Spider-Boy

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domenica 31 marzo 2013

Reggere pesi

Ilaria Guccione, Di venerdì santo in Vucciria  (Palermo 2013)

E le cose che pesano, che c'è peso e peso, c'è chi ne farebbe a meno con le vertebre che gli soffocano all'improvviso e chi se lo va a cercare con  regolarità e ci si guarda a vicenda con stupore, tutti carichi di domande e nessuna risposta da darsi. E solleva e reggi e spingi e tira. In inverno come in primavera. E guarda che ce la faccio ancora ad arrivare da qui a lì, ché la strada è sempre quella ma tu non aspettarmi perché sono giorni di passo lento, perché ho da concedermi un po' più di tempo per ritrovarmi il fiato. Che più lo cerco e più mi accorgo che me lo trattengo, in un'apnea necessaria e intermittente dal dolore. Ma guarda che prima o poi arrivo e magari ti telefono o ti scrivo un saluto nel vento che c'è.
Arrivai alla stazione Tiburtina che erano le sei del mattino, che avevo quindici anni in meno e pezzi di me sezionati alla rinfusa in valigie e qualche indicazione in tasca per arrivare fin lì. E quel tutto davanti che ne valeva il peso e la pena.


Ilaria Guccione, Reggere il peso (Palermo, 2013)






venerdì 29 marzo 2013

Spargi d'amaro pianto

Ilaria Guccione, Aspettando la processione, davanti san Matteo (Palermo, 2013)


Oggi è giorno che si piange ogni anno. Madre che piange il figlio, madre che va per strada ma ce ne sono così tante che non sai davvero dove andare. Ed io che non ho voglia di star ferma passo da una chiesa all'altra. Vince la madre puntuale e mi ritrovo in una piazza stracolma di gente, la marcia funebre, il simulacro del Cristo morto che vien fuori dalla chiesa di santa Maria La Nova e scoppia un applauso. E improvvisamente so di essere dentro un film. A Palermo, su Palermo, in un tempo altro, in un presente che è sempre passato e dove io, l'unica a cui non sia stata affidata una parte, mi ritrovo a fare da comparsa involontaria. Ci sono così tante persone che mi manca l'aria e allora riprendo a camminare, faccio il giro giusto, imbocco la strada giusta perché il corteo mi passi davanti, un vigile trasecola quando gli chiedo quale sia il percorso dell'addolorata, mi dice che ho sbagliato processione e mi ritrovo a raccontargli che oggi in città troverà una madre straziata per ogni figlio morto. E' così che funziona e poi non hai neanche guardato il manifesto? Eccolo qui, a due passi dal tuo naso.
Quando, decisamente stanca, decido di tornare a casa che poi gira e rigira due passi appena e son già arrivata e sentirò ancora a lungo la banda che si confonderà con le mie canzoni di Vecchioni, mi ritrovo a canticchiare Spargi d'amaro pianto il mio terrestre velo mentre lassù nel cielo io pregherò per te.* Pianto che non è santo, dirà qualcuno, che Lucia era pazza e anche assassina. Ma io, a quelle di Maria, continuo a preferire le sue lacrime e le mie.


*Da: Lucia di Lammermoor, opera lirica di Gaetano Donizetti.








mercoledì 27 marzo 2013

Ancora qui, ancora tu

Ilaria Guccione, Ancora tu (Palermo, 2013)

A sapersi guardare finisce che ci si ritrova. Quel tal ricordo che hai ficcato nell'asola del cappotto o quell'impronta di tramonto che hai conservato sotto le suole eppure ne hai fatta poi di strada. O forse è solo un caso. O uno stupido scherzo degli occhi nel sole di un sabato.
Si erano mancati con cura ad ogni appuntamento stabilito, avevano finito col perdersi di vista e di tempo. Si ritrovarono sul marciapiede dell'ora di pranzo che non ci passava nessun altro. Lei che correva per raggiungersi il ritorno e lui che si giocava lento il passo per ritardarsi la partenza. Galeotto fu il tempo per dispetto.





lunedì 25 marzo 2013

Come Quando Fuori Pioveva

Ilaria Guccione, Nuvole intime (Palermo, 2013)



Di parole nuove oggi non ne trovo neanche a rovistare tra i cuscini e il gatto. Che chissà dove me le sono perse ieri in quell'inganno prepotente d'estate, ripetendone di vecchie e mettendole da parte che non era il caso di usarle. E allora ingoia o sputa che tanto è uguale, che tanto me ne accorgo solo io e potrei anche farmi uno sconto di pena. Forse saranno affogate in quest'acqua che cade ostinata e non ascolta nessuno. E allora invento una scusa con me stessa per uscire, solo cinque minuti e poi torno ma no che non mi bagno e invece già lo so che mi perderò per strada. Cerco qualcosa che so di non poter trovare, tento di fissare qualche idea smozzicata sull'asfalto bagnato, nelle danze sciancate di ombrelli che si affannano tra pozzanghere e strisce pedonali, nell'eco di pioggia dei miei passi. Torno a casa che ho i pensieri bagnati, apro un cassetto e neanche un asso da giocare ma ci trovo una foto, quella che un sorriso mosso e siamo già andati via e tu coi tuoi alibi ed io con le mie ragioni ma se ti fa comodo facciamo al contrario, quella che il tempo di guardarla e mi chiedo se è tutto quel che ho di te e allora richiudo il cassetto e la canzone vien da sé.










venerdì 22 marzo 2013

Il tempo della passione

Ilaria Guccione, La passione secondo san Matteo al Cassaro (Palermo, 2013)

Passa che passerà anche stavolta il tempo della passione, a colpi di chiodi e spine in fronte passa sempre. Passa che la passione passa a tanti, passa a troppi. Che gli basta un cambio di luna o di stagione, una fermata più a portata di casa e di tranquillità e un bicchiere di troppo al bar della normalità e sono già andati via, rincasati per cena e intanto ti avranno già rinnegato il nome tre volte per tre.
Attenta alla scala, mi dice una voce alle spalle. E mani in alto e per un attimo mi fermo e penso: ora cado, forse è tempo che cada proprio qui, per raccogliermi meglio i ricordi, che chissà quanto posso ritrovarci di me su questa scala che me la salgo in sogno da troppo tempo e adesso che i miei anni sono il doppio dei gradini sembro più lenta e cauta di quando ero bambina. Poi però arrivo giù illesa. O almeno così avrà pensato il portoncino di fronte che neanche si apre più, così avranno pensato tutti quelli che mi hanno visto tornare per strada e quelle barche che si riposano nel pomeriggio dal mare. E nessuno che mi abbia controllato quanto peso stasera con tutto quello che mi sto portando via, che me lo sono ricucito addosso con cura. Vabbè.


giovedì 21 marzo 2013

Però salvarcela la vita

Ilaria Guccioine, Sulleone (Palermo, 2013)

Sembra che oggi ce l'abbiano tutti col mio leone, tutti a guardarlo, ad allungare una mano, a mettersi in posa. Io mi ci sono seduta accanto, sole violento sul suo muso e la mia testa pesante, io che sono costretta a chiudere l'occhio destro per il dolore e lui che col sinistro non batte ciglio. Io che prendo appunti su come salvarmi la vita in tempo per l'estate, lui che tanto non si può muovere e punta da sempre la solita chiesa ed è condannato a tutto il bordello alle sue spalle, di sindaco in sindaco. Che gli hanno pure scritto "porco leo" e avrebbe preferito leggerlo sulla fronte di Orlando. Entrambi a chiederci chi sia il meno sfortunato tra noi due. E dai che in qualche modo la vita ce la salviamo entrambi.
Sarà più o meno mezzogiorno, ho dimenticato il cellulare, non porto orologio e allora ho tutto il tempo che voglio a disposizione e posso ancora rimandarmi il ritorno.
Il bimbo viene messo a forza sul leone per la foto ricordo. Si vede che al nord di così belli non ne hanno, perché tutta la famiglia si è messa a urlare non appena l'ha visto. O al massimo avranno qualche animale modesto in uno spazietto minuscolo e tanto pulito e guai a chi lo tocca e comunque una piazza così ve la sognate proprio in certi posti, che dicono sia della vergogna ma noi qui non ci vergogniamo di niente e si vede e si sente. Gli tolgono il ciuccio e per un attimo lui si sente perduto e loro gli urlano di non piangere. Ma insomma che volete che sia il pianto di un bambino in mezzo a questo frastuono, che qui non sta zitto nessuno, noi siamo gente di rumore. Dici di no? E' perché stai pensando a quella storia dell'omertà e tutto il resto ti manca e allora tornatene al tuo silenzio ordinato e ciao. Il leone intanto è rimasto impassibile, anche quando il bambino gli ha tirato l'orecchio e ha tentato di morderglielo. Ed io, che per oggi non ho ancora capito come salvarmi cosa, gli strizzo l'occhio e vado via.




mercoledì 20 marzo 2013

L'ultimo spettacolo?

Ilaria Guccione, Tre uomini vivi per un solo uomo morto (Palermo, 2013)

Tagliare qualcosa. Dicono che ogni tanto serva. I capelli? Fra dieci anni ti giuro che forse li taglio. La gola? Quella mia di sicuro non la tocco.
Certo che a mancare di coraggio qualcosa te la tagli di sicuro. Ma magari neanche tu lo sai. Metti le mani sempre avanti e mai sul collo e intanto hai già il colletto macchiato di sangue e di rimpianto o forse è uno sputo di rimorso ma io non lo so perché ormai è affar tuo, io me ne sono già andata con quella bella spinta che mi hai dato.
Dicono che guardare agli anni andati sia come metterci in mezzo un vetro saturo di polvere, che il passato si vede ancora ma non si tocca più e che quel che è stato ha una messa a fuoco distorta, da miopi e tutto allora ti appare giustamente sfocato. Certo che se ti sei defilato, certo che se ti sei nascosto, certo che se non c'eri neanche per un ultimo saluto che lo sai già che poi non ci si guarda più in faccia, certo che se ti sei confuso di marciapiede e non hai neanche una sigaretta per tirare fino all'arrivo del treno, certo che se la gola te la sei saturata per inghiottirti le parole e quelle buone per me non me le hai neanche lasciate. Certo che poi se un giorno ripassi da lì, dirai che a guardarti indietro ormai non ci vedi bene e non è neanche colpa tua. Eppure io me lo ricordo bene che stavi a testa china con i tuoi monosillabi e quindi che hai visto mai da poterti ricordare ma mi diresti che questa è storia mia e che tu non ce la facevi a salutare e allora che cazzo ho da parlare io, che di tempo ne è passato e non ci metteremo mai d'accordo, che ce lo misuriamo in modo diverso, che a farlo ad occhi chiusi e voltando le spalle è possibile giocarci e perfino riderci su o anche inciamparci, col passo incerto che hai ma se non te lo sai tu. E già che non me li vedi gli occhi adesso, che altrimenti. Che altrimenti niente lo stesso.
C'è gente che per strada ci rimane ore per poterti convincere a fatica che un uomo solo è morto per tutti gli altri e gente che ti convince facilmente che la prima persona che respira e che ti passa accanto è quella giusta per viverti il momento. E chi per fortuna mi somiglia ancora e si ostina ad andare per la sua strada e ci muore a ogni passo di malinconia.



martedì 19 marzo 2013

Il sorriso della fisarmonica

Ilaria Guccione, Fronte retro (Palermo, 2013)

La donna è immensa e non è solo questione di peso. Siede su uno sgabello minuscolo, ha tra le mani una fisarmonica Scandalli buona per le sue mani  così grandi, e qualcosa che le corre tra gli occhi e le labbra, come un taglio che mi sa di nostalgia ma forse quella è solo roba mia, mentre il tempo della sua musica mi annulla il rumore della piazza tra l'andirivieni di macchine e di ragazzini da pranzo di Mc Donald's e di turisti che gli è andata bene la giornata che sa di primavera piena. E mi si annulla anche quello spazio intorno che sovrabbonda di capitoli da chiudere che non hanno la consistenza nota dell'inchiostro sulla carta e della storia di volti dipinti su un muro o disegnati su un foglio ingiallito con penna e inchiostro bruno. Ché tra poco sarà aprile e sarà tempo che scade, insieme alla mia faccia e alle mie mani. Occorrerà regalarsi parecchio spazio per l'ingombro della memoria. Occorrerà guardarsi indietro con cautela almeno fino a maggio ma non so di quale anno. Poi mi arriva una nota stonata, è la solita voce che dice. Lascia poco spazio per il dolore e continua ad andare. Ed io lascio qualche moneta e ci guadagno un sorriso che me lo porterò fino a casa, mi volto e riprendo a camminare.


domenica 17 marzo 2013

A forza di essere vento

Ilaria Guccione, Pausa (Palermo, 2013)

Ieri soffiava un vento conosciuto. Un vento che avevo già incontrato.
Era una primavera precoce. Camminavo nel vento a passi decisi, rapidi, come tutte le mattine. Eppure avevo voglia di ritrovare il mio letto e distendermi, immobile, senza pensieri, senza desideri, e di restare sdraiato fino al momento in cui avrei sentito avvicinarsi quella cosa che non è voce né gusto né odore, solo un ricordo vaghissimo, venuto da oltre i limiti della memoria. *

Oggi che di vento non ce n'è io ho il cuore che me lo costringo ad andare lento perchè lo so che prima o poi ritornerà violento e ho da risparmiarmi il fiato per riuscire a parlare. Ché ho da ritrovarmi parole che tu possa riconoscere ad ogni passaggio di senso e di vento. E non so dove prenderle, se guardarmi indietro e risentirci le voci che sai, se ho da capovolgere tutto e ricominciare a cercarmi le frasi. Se ho da chiedere sillabe in elemosina a chi mi passa accanto per poi ricostruirci parole da poterti regalare. Ma che ho da farci poi di tutto questo trattenere parole e respiro che tu me lo butterai dove ti fa più comodo e neanche me lo dirai e a voler ritrovarmi i pezzi dovrò far da me e perdermi di tempo. Che basta un soffio di vento che ti convenga di più e in malora ogni lasciapassare e si è bravi a negare  tutto e il mio nome è finito e il mio amore è in disuso ed ogni richiesta risuona d'abuso.
Preferisco andare col silenzio che stanca le spalle e tenermi le parole che so, continuando a camminare fino a quando e dove non so.


* (E' l'incipit di:  Ieri, Agota Kristof, 1995)



Di marzo, un sabato

Ilaria Guccione, In cattedrale, di sabato (Palermo, 2013)

Quella di ieri sembrava una giornata persa in partenza. Tra sonno rimandato e tutta quella pioggia da diluvio universale che ti penti di non avere un recapito di Noè e se tutto va bene troverai una riserva d'acqua in casa al cosiddetto risveglio. Una di quelle giornate che è meglio se non fai niente, che in fondo un po' di riposo te lo sei pur meritato, fosse solo per quella differenza tra fine settimana e tutto il resto dei giorni, anche se in realtà a pensar troppo tu non ti riposi mai. Poi però qualcosa mi sveglia, forse quel sole che fa capolino e regala speranza di luce buona, forse solo quel solito bisogno di andare che arriva all'improvviso e allora lascio che siano i miei piedi a decidere e mi ritrovo per strada a godere del sole come fossi quel gatto mio che lo so che mi sta dormendo sul letto e lo ritroverò ancora lì al ritorno. Mi lascio portare dal sole e dai passi fino al piano della cattedrale, ragazzini usciti dal liceo tra insulti e abbracci e una manciata di turisti, un cane che controlla ogni entrata in chiesa abbaiando minaccioso ma basta che gli guardi la coda e poi basta un attimo ancora e te lo ritrovi a pancia all'aria e ti accorgi che le manca poco al parto e te la vorresti portare a casa per risparmiarle freddo e pioggia. E la vecchia seduta su un secchio capovolto che regala un sorriso a chiunque esca dalla chiesa e tra le mani il suo sottovaso da riempire per farci la giornata. Per un soldo ti leggo la fortuna in uno sguardo. Ti racconto il tuo passato in cento battute, ti distendo il tuo presente sulla piazza. Per due soldi ti proietto anche il futuro su qualunque muro ci capiti accanto, come un film di primissima visione che è un affare non da poco, se consideri quanto ti costa ogni brutto film che vai a vedere al cinema e sempre in cattiva compagnia. Per tre soldi ti dico anche cosa fare ma poi sono cazzi tuoi se ci giri intorno e cazzi tuoi se rimani fermo. Oppure dammene mezzo di soldo, per farmi fortunato il sabato. E il tuo portatelo dove vuoi.
Guardo le tracce di pioggia sul selciato e cerco di incontrarci riflessi che mi piacciano. Guardo quel carro da santa patrona che mi pare brutto quanto gli altri che lo hanno preceduto, anche se dicono che questo sia bello perché è di sinistra, guardo che guardo ancora e sul marmo ci trovo quattro lettere che mi perseguitano e allora ci rido su per i miei occhi che ci si son posati e allora ci rido da sola che voi che ne potete sapere e chi lo sa con me ormai non ride più e mi regalo un po' di bene maldestro con una foto e col tempo che mi ci vuole per farla e portarmela via. Provo a lasciare liberi gli occhi ed ecco che mi ritrovo già altrove, un sorriso di sole sul viso in un vicolo che neanche so come ci sono arrivata, il lamento dei gabbiani tra nuvole che promettono e nuvole che minacciano, un vicolo che piove acqua e allora torno indietro, un tizio che fuma contro un portone e qualcosa mi dice di non tirare fuori la macchina dalla manica e infatti ecco quei ciao bella che ho già perso il conto e sbaglio pure direzione e intanto quello mi viene dietro e vabbè che tanto qualcosa avrai pure imparato col tuo tanto camminare e lo sai che da qualche parte arrivi e in fondo nella tua borsa che hai, il necessario per tornare a casa, due soldi che in tutto ne hai quattro e una macchina fotografica che prova a prendermela e ci facciamo neri a vicenda, ché ho le mie storie di oggi e quelle poche foto che stanno sempre lì per portafortuna e nessuno me le porterà via così facilmente.



Poveri cristi

Ilaria Guccione, Poveri cristi in vetrina (Palermo, 2013)

Lo trovi sempre lì, quel povero cristo. Deposto ed esposto in vetrina insieme ad altri poveri cristi con la sua stessa faccia, abbandonati tra braccia di madri inchiodate al dolore. Ecce homo, che te lo vendo a buon prezzo e scusa se non sono i soliti trenta denari ma di questi tempi anche la morte s'è fatta più cara.
C'è chi ci passa davanti di fretta e chi si ferma almeno una manciata di secondi e gli occhi li punta sul morto disteso. E neanche immagina che ai balconi del piano superiore ci siano angeli in festa e madonne allegre fresche di parto a dispensare benedizioni e saluti, ché ai piani bassi la regola è che si deve sempre soffrire e se vuoi altro devi imparare a salire, tra una scala santa e un benedetto ascensore, sempre che trovi la raccomandazione giusta per non consumarti le ginocchia.
Ed io che rimango in piedi sul marciapiede di fronte, a chiedermi il perché dell'ennesimo negozio di articoli religiosi, con tutti quei cristi sfigati che abbiamo, tarlati  e vecchi di secoli che continuano a collezionare buchi, fisso con fastidio quel paramento senza volto che sembra pronto a compiere il solito miracolo pasquale, a tirar fuori un alzati e cammina col solo gesto delle mani e a far resuscitare qualcuno che si dice abbia fatto tutto da sé.




venerdì 15 marzo 2013

Un fil di fumo

Ilaria Guccione, In attesa di un segnale (Palermo, 2013)

Mi metto là sul ciglio del colle e aspetto, aspetto gran tempo e non mi pesa la lunga attesa.*


Sono giorni di fumo, fumo che te lo aspetti anche sotto la pioggia, fumo che te lo guardi come fosse un premio, fumo che quando finalmente ti arriva ti gonfia gli occhi ma te lo tieni stretto anche se non sai più dove stai mettendo i piedi. Fino a quando non ti ritroverai col culo per terra.
Pare che vada sempre così. Si rimane sospesi e ostinati a fissare ogni orizzonte possibile e certezza negli occhi che si leverà un fil di fumo, proprio quello lì di cui hai bisogno tu e a tutto il poi neanche ci pensi, non hai né voglia né tempo che non sia di attesa.
Ho un ricordo di fumo bambino, io che piango a due passi dal divano dicendo che avrebbero eletto quello che aveva una faccia che non mi piaceva, il polacco. E chissà chi era quell'altro che gli sorrideva dalla foto accanto sul giornale, è sempre più facile ricordarsi  di chi vince anche se fai come me che la foto del nuovo papa l'ho strappata non appena il fumo mi ha dato ragione. E pochi mesi prima attaccata allo schermo avevo fissato il mio primo cadavere in tv ficcato dentro un bagagliaio e poi stavo a disegnare sempre quella stella, che la dovevo fare uguale. E tutti a dirmi che dovevo smettere e io a pensare che lo dicessero perché bella come la mia non la sapevano fare. Ricordi dal '78, tutti rigorosamente in bianco e nero e un'unica televisione in casa. 
Lei è di spalle, non le vedo gli occhi ma so che si stanno giocando tutta la speranza che le rimane. Che prima o poi la nave appare. E lei ci canta su contenta, che ormai manca poco al ritorno di quell'uomo. Nave che arriva bianca e tu non hai ancora capito quanto nero ti stia portando e lama rossa di pugnale per l'unico possibile finale. Sono ancora ricordi di fumo che da un kimono all'altro arrivano fino a Torre del Lago, la casa di Puccini, la luna piena da cantarci su ma per fortuna è una notte di luna e qui la luna l'abbiamo vicina** ma nessuna manina gelida a portata di panchina.
A pensarmi che aspetto fino alla fine di ogni possibile attesa, mi ritorna ogni volta  un'estate di schiena. E tutte quelle pugnalate da non saper contare sui miei desideri disarmati.



* Da: Un bel dì vedremo (Madama Butterfly, opera lirica di Giacomo Puccini).
** Da: Che geldia manina (Bohème, nuovamente Puccini).


lunedì 11 marzo 2013

Piango e rido come allora

Ilaria Guccione, Non guardarmi così (Palermo, 2013)

Andiamo ma andiamoci piano. E dove andiamo? E no che non lo diciamo, che se ci ascoltano diranno che  il nostro andare è sempre troppo lontano, che è un azzardo, che noi ci si diverte a giocare d'inganno. Ci offriranno strade più facili, discese sdrucciole e scontate e ad ogni traguardo la loro benedizione. Come se fosse un premio, come se ci servisse a qualcosa. Sarebbe più utile offrirci un fazzoletto per le lacrime o per il sudore. Che se questo andare non è un girotondo per rimanere fermi è roba che costa parecchia fatica. Ma loro non lo sanno e se lo sanno mica te lo dicono, che altrimenti te ne vai e non ti trovano più.
E proviamo a passare come possiamo che intanto ci passa il tempo. Non mi credi? E prova a fare il conto dei miei capelli bianchi, che non sono donna da tinture e camuffamenti anti età né da mode colorate e mi tengo tutti quei tanti capelli che ho e vedrai com'è che passa e com'è che mi è passato. Comincia a passare che sei lontana e ti dicono che non ti devi preoccupare, che tuo padre sta bene. E tu ti senti addosso all'improvviso tutti quei chilometri muti e aspetti almeno un monosillabo di senso. E hai già capito che quel tempo lì sulla lunga distanza che ti sei guadagnata ti è scaduto. E ti ritrovi che sono passati pochi giorni con quella nota stonata in testa all'improvviso che sta lì a dirti che faresti bene a tornare. E ci piango e ci rido, su questo tempo bastardo che non ci puoi fare niente, tu fai quel che ti va o che ti pare e lui intanto va. E ora che il conto dei capelli bianchi si perde e neanche conviene starci su, ora che a far di conto ogni tanto i miei genitori ne hanno meno di me e io glielo dico e ci rido su, ora che. Ora che. T'importa l'ora? No, che non ti importa perché usi un orologio diverso da me che non ne uso affatto. E no che non ho preghiere né in tasca né in borsa che mi facciano tornare indietro. Io che alla prima confessione non ho spiccicato parola perché non capivo che colpe potessi avere da raccontare. E ostinata nel mio silenzio, ho assolto il prete dal suo compito perditempo. Che preghiere vuoi che abbia io? Io che la sera so solo pettinare lentamente il mio bianco controvento e ci rido e piango ancora, ripetendomi che non devo averne di paura, ché il tempo ormai lo so che non ha premura.


Mi prego da sola

Ilaria Guccione, Ingannare l'attesa col rosario tra le dita  (Palermo, 2013)

Sulla via del ritorno di un mattino storto ho incontrato due paia di scarpe sospese e mi son detta: sono io. Io che torno dalla mia mattina storta. Sono io com'ero ieri e come sarò domani e chissà poi per quanto. Io da quando mi sveglio alle quattro del mattino a quando riprovo a cercarmi il sonno. Io che vado, non importa dove ma solo quel che vedo. Io che ho gli occhi stanchi anche per il pianto. E dai che non importa, che tanto neanche mi capisci più, per te sto troppo in alto e tu hai gli occhi buoni solo per la merda dei tuoi marciapiedi che ti fa comodo dire che sia altro. Tienili bassi gli occhi tuoi e lasciati pure passare con le contraddizioni che porti sulla fronte. E pregati pure qualcuno per garantirti buona sorte, magari il buon vecchio dio oppure qualche sostituto che ormai ne siamo pieni. E scegliti pure il rosario che trovi più alla moda, quello più elegante, quello più comodo da metterti in tasca o al collo, dal Cristo crocifisso all'Osho stoccafisso, che per rispetto dell'anzianità sarei quasi tentata di suggerirti il primo. Io mi prego da sola sotto qualunque cielo, per continuare ad andare sul suolo che mi capita. Io ho da sgranarmi i giorni con la fatica che si fa e nessun miracolo da aspettarmi tra un balcone e l'altro.


domenica 10 marzo 2013

Prometto

Ilaria Guccione, La ragazza del barbiere (Palermo, 2013)

Prometto. Di non promettere più niente se non a stomaco vuoto davanti allo specchio. Ho pur sempre i miei occhi, anche se a volte non li trovo. Prometto di non aspettarmi niente. Neanche un cambio di stagione. Ho pur sempre l'ombrello, anche se a volte non lo cerco.
Prometto, che se prometto mantengo. Di non concedere il prossimo ballo, di mostrare solo il mio profilo sinistro, quello dell'ironia di mezzogiorno, di essere inappropriata dal mattino alla sera che è roba che per capirla neanche ci arrivi con una scala. Prometto di farti vento, di essermi bufera. Prometto di essere tutto e niente, dipende da come non mi guardi. Prometto di non cambiarmi una virgola, di sparare il punto giusto al centro della tua testa, di non vendermi in niente e di capovolgermi il presente ogni volta che la direzione tenta di confondermi. Di contare fino a quanto voglio, di girare su me stessa senza prometterti più un cazzo e di riderci su fin quando posso.


Tempo di raspa e di coltello

Ilaria Guccione, Tempo di raspa (Palermo, 2013)

Tempo di raspa e di coltello, tempo che fa spavento che ti dura infinito. Tempo che dicono di pareggio e alla fine ti hanno sempre strappato qualcosa ma avevi chiuso gli occhi per sorvolare sul dolore e neanche te ne sei accorto.
Tempo che poi ti inchiodano alla paura, perché dicono che si fa sempre così, è così che è giusto e ti andrà tutto meglio e vedrai che ti ci abitui anche tu come gli altri. E per convincerti ti regalano qualcosa che duri un tempo limitato e diluisca i pensieri, un buono sconto da fine settimana o una qualunque bottiglia da bere in compagnia. E tu che ormai non sai più andare scalzo tra terra e sabbia come quando eri bambino, che facevi guerra al solo vedere tua madre che si avvicinava con le scarpe, indossi quello che ora ti danno, convinto che così avrai un passo pulito e accettabile. E ogni volta ringrazi e saluti e vai via ad andatura zoppa e infinitamente lenta.




venerdì 8 marzo 2013

Del pensare proprio della sera

Ilaria Guccione, Calasonno (Palermo, novembre 2012)




Del colore degli occhi al momento del commiato. Di briciole di senso sparse sul tappeto dell'inverno, di scarpe dell’andata da risuolare che forse dovrei solo buttare, di luce che si spegne e io sono ancora sveglia.
Di come cambia il giorno quando ce lo modificano gli altri a furia di strappi. Di punti di vista strabici, di infiltrazioni inopportune dei ricordi tra le fessure del pomeriggio.
Dell’andare di fretta su terra di pioggia, del girare intorno a cose e case per ritardarmi l'arrivo quando non mi piace.
Del guardarmi il sonno fino all'alba. Di parole che bruciano nella gola, del capogiro delle fantasie che non trovo spazio sufficiente per tenerle sottochiave. Del pensare di esserne ormai fuori quando ci sei sempre dentro, che se becchi il riflesso giusto lo capisci da te: a giocare con gli avverbi di luogo rischi solo di ficcarti in un vicolo cieco.



Le mani di Umberto D.

Ilaria Guccione, Che gelida manina (Palermo, 2012)


Mano che accarezza il cane, mano che toglie il cappello, che passa dai capelli al collo e per un istante si ferma sul petto, come a chiedergli il permesso per quei prossimi gesti che l'aspettano.
Mano che si apre e si richiude, si distende e si ritrae. Come a convincersi, a costringersi a rimanere aperta nel miglior modo possibile per chiedere qualche soldo. Mano che il suo proprietario non ha una lira né più niente da vendersi e a breve nemmeno quel buco di camera romana che gli protegge le notti, in via S. Martino della Battaglia.
Mano che gli ricopre il viso, poi si richiude a pugno che quasi a fatica si riapre, ritentando quel gesto che non vuole. Mano che si tende brusca di imbarazzo davanti al primo passante ma quando l'uomo sta per lasciargli qualche spicciolo non ce la fa e altrettanto bruscamente muta il palmo in dorso.
Lui è un pensionato che possiede solo la sua dignità, la sua disperazione e un cane. E a lui allora affida il suo cappello e si nasconde tra le colonne del Pantheon e ci riprova così a cercare di raggranellare i soldi per l'affitto.
Può essere tremendamente difficile mantenersi. No che non sto pensando al mantenersi con banconote ma al tenersi per mano. Da soli, che tutti gli altri se le son già lavate ogni volta che ti incontrano e al massimo la tua te la stringono per cortesia e sono già andati via. Si finisce sempre per farsi giocare da una mano cattiva e ferma, quella che ti spingo e ti respingo, ti colpisco e ti soffoco.
E tu magari ti ritrovi nella tua camera ad aprire una finestra e non per prendere aria ma per misurarti la distanza tra te e il suolo e magari poi provi a sceglierti l'unico posto che ormai ti appare possibile occupare, quello che dura il tempo del passaggio di un treno. E magari, in entrambi i casi, a salvarti è il tuo cane.*


*Umberto D. è un film di Vittorio De Sica (1952). Umberto Domenico Ferrari è interpretato dal linguista Carlo Battisti, alla sua prima e unica esperienza cinematografica. Quanto alle mani di Umberto D., guarda la scena nel link sottostante.