Spider-Boy

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domenica 29 dicembre 2013

Il bello delle bolle è il ballo

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Ilaria Guccione, Belli tra le bolle (Palermo, dicembre 2013)

Bello il ballo delle bolle ma bisogna esser lesti per toccarle, ché tutto a questo mondo si esaurisce presto in una bolla di sapone. Guarda e scatta, danza nell’istante e concediti stupore e speranza, che se non le tocchi adesso magari ti toccherà al prossimo gioco di fiato.
Mi ricordo le bolle di sapone che si compravano all’ingresso di villa d’Orléans, bella occasione di passeggio domenicale, ci si perdeva tra un uccello e l’altro in quel giardino di cui noi bambini non si immaginava la storia, fatta di nobiltà che sapeva anche di Francia, di matrimoni ai tempi del fascismo e poi la proprietà era passata alla Regione e non è che sia cambiato molto.
E soffia e soffia e dai. Come in un sogno o in un miraggio e prova a fartele in casa, chiusa dentro il bagno, acqua e sapone e cannuccia e quel sapore che ti  smorfiava le labbra.
E poi ti ritrovi cresciuta e senza un bambino al seguito non ti fanno più entrare. Ma ormai non c’è più niente da fare, manco a raccattare un nipote per strada, ché in questi giorni Crocetta ha dato lo sfratto ai volatili, chè gli costavano troppo i gufi e i pellicani e mai nessuno che faccia invece qualche taglio di stipendio agli animali umani.
Eppure un giorno che ero ormai studentessa universitaria ci son tornata, forse era giorno di festa e d'eccezione o magari i custodi si erano impietositi. Ricordo i cigni a farsi inconsapevolmente belli in un laghetto e i pavoni che da bambina rimanevo lì con la muta preghiera che mi regalassero la visione di una magica ruota, che le loro piume le accarezzavo sempre in Calabria dalla nonna e poi i gabbiani. Vicini vicini a urlarti chissà cosa e a fissarti negli occhi. Io coi gabbiani ci convivo da anni, fanno comizi notturni sulla mia testa che sono mille volte meglio del putiferio che arriva dalla piazza. A volte ne vedo qualcuno a concedersi riposo su un tetto. E quante volte negli anni romani mi sono presa gioco degli amici siciliani stupiti perché sopra piazza Venezia passavano - ma dai, sul serio? ma che minchia dici? Qui mica c'è il mare - i gabbiani del Tevere.
Ma le bolle, dicevo. Quell’effimero piacere, quel trastullo di un istante. Quella metafora del tempo che, per evitarti l'ennesimo inganno, ci hai da rimanere sempre attento. 
Oggi ho visto volare centinaia di bolle per strada e bambini a rincorrerle ed adulti con sorriso tornato bambino a guardarle volare.
E soffia e soffia e dai che prima o poi arriva il mio momento.

lunedì 23 dicembre 2013

Il natale ai tempi dell’Upim

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Ilaria Guccione, E la peppa! (Palermo, dicembre 2013)

Ci si contava le poche lire bambine di dicembre e si stringeva un patto di natale tra sorella maggiore e fratello e aria da cospirazione che soffiava tirandosi dietro la porta della stanzetta. Erano i tempi dell’Upim che erano pochi passi da casa e andiamoci che qualche cosa ci si trova, calpestando sparuti tappetini rossi. Ma guarda che al nonno, diceva la figlia, vanno bene dei fazzoletti e per la nonna comprate le saponette Palmolive, che lei usa solo quelle per lavarsi il viso. Roba che oggi mi fa venire in mente con un sorriso una foto di Nino Migliori ma allora era un contarsi le monete perché il sapone fosse tanto e i fazzoletti anche e ti meravigliavi ci si potesse far felici con così poco che di pulito sapeva così tanto.
Erano i tempi che ancora ci stavano i negozi di dischi e guarda un po’ che fortuna, ci sono quelli di Vecchioni che li vendono a niente e per quanti anni si è andati a colpo sicuro con un album suo e intanto si passava alle musicassette e poi ai cd ma per fare il regalo a nostra madre il professore è stato sempre il miglior babbo natale.
Erano gli anni che ad arrivare a piazza Politeama sembrava di fare quasi una gita importante e se poi ti spingevi fino in centro storico il viaggio diventava un'avventura strabiliante.
Erano i giorni che a casa ci scappava la proiezione del film e, a ricordarlo proprio oggi che Giuseppe Tomasi di Lampedusa compirebbe 117 anni e vabbè sono troppi ma a cosa pensi mai eppure se ci pensi un attimo è morto che ai 61 non ci è arrivato ed erano ancora pochi, mi rivedo sul divano a guardare e riguardare solo Il gattopardo.
Erano i tempi del presepe, che a metterci mano non si poteva che non è cosa tua e dai che sei troppo piccola ma magari passami il pezzo di sughero o il pastore però l’anno dopo chissà forse mi faccio grande ma ancora aspetto e il presepe non lo si fa più. Ed io che ci passavo ore lì davanti, il tempo scandito da lucine intermittenti, a inventar storie tra una grotta e un fiume che col Vangelo non c’entravano neanche un po’.
Erano i tempi del babbo natale che ti aspettava per una foto ricordo in via Mariano Stabile, che era la via de L’Ora ma allora il tempo te lo misuravi solo in giorni di festa. Erano i tempi della caccia al tesoro, l’arrampicata in due per aprire l’armadio che dentro di sicuro ci trovi qualcosa, il soppesare pacchi e la speranza buona che ci fosse dentro proprio quel regalo là.
Oggi sono tempi che da tempo ormai mi danno solo noia e impiccio a scansar buste per strada che reggono persone e a guardare questo tempo accelerato degli altri che si misura in file per pagare e che cozza col mio che non ha mai niente da contare.
E scusa se non ti ho regalato niente ma a giocarsi il tempo su piani diversi, anche ad averci qualcosa da scambiare, non ci si incontra mai.

mercoledì 18 dicembre 2013

E' una strada persa in uscita di voce

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Ilaria Guccione, Il turno (Palermo, dicembre 2013)

Ogni volta che si trova uno sfruttatore bisogna schiacciarlo. Ma che vuoi schiacciare, tenerezza mia, più ne schiacci e più ce ne sono. E va bene, ma forse bisogna schiacciarli lo stesso.
(Giorgio Scerbanenco, da: Venere Privata)

E’ un arrampicarsi molesto di parole quello che cerca di sfiatare una storia maldestra e spacciarla per buona, ci si sfilaccia rapidi la trama del senso e sopravvive solo un cattivo ordito nel ricordo, di quelli buoni per le vendite di fine stagione o magari d'inizio. L'unica certezza, signora mia, è che la mezza non esiste più e quindi s'organizzi il portafogli e le uscite di conseguenza.
E vai a capirci poi qualcosa, se è valso più un addio slabbrato o un incontro quasi mancato, la fede cieca nell’attesa, il capo chino nei giorni della resa, la voglia folle di scappare o il desiderio onesto di sparare.
L’uomo a due passi da me puzzava d’alcool e di ricordi e la sua storia la ripeteva a chiunque incontrasse per strada perché aveva paura che lei lo lasciasse lì da solo senza un ultimo tenero saluto, ché alle spiegazioni aveva rinunciato da tempo e vai a sapere quanto, che ci beveva su per non doverci far di conto.
Ma cosa vuoi che ti dica più di quel che non ti ho detto, è una strada persa in uscita di voce, un giocarsi l’anima a dadi truccati, un cercare di uscirne vincenti, un continuo barare sul turno, che a rispettarlo sempre son solo io che ti rimango indietro.
E’ un invito continuo a cercar di sfiorare qualcosa che, arrivati al momento del soldo, mi rimane da portar via soltanto un impagabile ricordo che mi oscilla in peso tra le mani e il non saper più dire.


lunedì 16 dicembre 2013

Tra una crepa e l'altra del ricordo

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Ilaria Guccione, Sviolinate (Palermo, dicembre 2013)

Il bicchiere è mezzo vuoto e la testa sovrappiena.
Gira e rigira il pensare, in giri che si fanno inutili in bisticcio di parole e farci pace mai e neanche afferrare li puoi, ti esplodono sul tavolo in sillabe furiose e ferite che boccheggiano rassegnate a quel colpo di spugna che darà il saldo del conto, mentre la loro eco tu te la trascinerai fino al letto del riposo che ormai non sai.
Un piede leva l’altro dall’impaccio del qui non ci so stare e tutt’e due fanno strada e ce ne vuole ad arrivare.
Che per un punto d’arrivo te ne devi saper giocare mille in sbilenche partenze. C’è un muro a sinistra che t'impone il silenzio, sulla destra un cancello che ti fa solo urlare. E si va avanti di fosso in fosso da saltare, se non si cade prima di stanchezza e d'impazienza e di non saper più che fare.
Ho attraversato un sogno storto che non mi voleva far tornare e una strada obbligata dal dolore e frasi rassicuranti e scadute a perdermi di casa e una smorfia sul viso e a quel punto che fu dove vuoi che io potessi ancora andare.
Ho incontrato quelle crepe che mi fanno intera e non le ho potute contare, m’è franato il passo ed il rancore, mi son dovuta fermare.
E tu. Soffiami appena un bacio quando ripassi tra una crepa e l’altra del ricordo.







mercoledì 11 dicembre 2013

La vita è un far di conto che non torna


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Ilaria Guccione, L'emozione da regalare è solo quella che non si può comprare (Palermo, dicembre 2013)

Regalami qualcosa, magari uno sputo di attenzione o qualcos’altro ancora che mi sia spunto almeno per mezza riflessione. Un po’ del tuo tempo migliore che io ci metto tutto il mio e forse pure un pizzico d’amore.
Qui si fa presto a fingersi contenti, li vedi tutti in fila e affanno per comprarsi una qualunque iniziazione che ci sta sempre l’offerta conveniente, ché ce n’è sempre per ogni tasca in ogni continente.
Li incontri a gongolare per un diploma o una pergamena o un anello al dito, che a legger tra le righe e tra le dita non ci capisci un cazzo. Inchino fasullo all’abilità e alla sensibilità e tutti a ritrovarsi piccoli maestri del fotografare, del ballo che più va, dell’anima salvata e benedetta dal primo dio che il convento passerà. Eppure non sanno guardare al di là del proprio naso, eppure sanno a stento regolarsi il passo, eppure affondano nella solita disperazione.
Te li ritrovi poi quasi tutti investiti di uno stesso ruolo che a te puzza di falso e pulsa di maldestro, a farsi venditori di quel medesimo poco che han comprato e vale men che niente, alimentando il solito perpetuo girotondo che puzza di moneta in questo gran mercato che si chiama mondo.
A furia di iniziarsi a qualche cosa, ci si consuma e ci si perde il bello dell’inizio di ogni vera cosa.
Quand’è che tutto aveva avuto inizio? Si era davanti a una cabina telefonica, l’amore ai tempi del gettone, le stazioni passeggiate per distrarsi l’attesa.
Palermo, Stazione Centrale, la solitudine che assedia tra i ricordi e dai che manca poco per partire e guadagnar distanza.
Roma, Stazione Termini, fila interminabile per un panino che quasi ci svieni, occhi a mangiar titoli di libri in vetrina ma i soldi non ce li hai e ti tieni stretto quel libro già iniziato che ti accompagnerà.
Quel giorno là andai via dalla stazione prima dell’arrivo del treno, per conservarmi per buono l’inizio che ormai se n’era andato e per non fare una brutta fine a litigar di nuovo col passato.
La vita è un far di conto che non torna, che sconti non ne fa e a tasche vuote ci si ritrova tutti insieme là.
 
 












domenica 8 dicembre 2013

Storie che dimentico

Ilaria Guccione, Quando si fanno attenti gli occhi (Palermo, agosto 2013)


Ed ecco che per raccontare una storia ne sacrifichi un’altra che era lì che ci giravi intorno da tempo e lei ti chiedeva speranzosa una fine, qualunque essa fosse, pur di potere arrivare da qualche parte, pur di poter respirare infine in pace, tu metti un punto e lei acquisisce voce. Ma è colpa di quelle tue frasi sparse qua e là che ti hanno fatto deviare, di quelle frasi che, a scriverle, all’inizio non le avevi nemmeno capite ma poi ti hanno dato da pensare a ripensare a quell’altra storia che si dava sottovoce, che ti ha proiettato in un altrove che senti più vicino in un giorno di inverno mite, di biancheria stesa, di passi affrettati che ti affettano il respiro e scartavetrano i soliti pensieri. E ti dici che di tempo ne avrai per raccontare ancora, per ritornare indietro con lucidità di parola e allora parti in prima ad innalzare parentesi delicate, poi acceleri di quarta e ti frantumi la trama e avanzi inseguendo il desiderio del dire, che ormai ha trovato un’altra strada. Finisce poi che il resto lo dimentichi, lo chiudi in quel cassetto già pieno di parole a giocarsi gli accenti in altre storie ancora.
Fino a quando quelle frasi recluse non ti pungono il fianco sollecitandoti con punta di dispetto e di rimorso una sintassi sgrammaticata del ricordo.



lunedì 2 dicembre 2013

La morte non la puoi fotografare


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Ilaria Guccione, Vietato fumare (Palermo, luglio 2013)

Fra il gruppetto ad un tratto si fece largo una giovane signora; snella, con un vestito marrone da viaggio ad ampia tournure, con un cappello di paglia ornato da un velo a pallottoline che non riusciva a nascondere una maliziosa avvenenza del volto. Insinuava una manina guantata di camoscio fra un gomito e l’altro dei piangenti, si scusava, si avvicinava. Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’orario di partenza del treno doveva essere vicino. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo, e così, pudica, ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari.
Il fragore del mare si placò del tutto.
(Giuseppe Tomasi di Lampedusa, da: Il Gattopardo)

Venivamo dalla via dei matti, in una giornata di caldo pieno, per raggiungere i morti e quel loro trionfo sotterraneo e storto e appeso che risponde al nome di catacombe dei Cappuccini, quell’ostensione di corpi consunti e paglia a fuoriuscire dagli abiti lisi e nomi in parte noti e in ogni caso nomi e nomi e date ad attraversare secoli e ufficiali dai baffi cadenti, vergini in abito da sposa che s’è fatto camicia da eterna notte, bambini ossa di vetro in casse condivise.
(E provati a pensarli quando sembravano essere lì sospesi per eccesso di sonno e come stai, Salvatore? Aspetta che ti spolvero il vestito e Annuccia mia, non ti muovere troppo che ti riavvio i capelli.)
Dopo avere riguadagnato la luce agli occhi, entrammo nella Selva che selva non è più da tempo ma cittadella funeraria in superficie.
Mi sa dire dov’è la sepoltura di Tomasi di Lampedusa? Il custode n. 1 chiamò il custode n. 2 che ci guidò sicuro, ma da quell’incespicare sul nome capimmo che la sua unica certezza era spaziale.
Sostammo davanti a quel marmo, il più silenzioso in quel luogo di silenzio, che sembrava fare l'eco a quell'amore per la solitudine, quel circondarsi più di cose che di persone che lo aveva accompagnato dall'infanzia. Ma c'era anche quel senso di abbandono che sapeva di lettere in nero a perdere, a cui fa da contraltare quel libro postumo che trovi dappertutto e tutto quel blablabla intorno a farci convegni e festeggiamenti, proprio quel libro che una decina d'anni fa avevo regalato a Roma all'amica francese che in quel giorno di fine luglio era con me davanti alla tomba.

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Ilaria Guccione, La sepoltura di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e di sua moglie (Palermo, luglio 2013)

Girammo ancora un po’ e ci fermammo ad osservare un uomo, occhi inchiodati a una parete fitta di foto e fiori e voce che dal mormorio di una probabile preghiera andò crescendo in urla da maledizione. Ci guardammo in uno stupore a tratti divertito e raggiungemmo l'uscita.

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Ilaria Guccione, Ospiti del cimitero dei Cappuccini (Palermo, luglio 2013)

E la morte, la morte dov'era finita o quand'era iniziata? Perché lo inseguiva fino a farlo fuggire, che poi era l'unico stratagemma possibile perché lui le andasse incontro?
Il fotografo la prima volta si salvò perché le aveva scattato una foto. Si illuse poi di riconoscerla, morte di ossa a cavallo, morte di peste e di frecce fissata su intonaco nella sua eterna corsa, morte che dal muro di un ospedale si era ritrovata dentro un museo perché la si potesse guardare. Ma che la morte non la puoi fotografare fu lei stessa a tempo debito a dirglielo e a farglielo provare.