Spider-Boy

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giovedì 30 maggio 2013

Silenzio armato

Ilaria Guccione, Dateci il pallone (Palermo, 2013)

C'è un silenzio armato tra il mio tutto e il tuo. C'è un sentiero minato che ogni volta ci si esplode e ci si salta per aria che è notte fonda e ci si affossa di note stonate. Qualcosa di me deflagra per strada e qualcosa mi rimane ed è sempre quel che è perso a rimanere più impresso perché avresti voluto salvarlo, perché se poi lo racconti e non hai niente tra le dita ti dicono che hai inventato tutto. Come un'eco distorta, quel frastuono ti bussa sul petto al mattino, tra il risveglio e la tazzina di caffè che ti traballa in mano. Si dovrebbe poter tornare bambini, pensi mentre quel caffè ti barcolla per la gola,  però a patto che qualcuno ti dica che te lo devi godere tutto quel tempo che ti sorride smisurato e prepotente. Che poi. Ci si misura a passi scanditi dalla fretta in bilico tra le scadenze ed il dolore. E tutti ad esigere un pagamento e tu che ti chiedi perché non ti lascino in pace, chè tu paghi tutto sempre. Ti scriverò un'ultima lettera in 42 linee, come nella Bibbia di Gutenberg, risparmierò sulle sillabe ma non avrò comunque lo spazio per dirti che. Siamo occasioni buone che eccedono in distrazione e difettano in coraggio.


martedì 28 maggio 2013

E la memoria è già dolore

Ilaria Guccione, La pioggia vista dal parabrezza (Palermo, 2013)

Dolore. Che è maschio se lo dici in italiano ma se lo scrivi in francese diventa femmina. Dolore che ce n'è sempre per tutti, che di notte ti afferra per i capelli e, anche se non ne hai, tranquillo che ti serra il collo e hai voglia a nasconderti sotto il cuscino o girarti ogni cinque secondi tirando su il lenzuolo, ché se ha deciso di farti compagnia non ti lascia facilmente. Ti prende alla schiena e ti tortura di lama, ti sfinisce ma non ti finisce mai.
E a volte te lo vai perfino a cercare da te, hai visto mai che stavolta ci passo attraverso e rimango indenne. E invece no. Tu che ti scavi nella memoria e ci ritrovi solchi profondi di dolore che solo tu li sai.
Oggi è una giornata che non sa di nessun colore, che ci minaccia di pioggia dal mattino e quella bastarda dopo pranzo ci raggiunge, saluta prepotente e se ne va.
Oggi è una giornata che le ore e i minuti te li conti in un display da sala d'aspetto mentre litighi con un dolore d'ossa che si gioca tutto nel presente e, a volerne scegliere uno che sia più accettabile per questa giornata, ti parte un malsano gioco di specchi e d'incastri che il dolore te lo aumenta e allora concludi che preferiresti solo poter cambiare tempo e argomento. Provi a distrarti, a passare in rassegna i volti della gente con cui condividi la stanza. La signora stravecchia che dorme, con i suoi gambaletti neri stretti che le fanno le gambe ancora più enormi, il bambino che continua a giocare con le suonerie del telefonino e gli daresti volentieri un bel ceffone però non puoi e allora lo fissi con quello sguardo che dice bello stronzo che sei e lui ti risponde a tono e ti spara a singhiozzo la marsigliese. E quell'altra che si lamenta che ha il piede gonfio e vorresti chiederle ma perché cazzo sei venuta qui con quei tacchi. Poi ti stanchi e ti fai partire nella testa quella canzone che ti porti dietro da stamattina e lasci che ti faccia compagnia anche mentre ti rimproverano che no che non sei dritta, su la testa, e poi un po' a sinistra e dopo un altro po' a destra. E' che io sono storta di mio, un attimo di pazienza che mi adeguo ai tuoi parametri ma solo per la durata dell'esame.


sabato 25 maggio 2013

Beati

Ilaria Guccione, "Padre Pino Puglisi Beato. Brancaccio in FESTA" (Palermo, 2013)

Beati quelli che dopo che li ammazzate non gli fate la festa ogni anno. 
Beati quelli che una volta sepolti non li ritirate fuori, per trovarli intatti e scippare loro qualcosa. Ché qualche pezzo d'osso ritorna sempre comodo, la mania delle reliquie la ostentate ancora.
Beati quelli che dopo che li avete massacrati di tritolo o di pistola, li lasciate finalmente riposare in pace.

E' festa, oggi a Palermo è ancora festa, moriremo bombardati dai festeggiamenti di questo maggio infinito.  Dopo Falcone tocca a Pino Puglisi, che oggi l'hanno proclamato beato in un foro italico invaso da gente di ogni età e maxischermi e palloncini e panini e divise di ogni tipo, dal boy scout al poliziotto, dal cardinale al chierichetto. A girare là intorno ci trovavi le signore di una certa età con il loro sgabellino e i privilegiati coi loro posti riservati che non ti puoi neanche avvicinare. Quelli che nel loro paradiso hanno già prenotato un posto tra le prime file.

Ilaria Guccione, Beati i bambini che giocano (Palermo, 2013)

venerdì 24 maggio 2013

Ora non posso dire la storia

Ilaria Guccione, Questi bimbi davanti al mare (Aspra, aprile 2013)

Ora non può narrare. Quanto preme e travaglia arresta il tempo, il labbro, spinge contro il muro alto, nel cerchio breve, scioglie il lamento, il pianto.
Solo può dire intanto che un giorno se ne partì con un bagaglio di rimorsi e di pene. Partì da una valle d'assenza e di silenzio, mute di randagi, nugoli di corvi su tufi e calcinacci.*


Ora non può dire la storia, se non che oggi c'è di nuovo inciampata per troppa curiosità di lei e memoria latente e che ci sarà mai in quel taccuino e allora si siede e sfoglia. Sicura di averci lasciato annotazioni su vecchi libri da biblioteca, ricchi collezionisti e quadri scomparsi, ci ha ritrovato lei e la giostra dei ricordi zoppi ha ripreso a girare. Mica come ieri che altri ricordi di carta li ha salutati appena, di quelli ormai ingialliti che ti vedi insieme vicina e lontana e ti regali nello stesso tempo una smorfia di fastidio e un sorriso di sollievo, perché la grafia la riconosci ma il numero delle pagine e le date e l'ora l'hai dimenticato. E ti rammenti meglio il tempo del treno e quello del mare, quello degli occhi ad afferrare paesaggi e della mano sul foglio a impressionarti la memoria del giorno.
Ora non posso dire la storia, che gira la storia gira, la giostra gira, la testa anche. Se non sto attenta, qualcosa si infrange. Ti do le spalle, mi do le spalle, mi cerco un qualche sogno ma me lo trovo distante. Ci ballo su, ci cado giù. Tutte le volte che provo a scendere ma ancora non si può, con la mia ombra che mi fissa muta e ride e piange.


* Incipit de: L'olivo e l'olivastro, Vincenzo Consolo.


martedì 21 maggio 2013

Ci lasceremo alla stagion dei fior

Ilaria Guccione, Il gioco richiede concentrazione (Palermo, 2013)

Addio. Parola breve che si paga.
Che per riuscire a dirla ci pensi e ci ripensi e la parola non ti viene fuori lo stesso. Eppure. Basterebbe giocare d'inganno, convincersi che tanto prima o poi ci si rivede e allora lascia stare il fazzoletto. Questione di tempo e chi lo sa tra un giorno, tra un anno o nella prossima vita saremo qui seduti allo stesso tavolo a raccontarci le omissioni, a ricucirci di parole sensate ogni nostra storia. Ti riconoscerò da quella cicatrice sbiadita sull'addome, da quella crepa che ti urla e che me la sento addosso anche se ci hai messo una toppa.
Come un filo sospeso e intrecciato, come il telefono fintamente dimenticato fuori posto o un conto da saldare al  prossimo stipendio, un farsi credito a vicenda aggrappandosi all'idea che il tempo ci riconosca la strada del ritorno.
Addio. Sono costretta a ripetermi oggi fin dal risveglio e subito mi rispondo che è troppo, no che proprio oggi non ce la faccio. Mi concedo il tempo del vicolo per regalarmi una salvezza provvisoria ed eccoti apparire quel volto lì davanti agli occhi. Me lo lascio camminare a fianco per non pensare a quel saluto maledetto che mi aspetta. Eppure. Mi son confusa di malinconia, ché anche a lui avrei dovuto dire addio. Paggio Fernando, perché mi guardi e non favelli? E lui le rispose: guardo i tuoi occhi che son così belli. Una partita a scacchi, che a sbagliar mossa lui ci perde la vita e se invece vince ci guadagna in sentimento. Un ricordo lontanissimo che mi assale per strada, di un libro dalla copertina rossa ed io bambina ad imparare con ostinazione le battute del testo teatrale di Giuseppe Giacosa a memoria.* Sarà che a ficcarmi dentro una storia di Sciascia** ci ho incontrato il padre di Giuseppe, quel Guido Giacosa che dal Piemonte si è ritrovato a Palermo a fare il magistrato e a muoversi in una notte del 1862 che qui volavano i coltelli. Gira e rigira da qualche parte ci si ritrova tutti. E finalmente arrivo. Entro nella stanza e mi aggredisce quel vuoto che il sentimento mi diceva ancora pieno. 
E allora addio neanche te lo dico, mi volto e vado via. Lascio che a ripeterselo siano Rodolfo e Mimì che se lo promettono per la primavera. Che in inverno fa tristezza, aspetteranno il sole per regalarsi almeno un sorriso, si lasceranno alla stagion dei fior***
Ecco. Ci lasceremo alla stagion dei fior. Se per te non è un problema, vorrei che fossero viole.

* Una partita a scacchi, 1873.
** I pugnalatori, 1976.
*** Il libretto de La Bohème, musicata da Giacomo Puccini, è di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica.


sabato 18 maggio 2013

Trasi, talìa e nesci

Ilaria Guccione, Il piccolo venditore di pannocchie (Palermo, 2013)

Il bambino accompagna il padre col lapino, che coi conigli non c'entra niente, a vendere pollanche, che non sono galline né gallinelle. Insomma, nel cuore del cuore della città, proprio là dove incombono i quattro canti, ci trovo parcheggiata una moto ape carica di pannocchie bollite e se non conosci Palermo probabilmente ti sfugge il senso di quell'incrocio di monumenti, turisti, di traffico di cavalli e auto e anche il senso del mio sorridere per questo incontro.
Il bambino sembra stanco, magari ha fame, magari vuole tornare a casa ma non apre bocca, gira intorno al lapino e osserva i grandi e anche lui sorride. Il bambino, la storia di tutta quella storia che gli gravita intorno di sicuro non la sa. Nessuno gliel'ha fatta imparare a memoria in funzione di questi giorni che Palermo ti apre le porte e ogni scuola fa da madre adottiva a un monumento. Il bambino a scuola non c'è andato, lui la sua storia se la improvvisa per strada.
Eppure dice che questi sono giorni di festa, che non fai altro che incontrare scolari che si arrampicano tutti sulle stesse parole di un identico copione che stringono tra le mani e che i grandi gli hanno scritto ricopiando vecchi copioni di altri grandi che il più delle volte hanno copiato altri. Si fa storia tra stanze di casa e stanze di scuola e nessuno che guidi gli altri con la semplicità del guardare.
Sono diciannove anni che ci aprono queste benedette porte e sono tutti contenti. E nessuno che riconosca che ci concedono solo spiragli a trasi, talìa e nesci e un senso della memoria distorto per  difetto di  luce e  di tempo.*
Qui sarà davvero festa quando troveremo intorno solo porte scardinate in ogni edificio e ogni santo giorno e non i consueti apparati effimeri che precedono l'anniversario della strage di Capaci.


* Entra, guarda ed esci.

Ilaria Guccione, Vera sete (Palermo, 2013)


mercoledì 15 maggio 2013

Di quale ora è giusta l'ora?

Ilaria Guccione, Che barba (Palermo, 2013)

L'orologio ci guarda da ogni pubblicità possibile, segnando sempre la stessa ora. Sono le 10.10 e da quel tempo imposto in allegria da acquisto non si scappa e ciò vi basti per sorridere, per fingere di alleggerire quel peso che immancabilmente vi inchioda verso il fondo, su ogni suolo che calpestate: il tempo di cadere e neanche ve ne siete accorti. Vivendo di espedienti in scadenza breve, fermandosi a quel che arriva all'occhio, ad ogni rosso da semaforo che accelera il battito e nessuno che ve l'abbia spiegato per tempo eppure eccovi tutti lì a tirar di freno fino al prossimo segnale da rispettare.
Qui intorno son tutti pronti a dire che è l'ora giusta ed io non so neanche per farci cosa. Tutti ad insistere che, se non sto attenta, son cazzi miei perché poi lei passa e non ritorna più.
Dicono che sia l'ora buona, per la rivoluzione, per la festa, per scambiarsi baci da una finestra. Eppure passo e ripasso e non trovo nessun sorriso appeso alle persiane e incontro il solito muoversi restando fermi e nessun tempo buono per dirsi allegri.
Sarà che io il tempo non me lo peso né misuro in lancette da orologio al polso o al muro. Sarà che la gente arriva come va e non ti dà mai preavviso né indulge in pietà. E allora aspetta, se sai aspettare ma anche se lo fai continua ad andare, che è tutto tempo squadernato e via. Dammi tempo buono se di tempo da dare ancora ne hai, che quello giuro che lo so anche quando piango e se arriva giuro pure che me lo prendo tutto e ti scatto perfino una fotografia.



lunedì 13 maggio 2013

Odi et amo

Ilaria Guccione, In bici (Palermo, 2013)

Odio.
Fare il conto alla rovescia alla posta e al supermercato, che mi cerco gli orari più impensati e mi intrappolo in una fila lo stesso, io con due cose contate e scontate e un soldo e mezzo da spendere e tutti gli altri in sovrabbondanza di spesa e di lamentela.
Odio le banche e in quel po' di tempo che ci passo dentro ci sogno bombe che esplodano non appena me ne sono andata. E poi non dite che sono stata io a lasciarle in una borsa.
Odio. I volumi troppo alti a meno che non sia io ad alzarli, cercando di battere in fiato qualche cantante con la mia voce. Odio i film commerciali e chi li ama e si lamenta perché non gli sono piaciuti e piange pure sul costo del biglietto e poi da me che cazzo vuoi se ti prendo per idiota. Odio le associazioni socioculturali, sempre pronte a convincerti che se ci vai sei dalla parte giusta e buona, quella del loro bilancio agevolato.
Odio il silenzio di chi non ti risponde se gli dici qualcosa e il sorriso di chi ti incontra e sa far finta di niente. Ché io ho una voce da consumare e il mio tutto in disappunto che me lo trovi in ogni muscolo della faccia e allora se mi incontri cambia strada, che è meglio.
Odio la tv accesa e infatti la mia è sempre spenta, odio chi ti dice che la tv non ce l'ha e poi passa ore a imbottirsi di mafia a puntate in streaming. Odio scoprire al risveglio che è finito il caffè e maledirmi per la mia fatale distrazione.
Odio quelli che adesso facciamo la rivoluzione e come la facciamo la rivoluzione, comodamente seduti e magari la facciamo tutti domani e domani è sempre un giorno in cui li trovi ancora comodamente seduti, a casa o al posto di lavoro che figurati se mi assento ma dal mio computer ah se mi sentono e vedrai come te le cambio le cose.
Odio le donne che davanti allo specchio, che ci passano ore di trucco e di capelli contati sulla testa vuota da sistemare, non si vedono per quello che sono e poi si lamentano pure che nelle foto le fanno venire sempre male. Ma neanche se andate a battere vi pagano e allora ringraziate quegli sfigati che hanno deciso di sopportarvi.
Odio quelli che si fingono cortesi che poi se gli rispondi per come meritano la scortese diventi tu, quelli che ci vogliamo bene tutti quanti e non ci lasceremo mai e dai che domani alle dieci ci ritroviamo qui e poi appena sei andato via affilano la lingua con il primo che hanno a portata di voce.
Odio quelli che vivono in funzione dei loro progetti e i contratti a progetto. Odio il cool, il 2.0, il brunch e l'happening. E tutti quelli che vai con la parola straniera ma guai a saper mettere un apostrofo o un accento tra una parola italiana e l'altra. Odio quel valutarti a tempo, come se in un tot ore valessi qualcosa che altri hanno deciso e per il resto vai cordialmente a fare in culo, ti richiameremo quando ci fa più comodo ma sai, dipende dal finanziamento e dal governo. E dalla raccomandazione del momento.
Odio le feste comandate ed ogni tipo di comando e la gente in divisa e le divisioni tra la gente e i codici a barre e quelle sbarre imposte che poi mi manca l'aria e figuriamoci a chi sta dall'altra parte ad aspettare di rivedere un panorama indiviso.
Odio quelli che io mi sento tanto fotografo ma non so cosa sia la messa a fuoco e l'esposizione è quella che faccio in costume a luglio, quelli che io mi sento tanto scrittore e uso le parole a cazzo e i segni d'interpunzione in base al ciclo ormonale, quelli che io sono tanto artista ma se poi ti dico che l'arte non salva il mondo ti offendi a morte. Quelli che io mi sento tanto storico dell'arte e non sanno distinguere un carboncino da una matita.
Odio dover fare i conti perché qualcuno ha deciso per me che c'è un tempo che scade. Ché il mio tempo è quello che è e lo so io qual è e i conti me li tengo sotto al cuscino per giocarci meglio di notte a sbilanciarmi la vita e il sonno. Odio quelli che sul tuo buonsenso in regalo ci sputano e vanno a pagare dei coglioni che gli promettono di insegnargli a respirare sputandogli addosso qualche parola orientale.
Odio chi fa della memoria solo una parola con cui giocare quando gli fa più comodo e poi neanche ti riconoscono per strada e allora figuriamoci se si ricordano il resto.

Amo.
Il bianco e nero tra film e foto. Amo Godard, Simenon e la Szymborska e Brel e Vecchioni. Amo lo stupore che regalano certi occhi, il fruscio delle pagine di un libro, anche se non lo leggo. Il silenzio della casa alle cinque del mattino, i gabbiani sulla mia testa, che così mi sento un po' a Palermo e un po' a Roma. La quiete strafottente del mio gatto e qualunque cane mi salti festoso addosso. Amo i bambini che mi sorridono quando li fotografo. Amo anche Catullo, che sennò il titolo che ho scelto per queste parole non vale.  Amo la mia testa in qualunque direzione vada e in qualunque ostacolo inciampi. Amo più di quel che odio, che è tanto davvero ma adesso sono stanca e non mi va di raccontartelo. Ma tu pensaci pure se vuoi, che qualcosa di me di sicuro la sai e da qualche parte te la ritroverai. Se è vero che nel mio viaggio in qualche modo tu ci stai. 

Scusa se non ti aspetterò, si prende il treno che si può.


domenica 12 maggio 2013

Luca Flores. L'altalena e la corda

Ilaria Guccione, How far can you fly? (Aspra, 2013)

La prima volta che lei lo vide, lui stava suonando. E quel motivo le si impigliò addosso, tra le pieghe del vestito e delle emozioni, insieme al ricordo delle sue dita sulla tastiera.
Ma tutto sembrò fermarsi, o almeno così ricordo la vertigine che si aprì nella mia testa, quando sentii l’accenno alle note di quel brano. “Angela”. Motivo dolcissimo e dolorante che presto avrei imparato a conoscere e amare. Poche note che erano già un rimpianto“Angela, Angelo, angelo mio. Io non credevo che questa sera. Sarebbe stato un addio. Angela io non sapevo”. Ogni strofa un lieve lamento. Mi aveva preso allo stomaco dalla prima volta che l’avevo sentito. Decine e decine di volte l’avrei poi riascoltato nascere dalle sue dita, che sempre sembravano girare intorno alla triste dolcezza del brano quasi ne fossero padrone e schiave allo stesso tempo. Scavando variazioni nella melodia. Sprofondando fin dove il dolore poteva arrivare. Tentando a volte improvvise impossibili fughe. Per ritornare a cullarsi nel rimpianto. Rassegnate alla propria catena.*
Lui una sera le disse: “Devo sempre avere paura di me stesso”.
Era come un’altalena il suo male, che ci si sente arrivare fino al cielo e anche oltre. Poi è come sentirsi lieve, quasi come essere pronti a toccare il suolo. Ma poi un’altra spinta lo portava via, violenta, inaspettata. E ci si ritrova catapultati dalla parte opposta. Non si può opporre resistenza al proprio inferno, su quest’altalena beffarda che va da sola e non lo sai quando il momento arriva e ti dici sempre: non lo sapevo. Non lo sapeva lui. Non lo sapeva lei.
Così gliel'avevano poi spiegato, quando lui se n’era già andato. Con un addio distorto dalla distanza, dal fuso orario tra America e Toscana, da cartoline recapitate in ritardo. Lei non aveva fatto in tempo a tornare. Lei era troppo lontana, perché era troppo stanca. Ma quello strappo l’aveva sentito. Non l’aveva visto, no. Non aveva fatto in tempo neanche per rivedere lui, no. Ma ancora le mancava il fiato. Di lui appeso a quella corda.
Il dramma è che tu non spingi. Il dramma è che tu non fermi. Il dramma è che tu non ci arrivi fin lassù. Avverti solo il peso. Dopo, il peso. Nel buio che non ti appartiene. Tu hai i piedi sul suolo, quel buio non lo vedi ma sì che lo senti. E non sai più su cosa poggi, no che non lo sai. Sapevi che l’abisso sarebbe tornato anche se non volevi. Ma tu non spingi. Tu non fermi. E ti risuona quella melodia nella testa. Come un frastuono. Come una condanna. How far can you fly?

Lui si chiamava Luca Flores ed era un pianista jazz. Nato a Palermo, segnato a vita dall'Africa dove sua madre era morta davanti ai suoi occhi di bambino, morto suicida a Montevarchi a 39 anni.

* La storia di Luca Flores e Michelle Bobko, sua compagna di vita e di musica, la trovi raccontata da Francesca de Carolis nel suo libro Angela, angelo, angelo mio, io non sapevo (Stampa Alternativa, 2007) da cui è tratta la citazione.

venerdì 10 maggio 2013

Trova chi non cerca

Ilaria Guccione, Arrampicarsi (Palermo, 2013) 

Dice che chi cerca trova ma io ormai lo so che se cerco qualcosa non la trovo mai e a tutti ripeto quella frase che io non cerco, trovo. Che non l'ho detto io ma uno che si chiamava Picasso. E allora, se sono costretta a cercare, so già che non trovo. Come oggi, che a cercare di tirar fuori delle stramaledette carte, quelle hanno continuato a nascondersi e io ho trovato tutto il resto. Pezzi di vita sparsi nella stanza in involontaria e rapida rassegna. Foto, cartoline, biglietti di mostre e di treni e quanto altro ancora. E allora mi riconto i passi a villa Borghese, la metro A che chiudeva prima della B, le mattine a leggere su una panchina, le sere calate all'uscita dalla Galleria. Gli amici di passaggio e dai che ti porto qui e poi lì e il conto dei passi si perde con quello degli anni. E poi piazza Farnese e palazzo Spada, Annibale sul tetto e Francesco in galleria.*
E Francesco se ne andò che era notte, in assenza di luna e con un colpo di spada, neanche a farlo apposta. Meglio non saperlo il perché. E non so neanche perché quel giorno te l'ho raccontato, colpa dei nostri passi sul selciato, dell’ombra che da sinistra mi parlava e ci diceva felici in un abbraccio lungo chilometri fino al commiato. E allora si poteva parlare anche di quella morte che tu te la porti sempre dietro. E via che si continua ad andare, via che è meglio smettere di raccontare. Via che da piazza Navona giriamo per santa Maria della Pace. Ma tu, se puoi, non mi lasciare. Troppa luce nel giorno di giugno, che mi duole qualcosa che neanche lo so. Ci penserò dopo. Più in là, quando avrò il passo lento di stanchezza e tramonto. E neanche è vero, passerà ancora del tempo e poi.

E poi un altro salto indietro. E c'è quella donna bella che dorme sempre, sono secoli che dorme e nessuno che la svegli.** Eppure son tutti lì a toccarla. Tutti tranne la sottoscritta, che la chiesa di san Martino l'ha trovata chiusa e non è mica giusto, che ci accomuna questo nome che sa di allegria e vabbè, lei che è morta di parto a ventisei anni e io che sono qui, a quaranta, a vivere alla mezza giornata e a sputare addosso a chi i figli li deve fare per forza perché sennò poi neanche lo psicologo le ripaga. E chissà, tra la morta e la viva, chi vince sull'altra in ilarità. Ma prima o poi ci torno. Prima o poi.
Ho trovato un amore per strada che non c'era nessuna indicazione della via e un pavimento sconnesso che continuiamo a cascarci in due e ogni volta a rimanere in piedi è lo stupore. E vallo a ripescare adesso l'amore, che si è nascosto. Ma prima o poi. 
Se dormo sogno di sfidarti sempre e farti un buco proprio dentro il cuore, farti sentire tutto quanto il senso di questo inutile avere dolore e bucarti la pancia con la tua stessa spada perché tu non sei più lo stesso e perché non ti veda. 
E intanto sono passate delle ore a cercare e polvere sulle mani tendente all'infinito. Ho trovato tutto tranne quel che cercavo, ci vorrà il solito trucco da gatti, il far finta di niente, il girarsi intorno indifferente, il fottersene dell'assillo del tempo e concedersi il sonno sul tappeto. Che tanto la tua preda prima o poi arriva e meno ci pensi e prima si fa. E' che se ti ostini, non arriva niente, se non quelle finte certezze da due soldi che poi lo so che te ne penti. E' che se affidi agli altri il trovare qualcosa per te in dissonante compagnia, ti regalano quattro sbarre e poi ti accorgi che dentro ci sei solo tu che ci respiri a stento. Che se ti impegni il tempo a scimmiottare scimmie a due zampe e nessuno tra voi che sappia cosa vuol dire arrampicarsi, ci rimetti in senso e ti giochi il dolore che tanto poi ti ritorna su.  
Se devo credere ai mercanti di Fiandra, stai con quella che ride di più, tiri la spada con la tua ombra e sei felice, vabbè o su per giù.

* Gli affreschi di Annibale Carracci sono a palazzo Farnese, la galleria di palazzo Spada è di Francesco Borromini. Che di spada è perito, di sua mano, nel 1667.
** Ilaria del Carretto e il suo monumento funebre a Lucca, di Jacopo della Quercia.














 

martedì 7 maggio 2013

Eroi da collezionare

Ilaria Guccione, Palermo, Palazzo d'Ingiustizia (Palermo, 2013)

I vivi, quelli che fanno collezione di eroi morti. Ne segnano con cura i decessi su un calendario che poi mandano giù a memoria. Si presentano regolarmente ad ogni ricorrenza, magari nei pressi di un albero e forse non c'è bisogno di essere palermitano per capire di quale albero io stia parlando. Che poi si canta e si balla, più passano gli anni e più si balla e si canta e dai che arriva la sera e tutti sotto il palco con la birra. I vivi, quelli che la legalità sopra ogni cosa e ti urlano il nome del morto appropriato per ogni occasione, che se lo tirano fuori dal cassetto della scrivania dell'ufficio in cui sono entrati col solito gioco che c'è quell'altro che è amico mio e poi c'è mia moglie che lavora proprio lì e allora sai com'è, era giusto che a me andasse così. I vivi, quelli che la foto accanto a quelle orribili sculture di Falcone e Borsellino in panchina la devono fare per forza. I vivi, quelli che ti citano Brecht ma subito dopo se lo scordano e guai se gli tocchi la loro collezione. I vivi, quelli che vogliono prendere i resti della macchina di Falcone e farne un monumento e collocarlo davanti al Palazzo d'Ingiustizia di Palermo, che se ci passi accanto ci trovi già 50 morti che ti sorridono da lontano. E ne farebbero volentieri a meno.



lunedì 6 maggio 2013

Il vuoto è pieno

Ilaria Guccione, Riempire il vuoto (Palermo, 2013)

Il bar è a pochi passi dal mare, inscatolato in uno di quei parallelepipedi soffocanti da marciapiede che ti ci infili per dissetarti e intanto ti fai una sudata. La donna entra, in una confusione di capelli e di ricordi. Che a metterli in fila c'è sempre poco spazio. Che a cercare di contarli qualcuno ti si nasconde sempre dietro un mobile o sotto la sabbia. Che a cercare di farci ordine ti rendi conto che l'ordine è solo quello che ti impongono gli altri e allora te ne fotti. Aspetta in silenzio che venga il suo turno e cerca qualcosa da fissare per non cadere nella trappola del facciamo due chiacchiere, che oggi ha fin troppe parole da soffocare e nessuna da regalare agli estranei.
Sul bancone bottiglie di birra e tazzine da caffé. Tra ogni vuoto ed ogni pieno ci sono io e il respiro che trattengo e i miei occhi che agganciano la macchina del caffè, come se fosse l'appiglio migliore in caso di caduta. Perché ci sono giorni che si cade facile, mentre ti controlli i passi con cura cercando di salvare tutto quello che incontri. O almeno di non farti troppo male, con tutti quei cocci che sarai solo tu a pagare, con quella memoria che hai e quel tuo cuore che si è fatto pesante e più te lo calpestano e più l'eco dei colpi te la porti dietro e quanto rumore che fa.
Arriva il momento di pagare e la consueta cordiale bugia dell'arrivederci. Che ce la regaliamo sempre. Anche quando sappiamo già che, chiusa la porta e voltato l'angolo, non ci si incontrerà mai più.