infinite fughe da lettere sospese, stracciate nel pensare della notte che per dispetto non mi acquieta gli occhi.
Ma la vecchia. Che chissà che si aspetta ancora la vecchia, ché non regala parole a nessuno ma solo sguardi d’ombra lunga che planano muti e lievi sul grigio del marciapiede.
Ma io. Con quel guardare tutto, io. Che potrei scrivere la stessa storia mille volte e nessuno che se ne accorga.  E' l'inquadratura che muta, è un dettaglio nella trama, la mia sedia che si rompe, la faccia che cozza contro il muro nero del silenzio. La storia, con le sue storie parallele e trasversali, resta quel che è, quel che non mi riesce di dire e allora ci provo e ci riprovo e sono sempre qui.
C'era una volta una storia che, a tenerla nascosta, se ne è persa memoria. Era una storia bella per difetto ma non ti dirò di cosa o chi. Era una storia che, a furia di cercar le parole più adatte per poterla salvare, si è persa in una lunga pausa e ha smesso di parlare. 


  






sabato 21 settembre 2013

Vucciria


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Ilaria Guccione, Il guardone (Palermo, 2013)
 
"Poi, riemergendo a quella luce di lacca e d'oro, lei domandò - Il pittore, come si chiama il pittore? - Boucher, mi pare: Francois Boucher - e in piedi, guardandola, distesa ora sul dorso, non piú nella grazia del quadro vivente ma disarticolata nel soddisfatto languore pensò «Francois Boucher: boucher, boucherie, vucciria. Vucciria. Il mistero che è in ogni lingua: per un francese i quadri di questo pittore, cosí luminosi, cosí sensuali, cosí pieni di gioia, forse avranno una sfumatura, appena una sfumatura, di macelleria, di vucciria. Io, pur conoscendo il francese, sto pensandoci ora: il nome Boucher fino a questo momento è stato per me incanto, desiderio...»."
(Da: Leonardo Sciascia, Il consiglio d'Egitto)

Vucciria che è intrico di balate, che se ci scivoli su dice che porta bene perché vuol dire che sono ancora bagnate. Che è ricordo di una donna e sul suo viso sempre quel sorriso aperto che rimaneva ancora di bambina. Lei che era nata straniera e che qui, per accidente di guerra, ci passò la vita. E se la tolse poi, scivolando giù di piano in piano, in un'altra città che le veniva straniera, per scegliersi da sé la fine in barba ai dottori e al dichiarato male.
Vucciria che si è fatta timido mercato, che ti parla di crolli e di opportune ricostruzioni e il perché vallo a chiedere alle vecchie e nuove istituzioni, ché la storia si ripete e si sovrappone in postume salvezze armate di cemento, e a loro soltanto non reca mai alcun alcun danno.
Vucciria che sulla bocca nostra significa confusione di voci e passi, frastuono, bordello, elogio di ogni caos che ci fa regola e parentela.
Vucciria che è amici e birra nel sole di agosto e scatti a giocarsi di sorpresa il gesto e il viso.
Che è pure quel quadro lì del '74, abusata icona e souvenir da cartolina, esposizione enciclopedicamente ordinata di mercanzia e, a spiccare su tutto, quel culo di donna che quell'uomo che le viene incontro ancora non ha visto e già vorrebbe comprare.
Te lo ritrovi allo Steri, che fu sede di morte e di dolore e a guardarlo magari ti ritieni anche fortunato, ché prima stava chiuso nella stanza del rettore.
Ma quando scende sera quei luoghi là, che puzzano ancora di potere, baciati dall'artificio di una luce di spettacolo, non fanno paura a nessuno e tu ti metti in croce a un muro e ci ridi su.





 












giovedì 19 settembre 2013

Viversi di spalle


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Ilaria Guccione, Così vicini, così lontani (Palermo, 2013)

Lui smise un giorno di parlarle e lei non ne capì il motivo. 
Cessò allora di guardarlo, pungendolo così sul vivo. 
Continuarono però a incontrarsi ogni mattino, come per ostinata sfida o sottinteso appuntamento. 
E ciechi e muti si vissero di spalle fino all'ultimo momento. 




lunedì 16 settembre 2013

Il resto l'ho pensato e non l'ho scritto

Ilaria Guccione, E se pensano di poterci dividere, si sbagliano (Palermo, luglio 2013)


Caro tu, ti scrivo una lettera. Di quelle che in giro ormai non ne trovi più, tripudio di fogli sparsi e sgualciti tra gambe e memoria che scava e ripensamenti di inchiostro tra le dita.
Caro tu, di carta ne ho tanta e di parole fin troppe e quindi regalati una posizione comoda ed un bicchiere che sia almeno mezzo pieno.
Caro tu, che hai mille nomi e la solita faccia. Tu che sei così rapido in fuga e altrettanto indolente in ritorni, non mi interessa affatto ricevere risposta ma cerca almeno di rientrare per l'ora di cena di un giorno qualsiasi di un anno che possa non spiacerti troppo.
Caro tu, che la speranza me l'hai fatta lenta levando al vento le tue parole prese in prestito, sappi che erano così leggere che a metterle tutte insieme non si è raggiunto mai il peso di una promessa.
L'incostanza altrui finisce che la si sconta sempre rimanendo sull'altra riva in cattività. In un esilio che sa di rogo e cenere, che ci si prova per tre volte a dire e per tre volte non si trovano parole libere di uscire.
Caro tu, che sei più inconsistente dell'aria a primavera, con il tuo mendace au revoir hai fatto sopraggiungere l'inverno e il tempo dell'attesa di un ritorno si è fatto inganno a seminar pensieri su quella spiaggia là.
Caro tu, che ti diverti tanto a giocare alla guerra perché così ti illudi sempre di aver conquistato qualcosa, non serve regalarti un filo lungo e resistente né farsi stella perché tu possa ritornare in via del venirsi incontro.
Caro tu, ho barato ritagliando parole da lettere lontane. *
Il resto l'ho pensato e non l'ho scritto. 


* Le Heroides (Lettere di eroine) di Ovidio.



mercoledì 11 settembre 2013

Il senno del gatto


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Ilaria Guccione, A guardia del mercato (Palermo, 2013)

Ad averci il senno del gatto, ci si risparmierebbe di girare intorno alle parole, giocando a traballarsi il senso tirando su improbabili cattedrali di frasi inutili. Che poi hai paura a rispondere, ti fai confusione nello scegliere le sillabe. E magari alla fine taci.
Ad averci il senso del gatto, ci si carezzerebbe lenti il proprio tempo, senza far singhiozzare le giuste attese che ci si soffoca nella fretta. Che poi hai paura a fermarti, ti fai violenza per adeguarti a quel non tempo degli altri che ti si impone vorticoso ad ogni respiro, incontro, passo, acquisto e saldo.
Ad averci il sonno del gatto, ci si cullerebbe con la dovuta cura pensieri e domande e dubbi, si sognerebbe quieti ad ogni ora. Che poi hai paura a spolverarti via dal viso quell’espressione seria e non sai più quand’è che quella allegria ti si disegna sulle labbra solo per convenienza e per paura di domande.
Ci si sceglierebbe con cura i mattini e le notti, ed opportuni colpi d’artiglio pronti ad ogni impiglio di altrui comando e cattiveria. 




lunedì 9 settembre 2013

Gli ospedali di notte

Ilaria Guccione, Servizi al cliente (Palermo, 2013)


Gli ospedali di notte odorano di silenzio, che poi è l’unico odore che ti è consentito se hai due tamponi ficcati nel naso e che chissà fin dove ti arrivano, forse fino a tutti quei tuoi pensieri che ti si comprimono e ti fanno odiare la luce. E intanto hai gli occhi grandi e lucidi che ti sanno di necessario ma non voluto pianto. E tutti quegli altri come te, che li saluti di giorno, a sembrare affiliati alla congrega delle madonne miracolose, icone dolorose di stanza in stanza e nessuno buono ad accenderci un cero. Però per due madonne e padri pii la domenica ti passano a chiedere il soldo per metterci i fiori e si ricordano pure della comunione da darti e tu che guardi storto.
Gli ospedali di notte sono corridoi ebbri di buio e tu ci cammini nell'incertezza delle fitte, zoppicando di piastrella in piastrella, coltivando la speranza che quelle luci che vedi in fondo si rivelino certezza di presenza e aiuto e intanto speri che non balzi fuori il solito buon vecchio pazzo Jack a urlarti il suo rientro a casa, con un'ascia in mano.
In sala prelievi ci trovi il vecchio pittore olandese che offre il braccio paziente a una trasfusione: – è una flebo blu Vermeer, ti dice gentile. Blu oltremare, lapislazzuli autentici perché io Vermeer me lo devo sentir dentro. E ti sorride.
L'infermeria ha aria di bordello, cinque donne nude in quello spazio ristretto, dai volti scomposti nello spazio e nessuna che ti guardi negli occhi e tu, che non sai a chi offrire il braccio, ti limiti a ciancicare un au revoir maldestro e te ne vai.
Un gruppo di infermieri ciechi avanza sorridente e strabico verso le scale, si guidano l'un l'altro fiduciosi. Tu pensi che rotoleranno giù fino al piano terra e ti provi a urlare ma nessuno ti sente e neanche tu ti senti e intanto continui ad urlare.
Signora, si svegli. Signora, si svegli. L'intervento è finito.

(Il pittore olandese è Han van Meegeren, passato alla storia per avere creato dei falsi Vermeer ma ti prometto che questa storia te la racconto meglio; le cinque donne nude sono quelle ritratte da Pablo Picasso ne Les demoiselles d'Avignon, manifesto della pittura cubista, dipinto nel 1907. I ciechi che si sostengono a vicenda sono quelli dipinti da Bruegel il vecchio ne La parabola dei ciechi. Quasi dimenticavo: il buon vecchio inquietante Jack (Nicholson) lo trovi nel film The shining, di Stanley Kubrick.
L'amore per la storia dell'arte è una brutta malattia che non conosce cura.)




domenica 8 settembre 2013

Tutto passa e tutto resta

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Ilaria Guccione, Agave e sue ombre (Palermo, settembre 2012)
                                
Tutto passa e tutto resta: è il posto delle cose che cambia. E’ il gioco solito delle mani che creano disordine e confondono le tracce in un volo tra cielo e suolo. Su: lancia. Giù: guarda cadere. Raccogli, giù e tira ancora, su. Poi si dirà che non hai buona memoria, poi si dirà che eri da un’altra parte. E neanche ti riconoscerai la voce tra la scusa e il saluto. Per giocare al caos si raccatta ogni volta qualcosa tra quelle che per strada ti ritrovi tra i piedi. Come un mucchio di foglie, come un pugno di ricordi. 
Passo di dettaglio in dettaglio tutte le volte che posso. Perdo ogni volta qualcosa e qualcos’altro trattengo. Sono l’ombra in settembre che mi trema i ricordi e ne ride. Che per difendermi ogni abbraccio compresso tra spine mi difetta il respiro e mi pungo lo stesso. Cercami tra foglia e foglia, fino a sera, fino a quel punto più nero del nero, quello in cui ancora ti vedo e non ti chiedo più.
(Abbi cura almeno delle foglie.) 



mercoledì 4 settembre 2013

Mano sul cuore


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Ilaria Guccione, Mano sul cuore (Palermo, 2013)

I giorni feriali lo lasciavano a guardia della profumeria, da mane a sera rimaneva poggiato alla parete in compagnia della sua ben nota cortesia. La vide avvicinarsi all’improvviso e ne rimase come folgorato. 
Avrebbe voluto dirle: portami via con te, giuro che non ti lascerò mai, non vedi già come ti guardo? Ma dalla sua bocca di cartone non uscì voce né riuscì ad allungare un braccio per attirarle almeno l’attenzione.
Lei lo squadrò per bene, pensò che aveva proprio un gran bel viso ma che di certo lo avrebbe preferito con la mano sul portafogli e non sul cuore. E tirò dritto lasciandogli un unico sorriso.


domenica 1 settembre 2013

La pozzanghera



Pozzanghera
Ilaria Guccione, Con un grido non arrivato in superficie (Palermo, 2013)
 

Ricordo bene quella paura infantile.
Scansavo le pozzanghere,
specie quelle recenti, dopo la pioggia.
Dopotutto qualcuna poteva non avere fondo,
benché sembrasse come le altre.
(W. Szymborska, da: La pozzanghera)


Non c'era tempo da perdere, ancora qualche passo e quei due l'avrebbero visto, riconosciuto, inchiodato sull’asfalto, bombardato con frasi tratte dal copione del “ma che combinazione, parlavamo di te proprio ieri” e infine crocifisso ai soliti ingiusti punti di domanda. E lui di risposte non ne aveva, non che non ci pensasse ogni giorno, vabbè un giorno sì e due no, ché c'era da lavorare, veder gente, scegliere il vestito buono per la festa, ma erano passati anni e ancora non era riuscito a trovarne per sé di risposte, figuriamoci per gli altri. Per lui era già troppo essere in debito con se stesso, interrogarsi e rimandarsi il tempo per un'assoluzione o una condanna. Nessuna traversa a portata di piede. Quel dannato semaforo rosso alle sue spalle.
Non gli restò che tuffarsi dentro quell'enorme pozzanghera, unico ricordo di un recente temporale di fine estate, capovolgersi il senso e la figura. Gli si sospese ancor di più il tempo, e certo che ora ne aveva a volontà per pensare, ma se lo spendeva tutto nell'attesa della pioggia, per poter guardare -non visto- tutta quella gente passargli accanto tentando in ogni modo di schivarlo.