Spider-Boy

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giovedì 25 dicembre 2014

Urla adesso che è silenzio

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Ilaria Guccione, Non abbiamo letto (Palermo, dicembre 2014)
SILENZIO
Mariano il 27 giugno 1916

Conosco una città
che ogni giorno s'empie di sole
e tutto è rapito in quel momento 


Me ne sono andato una sera

Nel cuore durava il limio
delle cicale


Dal bastimento
verniciato di bianco
ho visto
la mia città sparire
lasciando
un poco
un abbraccio di lumi nell'aria torbida
sospesi

(Giuseppe Ungaretti, da: Il Porto Sepolto)


Nella piazza del dì di festa solamente lo scrosciare dell'acqua e il guaito di un cane ad attraversare la sera.
Percorrendo un altrove vicino e irreale ho incontrato i miei passi leggeri e li ho lasciati andare.
Ho ascoltato fantasmi bambini all’ombra della prigione antica ridere piangere ridere e cantare.
Cuore mio che mi taci, urla adesso che è silenzio, canta adesso che ti sento.




martedì 23 dicembre 2014

23 dicembre 1978. Maledetto sia il Natale


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Ilaria Guccione, Puntare in alto (Cinisi, novembre 2014)
2014
Roma Fiumicino. Arrivo con il collo malandato ed il treno sbagliato, quello che la metro C te la sei persa al primo incontro, che ai tuoi tempi mica c'era, e scendi e sali e scendi ed il binario vince sempre sulla fretta e  quindi anche il treno buono t’è saltato e, se ti perdi due minuti ancora, il cuore te lo ritrovi che ti salta in gola e poi te lo perquisiscono e a dare confidenza sulla vita tua agli sbirri non ci tieni proprio.
Ma loro puntano in basso, si tolga gli stivali. E perché a Palermo non me li hanno fatti togliere? Maledetta te che zitta non ci stai e ti sei giocata mezzo minuto. E tu che passi e suoni ancora e li senti parlottare che a Palermo e poi a Palermo ma sai a Palermo che. Ma non hai il tempo di capire, ché hai da recuperare uno stivale che si è perso mentre bestemmi sui calzini e magari hai un’arma letale nei piedi e non lo sai e allora è meglio non dire. Ché tanto del tuo risuonare se ne stanno fottendo.
1974
Palermo Punta Raisi. La bambina piange. Le hanno preso Michela, riccioli neri e vestito grazioso di lana arancione, di quelle che se le abbracci non ti ricambiano però sanno parlare. E chissà che avrà sussurrato mentre passava in quel buco nero. Mamma, avrà detto. Mamma è l’unica cosa che sa dire. La bambina piange. Poi si arriva a Roma che la sua bambola non gliela puoi più togliere e la vacanza e il lago e non ci si pensa più ma io me lo ricordo ancora.
1978.
L’aeroporto di Punta Raisi era appena maggiorenne, nato al momento giusto nel posto sbagliato.
Erano anni di arrivi e partenze segnati a gesso e lavagna.
Si partì, la notte del 22 dicembre da Roma Fiumicino. Tempo di vacanze, di famiglia da abbracciare, di regali da scartare, concessione di licenze, esami universitari nella tasca buona della giacca allegra dei vent’anni. Tempo che non è più tempo di arrivare, rimane solo il tempo ingiusto di affondare. Si arrivò a Punta Raisi che s'era in 129 il 23, il mare se ne prese 108, compreso quel neonato che c’è ancora chi lo sente piangere nel ricordo di sedie volate e vite violate e aria che manca e nero che affoga e avanza.
C’era quella carcassa di aereo, ricordo mio di ragazzina, che la vedevo passando da Villabate.
C’è che dicono che l’aeroporto adesso ha un altro nome, quello che sa di medaglia falsa alla memoria, quello di chi si trovò nel posto giusto al momento sbagliato, quello di chi in vita non ha mai chiesto gloria e ormai è crepato.


martedì 16 dicembre 2014

Fotografare a memoria

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Ilaria Guccione, In stazione (Firenze, novembre 2014)

Sono notti che sogno di scattare una foto ma c’è sempre qualcuno che arriva e mi dice che sto sbagliando tempo e luogo. Ed io, che ogni volta rispondo che sto fotografando a memoria, mi trattengo pazienza e attendo. E poi mi sveglio e a notte nuova son sempre lì che sogno e ricomincio.
 
Sole che in questo dicembre siciliano i ricordi me li sa ancora ustionare.
Sola che sola ci sto sempre bene e sogno attese da stazione, quelle che prima o poi ti incontri e non importa dove.
Dove saran finite le parole che non gli abbiamo fatto strada ma a malapena il verso ed io che ancora mi ritrovo e tu che invece ti sei perso.
Verso che hai recitato all’incontrario, spezzandomi ogni rima immaginata, divaricandomi il sentiero ed il binario.
Ero che ti dirò che adesso quel che sono non lo so e quel che mi ricordo è quello che da sola ancora so che ho.
Sono che non mi posso misurare se non nella voglia che ancor trattengo nell'andare.
Forse non c’è ricordo a cui ti puoi impiccare ma non ci giurerei sul fatto di ritrovarne un paio che ti sappiano ancora far male.
Non appena misi piede in stazione mi avvolse l’eco di mille partenze che sapevano speranza e ritorni da perderci il conto. Ma il tempo, per ricordare chi fosse andato via e chi avesse avuto il coraggio di tornare, non ce l’avevo più. Quel tempo che qualcosa di sicuro ha esagerato, quel tempo che a furia di aspettarlo ormai mi ha abbandonato e io che avevo fatto  a botte per dire che l’avevo imbrogliato. Non avevo più nessuna giustificazione, se non quell’essere ancora nuovamente in stazione.
Non m’è restato che fotografare a memoria.
Il primo bacio che t’ho dato, l’ultimo abbraccio che ha lasciato. Segnali sull’asfalto che nessuno ha mai guardato. E’ il dramma dell’altrove, il buffo del traffico che lamenta distanza, il sogno della mente che cerca sempre vicinanza.
Io che mi son persa tra quadri antichi ed infinite scale e neanche gioco a poker.
Io che mi son cercata, come dire che non ho sbagliato vita e via eppure sono qui che non mi trovo se non nel ricordarmi il passo e il luogo.
Come un appuntamento promesso a distanza. Come un eccesso del cuore che ancora inciampa eppure danza.
Ho incontrato bambini in corsa lieta nella piazza, ombre di pranzi smezzati all’università, di gite fuoriporta e parole e parole e ore a legger libri e a giocarsi quel fiato sospeso a promettere futuro buono tra un'appendice e una nota.
E uomini in sonno urbano rabberciato a rammentarmi che il presente non sarà mai passato.


















sabato 13 dicembre 2014

Vi ho guardato scioperare la piazza


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Ilaria Guccione, Scioperanti (Palermo, dicembre 2014)

Prendila come viene, la musica che va in questa sera tiepida.
Con queste stonature che sanno nostalgia, con questo sfiatar lento che le domande se le perde per via. Con questo contarmi nella testa gli anni che sono persi ormai ma avanzo sempre di ricordo e non rimpiango mai.
Avevo una bella storia  da cantare e nella fretta l’ho scordata, ho masticato a fatica le parole e i ricordi li ho sputati a metà per ritrovarli in gola e saper ricominciare.
Dice che qui a Palermo abbiamo vinto la partita, roba che tirano ogni tanto il calcio buono e si fa.
Vi ho guardato scioperare la piazza a metà vuota, roba che all’ora di pranzo trovate ogni volta il passo buono per la pancia e si va.
Vi ho guardato danzare la piazza come fosse un giorno di festa e fingervi la rima con protesta.
Mi canto che deflagrazione s'accoppia con rivoluzione ma è melodia che dite esagitata perché al vostro lamentarvi misurato appare sempre esagerata.





martedì 9 dicembre 2014

Ed è subito sera


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Ilaria Guccione, Ognuno guarda dove sa (Palermo, dicembre 2014)

Lui che mi suonava la sua malinconia a tempo di gettone.
Ed io che lui se n’è andato che ormai son tante vite e in questa mia che a stento m’è rimasta me lo ricanto a forza di melodie sbiadite e nera nostalgia.
Giorno che dopo giorno te lo fan vivere d’affanno.
C’è chi il futuro se lo spera rimanendo fermo e non si sa svelare più nessun inganno, quello che gli riserva l’aspettare senza agire che è molto più che un po’ morire.
E c’è chi accende a sere alterne fiaccole e manifestazioni e si urla in rivolta. E culo fisso e sguardo fesso ma per cambiar qualcosa non muoverà mai un passo.
Ed io ad ingoiare asfalto e strazio in questa città che scomoda mi sento eppur mi ignora e m'ospita il lamento.
Ed io a fottermi di malinconia e singhiozzar memoria e la salvezza dicono che sia prendersi sempre il  proprio niente in culo ed andar via.
Venne giù l’iradiddio. Apoteosi d’acqua per una madonna fatta di culto tanto e argento poco, la chiesa sollevò sottane per non lavarsi nelle pozzanghere il peccato. 
Io m’inzuppai di sdegno e di malinconia. Io mi trattenni a stento dall'urlare che non siamo tutti parenti nel nome di un buon dio ed andai via.
Senza che per nessuno arrivi assoluzione o ci sia tempo di preghiera.
Alzi lo sguardo a un cielo lacerato ed è subito sera.

mercoledì 24 settembre 2014

Dipartita


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Ilaria Guccione, Finale di partita (Palermo, settembre 2014)


Non comprendendo.
Che sarebbe più semplice capirsi sul momento, piuttosto che rincorrersi in ricordi controvento.
Che gioco non vale mai la cera e il fumo e a ben pensarci non t’ho giocato mai.
Quel tiro che non t’ho aggiustato, quel tanto che mi sei mancato.
Non risparmiando.
Su quel tempo che oramai è marcito.
T'avanzo di promessa, salto il fosso e rido.
Non saldo più partita ché, se ci pensi il giusto, sei tu che non mi hai mai capita.



lunedì 8 settembre 2014

Ballata sghemba


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Ilaria Guccione, Lux (Palermo, luglio 2014)

Tutto questo dire per non dare niente
Tutto quest’andare di chi non sa restare.
Figgersi seduti quando si è caduti
Recitare seri rimanendo muti.
Tutti questi versi ai quattro vanti spersi
Tutti questi canti a bisticciarsi amanti.
Tutti questi sassi ad impicciarmi i passi
Tutti questi anni a rifilare affanni.
Rimo il mio vagare che non sa scordare
Gioco a sillabare per non naufragare.


martedì 19 agosto 2014

Rammentare è rammendare


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Ilaria Guccione, Viavai (Palermo, luglio 2014)
 
Quelli che si portano dietro i soliti striscioni, un pugno in tasca almeno di affezionate citazioni.
Aggrappandosi allo slogan più riuscito, mantengono impeccabile la piega del vestito.
Solo il presente voglion sillabare, ogni ombra sulla spalla la sanno ricacciare.

Mi sporgo maldestra sulla sera salutando moltitudini di me che hanno spessore di carta e profilo d’inchiostro e il sapore del quanto tempo che è questo mio tempo che è passato ma dove sei che non t’ho fatto niente e te ne sei già andato.
Rammentare è forse solo questo: l’arte sbilenca del rammendo, il giocarsi la memoria sul filo teso a disegnare piroette timide e sciancate che non sai mai quando si spezzi che non sai mai com'è che ci ricadi, una scommessa persa in partenza perché non l'hai mai giocata, un riconoscersi ragione che ormai non serve a niente,  un incalzar risposte su una domanda assente.




lunedì 28 luglio 2014

Pene, mare e fantasia


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Ilaria Guccione, Vasata fa rima con taliata (Palermo, giugno 2013)
 
A respirarlo, tutto questo mare. 
A perdersi il pensiero all’orizzonte e ad affogarci gli anni per farli decantare. 
A recitarci sopra una preghiera stramba che non conosce santi, vorrebbe solamente miracolare ancora incanti.
A stender desideri bagnati controvento, senza aspettarsi arida eco di un rimbrotto o scoppio di un lamento. 
A regger sogni prima di ogni volo. Ad essere capaci di liberarli senza nessun dolo.
A far di ogni bisticcio allegra confusione, ché non esiste torto se non c’è ragione.
A dichiarar la pace contro ogni urlata guerra, a perdersi di rotta e guadagnare finalmente terra.
M’accorgo che è già l’ora di rientrare, che il tempo che è passato non lo puoi più fare approdare.


giovedì 17 luglio 2014

Luglio, Palermo che ti sfoglio


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Ilaria Guccione, Luglio (Palermo, luglio 2014)

Sono giorni che in fondo qui non ci si lamenta di niente. Il caldo è sopportabile, di morti eccellenti non ce n’è. Il fetore della munnizza ci solletica l’olfatto in punta di sacco. Accatastiamo malcontenti per rimanere fermi. Sono anni che qui ci si lamenta il giusto, quello che ci concede smorfia e voce alterata seduti al bar o in piedi sventolando una bandiera.
Sono giorni che inciampo. Nei festeggiamenti insulsi altisonanti, nei riti bacia la reliquia senza senso, nelle facce gonfie e tronfie delle istituzioni che a forza di botti e luci e avemaria cercano il consenso. Nelle mie storie di un eterno ieri che si aggrovigliano per farmi meglio dispetto e compagnia. E allora le parole mi fallano e annego in quelle degli altri. Affondo nei gesti e negli occhi, le voci le tralascio, scatto e allungo il passo e trattengo il fiato.
Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido, esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. Ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti che bruciano sopra Bellolampo. *
Inciampo anche in Consolo e in una parziale autocitazione di queste frasi, rileggendo dopo più di dieci anni Lo spasimo di Palermo, a pronunciarla è un giudice, baffi e sigaretta perennemente accesa, che lo aspettava un cattivo finale e lo sapeva bene da tempo.
Il libro torna sullo scaffale lasciandomi le stesse sensazioni della prima lettura, che quelle parti sul Judex** in carne e ossa e brace siano forzate.
Palermo è fetida, infetta. Sono parole che Consolo aveva scritto ne Le pietre di Pantalica, pubblicato nel 1988 ma è il 14 luglio del 1982 quello che lo scrittore racconta nel suo vagare per Palermo il giorno del festino della santa improbabile, quello del delirio da mondiali, quello in cui il prefetto, faccia di carabiniere, piemontese tutto d’un pezzo chissà che avrà pensato a trovarsi ficcato in questa sfaldata, disfatta parata di baroccume isolano. Sicuramente da settembre di tempo per pensarci non ne ha avuto più.
Tra una via misera e una ricca e una camicia di seta in vendita per un politico o un mafioso non è cambiato poi molto. Qualche vecchio negozio ormai chiuso, del sangue in più qua e là versato, quell’orrido palazzo Quaroni buono per la gente dello sfarzo e per le casse della curia e cattivo per gli occhi, quelli miei di sicuro e sempre copiose lacrime di coccodrillo ad alternar colore e frasi per buona parte dell'anno.
Una lapide ci garantisce il paese, o un’ombra, un’impercettibile macchia di unto su una parete, su una pietra, su un tronco d’albero incenerito? Non resterà di noi neanche una vuota, dorata carcassa, come quella della cicala scoppiata nella luce d’agosto. Non resterà compagna, figlio o amico; ricordo, memoria; libro, parola.

* Vincenzo Consolo, da: Le pietre di Pantalica, nell’omonimo racconto, come le altre citazioni.
** La serie diretta da Louis Feuillade (1914) che è per Gioacchino Martinez/Consolo ne Lo Spasimo di Palermo un legame col passato che si riallaccia col presente, con la fine di un sogno bambino e con quella del giudice Borsellino.


mercoledì 9 luglio 2014

Mi chiesi pazienza


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Ilaria Guccione, Sembra un angelo caduto dal cielo (Palermo, luglio 2014)

Quante volte mi chiesi pazienza ma poi non sopportai tutto quell’aspettare   rimanendo ferma e me ne andai soffiando indifferenza.
Ci riprovai nel farsi alta stagione ma mi costò un po’ troppo pagare in delusione.
Ci riprovai annegando in più bicchieri il desiderio e il vanto ma niente che arrivasse ed io a chieder sempre tanto e deglutire infine disincanto.
Ci riprovai tentando misurato salto ma frantumai i miei sogni sull’asfalto.
Mi si spezzò la rima, capii che niente torna come prima.
Non mi rimase che bastarmi, ché solo io lo so come aspettarmi.

giovedì 26 giugno 2014

Palermo, o cara


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Ilaria Guccione, Bellezza in bicicletta (Palermo, giugno 2014)

A volte ci si ritrova nel tempo accelerato della strada, anni su anni che son passati e te li devi raccontare in una manciata di minuti e ci si prova ad accorciar distanza per poi capire che il tempo è andato e non lo puoi scontare.
E’ un dirsi sorridente e concitato che in fondo non è male quel che male è stato, che è meglio non pensare a tutto quel passato.
Ed io che saluto e continuo ad andare e troppe parole da spendere e nessuna che tu possa comprare e pensieri che lacerano la testa per la furia, singhiozzo inopportuno ad ogni inciampo di memoria, eco dell’eco che non ricordo più di cosa ma ci ricasco sempre e mi rifletto muta.
Palermo, o cara, che ti percorro e non mi trovo. Che c’è sempre qualcosa che muore, qualcuno che non fa in tempo a salvare, un’idea che non sa più come volare. La paura che il troppo amore si perda, che ci rimanga niente da dire e poco da fare e quel che avanza è solo merda.
Palermo, o cara, che ansimi e traballi, che ti dicono aperta e ti chiudono i cancelli, Palermo mezza bellezza e tripla monnezza, Palermo vinta d'assedio, Palermo che muori di tedio mentre qualcuno aspetta e spera.
Palermo, o cara, noi lasceremo. E’ un’aria che sono giorni che me la canto a voce stanca e disarmata e so che quel poco che mi vale.

mercoledì 25 giugno 2014

Ci racconteremo

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Ilaria Guccione, Scrutare (Palermo, giugno 2014)

E poi ci racconteremo.
Che per raccontarci il tempo non ce l’avevamo, che il tempo ce l’ha fregato sempre l’altra gente, quella più frivola e incostante che gira intorno a tutto e noi non ci saluta e non ci dice niente.
Ci racconteremo. 
Che inghiottono parole a ogni tramonto le vite separate da un istante che pensi che ritorni ma lui ti sa fregare e non è mai costante.
Che abbiamo mancato sempre il gran momento rimescolandolo con quel saperci dare di tormento, che a dirti cosa fosse dopo tanto tempo qualunque cosa ti rispondo so che adesso mento.
Ci racconteremo che ripartiremo, che dovunque andremo non ritorneremo, che il futuro è un tempo storto, che tu l’aspetti immobile e intanto lui è già morto.
E poi  verrà una sera che ci rideremo.
Su quel colmarci e toglierci che sa contare gli anni e noi che perdevamo il passo a viverci gli affanni.


lunedì 16 giugno 2014

A tutti quelli che

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Ilaria Guccione, Giocare a far l'artista con la spazzatura degli altri (Palermo, giugno 2014)
 
Agli ipocriti, agli insoddisfatti, ai nullapensanti e ai troppotenenti, a quelli che mi accontento della prima cosa che mi passa a portata di convenienza. 
A quelli che a sopravvivere ci riescon da dio, è vivere che gli crea troppi problemi e fino a cosa sei non san contare.
A quelli che lanciano in alto belle parole che battono false il marciapiede, a quelli che a spendersi in verità perdono punti per gli sconti di fine stagione, a quelli che sanno amare solo il luogo comune perché a ritrovarsi soli per strada si perdono.
A quelli che hanno il sorriso sbiancato dei giorni di festa e se lo portano in giro nei giorni feriali come un ingombro necessario per concludere i propri affari e farsi quelli degli altri.
A quelli che fanno dell’immondizia degli altri un’arte, a quelli che fanno dell’arte immondizia, a quelli che alle prossime elezioni vedrai e comunque è sempre colpa di chi non vota.
A quelli che hanno sempre vinto tutte le volte che hanno perso.
A tutti quelli che ad incontrarli non vale mai la pena mia.

sabato 7 giugno 2014

Cose che caso mai

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Ilaria Guccione, Porta pazienza (Palermo, aprile 2014)

Cose che cose che mai cose che se ci pensi lo sai che non le sai.
Cose che non le hai, ché quando affaccia desiderio non le trovi mai.
Cose che non le so contare, che si fa sempre tardi il tempo di aspettare.
Cose che vorrei dire e già mi accorgo che è ora di finire.
Cose che cerco di spiegare ma posso solo raccontare.
Cose che cambiano, cose che restano, cose che non l’avresti mai detto, cose che non l’avresti più fatto.
Cose che forse non era il caso, cose che dice che ci nasce cosa ma vai a capire in quale casa.
Cose che le si dice d'altro mondo e non ci posso più arrivare ma ci rigiro ancora intorno, ché non mi so fermare.


martedì 27 maggio 2014

Confidenze

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Ilaria Guccione, Confidenze (Palermo, aprile 2014)

Ci sono giorni che l'unica cosa che puoi fare è restare seduta ed in sala d'attesa del desiderio consumarti a guardare quanta gente che arriva, quanta gente che va e nessuno che ti veda nella sua fretta e nessuno che si fermi per te. E aspettare, occhi tuoi a farsi grandi di speranza e sorriso dell’altro che sempre lo manchi. Che qualcosa succeda anche a te, che non faccia più male.
Come in un film francese in bianco e nero che ormai lo conosci a memoria.
Ci sono notti che occorrerebbe un salto da un qualunque ponte della fantasia per annegare l’ingombro del pensare, il non so che cosa mi potrà mai arrivare, il dubbio che s’accende intermittente, la dolcezza che soffia e soffia e lei intanto ti spegne. L’andare avanti, il ritrovarsi indietro. Il domandarsi troppo e il non risponderti niente.
Come in questa vita che mi scorre in bianco e nero, che il finale mi manca e più lo cerco e più mi sfianca.

venerdì 23 maggio 2014

Prima li ammazzate e poi li ricordate

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Ilaria Guccione, Aggiustare il tiro (Palermo, aprile 2014)

Prima li ammazzate e poi li ricordate. E dopo con un occhio li piangete e con l’altro controllate che non ci siano macchie sulla cravatta prima di sfilare.
Quello che vi interessa ricordare è che l’essenziale sia da scordare, alleggerire, allontanare.
Presidenti, ministri, navi della legalità che da casa mia le sento approdare, bambini che pure dall'America li fanno arrivare, cantanti, personaggi televisivi.
La festa, la gita, il cabaret, i buffoni, i baroni, le istituzioni e le intitolazioni. Gambe e gambe sulle quali le tensioni morali non le ho mai viste camminare.
Giovanni, che l’hanno fatto fuori un giorno di maggio che era un sabato dei miei vent’anni.
Giovanni, che è nato a due passi da quella piazza Magione in cui ci trovi in mezzo a un prato un cippo piccolo piccolo con un’iscrizione misera misera che strica e strica (l’ultima volta un mese fa, ché ci avevano scritto suca sbirri, grande Totò e non pensavano certo al calciatore Schillaci)  quasi non si legge più e forse è meglio, che ti dice che qui nacque Giovanni Falcone, con gratitudine e devozione. E ti hanno fatto pure la rima ma se ne vuoi godere ti devi mettere d’impegno a cercare. Il padre Pio abusivo, quello lo trovi subito che è parecchio grande.
Piazza Magione, che sei alla Kalsa. Kalsa che ci incontri i bambini, pallone sotto al braccio e campetto di calcio sgangherato che le reti non stanno più in piedi e loro si arrangiano su un qualunque prato, ciuffo biondo sulla testa scura e una maglietta lisa che gliela vedi addosso per settimane intere.
Che hanno un padre in carcere e conti da fare che non gli bastano le dita e sogni uguali agli altri bambini ma sugli incubi non ci giurerei.
Che su una nave non ci sono mai saliti,  e l’albero Falcone gli viene centomila passi e vite lontano, che non lo sanno chi è quel Marlon Brando con la faccia da padrino su una maglietta da business turistico. Che non lo sanno chi è quel Falcone che fa l’eroe  involontario su una maglietta da business pseudo sociale, che solo quel chiamarla aria di casa nostra a me fa venire da vomitare.
Che ti incontrano al supermercato e dicono all’amichetto che ti hanno conosciuto una domenica che tu hai portato macchina fotografica e  maglietta con un mago cattivissimo e loro l’hanno sconfitto a pallonate.
Che somigliano a quelli fotografati da Sellerio nel 1960, che se ti fai due conti rapidi alla sicula, saranno i loro nonni.
Che quando te ne vai e li saluti, ti danno un bacio e si fanno promettere che tornerai.
Quelli che non se li filano tutto l'anno, figurati oggi che sono tutti a ballare sotto il palco, a due passi dalla casa di Falcone, mentre Gianni Morandi e Rocco Hunt cantano.
Ma tutti quelli che hanno provato ad aggiustare il tiro son fortunati: dormono sotto terra da decenni e non li possono sentire.










lunedì 19 maggio 2014

Che la memoria tua ci inciampa

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Ilaria Guccione, Cose che dimentico (Palermo, maggio 2014)

Ci sono luoghi che sanno di condanna tutte le volte che la memoria tua ci inciampa.
Geografia impervia del ricordo, che sali e scendi e non sai mai da quali altezze ti difendi.
Puntata persa che non l’ho mai giocata, numero che la fortuna non m’ha mai baciato, indirizzo che nel frattempo tu niente hai detto e l’hai già cambiato. Frase che sa andare solo di fretta, parola mia che ormai dove vuoi che la metta.
Sogno che più non ti sogno perché non hai ritegno, io che ti ho consegnato il mio mondo e tu che non mi hai lasciato niente in pegno.
Storia che ancora siamo qui che ci incontriamo ma forse non ne vale la mia pena e intanto ci scontriamo.
Storia che lo sai che ti tengo da conto e finisce che sempre parto e ti racconto.

lunedì 5 maggio 2014

Sognare


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Ilaria Guccione, Il sogno di Innocenzo III (Palermo, aprile 2014)

Aspettiamo che le cose le cambino gli altri, per non muovere un passo che ci possa contare.
Alziamo la voce perché superi il volume della tv ma rimaniamo spenti se c'è qualcosa da poter cambiare.
Esageriamo sempre perché qualcuno senza demerito ci possa notare.
Ci concediamo parentesi grandi nel nostro non concederci niente.
Ci acquattiamo nel luogo comune perché nessuno ci possa trovare e chiamare per nome, per mancare giustificati ad ogni appello e continuare a dormire.
Ci regaliamo un senso che è quello che basta per non dirci diversi e non farci peccare in azione e fantasia.
Ci arrampichiamo, fin dove si può per non farci troppo male alle dita smaltate da non consumare nel giorno di festa, in quel tempo che hanno detto che poi non va così male e non ha senso lottare.
Ci lasciamo senza volerci dir niente, senza saperci più sognare il presente.

mercoledì 23 aprile 2014

Passerà

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Ilaria Guccione, Me ne vado (Palermo, aprile 2014)
 
Passerà questa pioggia che bussa fitta a inumidire pensieri raffermi e ostinati e scarti di fantasia che neanche li sfiori e già ti scivolano via.
Passerà la parola abusata e ne faremo silenzio per i giorni di quiete ed il sogno che si dice leggero.
Passerà il passo pesante che batte il suo tempo mancato per strade oblique di malinconia.
Passerà la canzone che non so più ascoltare, a spezzare ogni rima che mi tengo a memoria.
Passerà il caro nome sillabato, il gioco del sipario calato troppo in fretta, l'inutile canto delle ore ad aspettarsi tanto e regalarti niente.
Passerà tutto questo dolore stonato che c’è, m’attraverserà la strada nell’ora dell’ombra e del caffè salutandomi fiero col rumore che so.


lunedì 14 aprile 2014

La resa


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Ilaria Guccione, Accanto (Palermo, giugno 2013)

E poi non fu più tempo d’imparare, si seppe solo correre sottrarre cancellare.
Ogni gesto si perse nell’ansia della fretta, si calpestò la frase più corretta, esplosero silenzi ridondanti per celebrare i ricordi più importanti.
Ci si ingannò tra il tempo abile a passare e quel gesto che non sapeva più come tornare.
Si sussurrò incredula preghiera per ritrovare almeno il senso del ritorno nella sera.
Pavidamente si dichiarò la resa per rendere superflua ogni futura attesa.


sabato 5 aprile 2014

Maledetto il giorno

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Ilaria Guccione, Piovono fiori (Palermo, marzo 2014)

Maledetto il giorno. Quello degli abbracci a perdersi le ore e saltar gradini senza danno e con innocenza prenotarsi le occasioni senza affanno. Quello che t'oscilla sotto un cielo che promette passo ebbro di allegria, quello che ti fa gli incontri buoni e al tramonto li abbandona in un affondo di malinconia.
Maledetto il giorno che t’ho raccontato che non t’ho trovato che t’ho rimandato che t’ho salutato che non t’ho lasciato, sottotono t'ho cantato e mille notti ancora t’ho aspettato.
Maledetto il giorno che m’hai prenotato che m'hai musicato che m’hai strattonato che m’hai accelerato che m’hai allontanato, chiuso l’occhio della meraviglia m’hai dimenticato e sulle labbra m'hai sparato e il mio sorriso l'hai dimenticato.
Maledetto il giorno, quello che tutto si ricorda ma non sa più il ritorno.

venerdì 28 marzo 2014

M’attendo

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Ilaria Guccione, Passo mesto (Palermo, marzo 2014)
 
Non sapendo. 
Se si perda andando via o rimanendo.
Se si vinca senza mossa o ritornando.
Quanto costi al cuore far di conto col rimpianto.
Se abbia un senso il mio vagare sempre amando.
Io m’attendo. 
Contro il mondo me la rido e me la piango.
Come quando nelle notti senza sogno mi rimando.
E ogni volta che mi tendo poi mi scucio e mi rammendo.

mercoledì 26 marzo 2014

Di parole ne avrò

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Ilaria Guccione, Cerchiamo di non perderci (Palermo, luglio 2013)
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
(Eugenio Montale, da: Non chiederci la parola che squadri da ogni lato, in Ossi di seppia)

Di parole ne avrò. Per il tempo affrettato del saluto che mi manca sempre un fazzoletto candido e lieto, per il giorno infinitamente sospeso che mi piovono sopra domande affilate e per l'ora dell'assenza che strascica pensieri su un bisticcio di passi.
Di parole ne avrò.
Astruse per sciogliere il dubbio tra ostinate consonanti mute. Ed urlate all’offesa per non rimordersi nulla e rubate al ricordo che va, sillabandomi sempre il ritorno.
Di parole ne avrò storte e ferite. Sdrucciole nella caduta, tronche per ogni commiato e piane per i giorni leggeri che ancora non so.


mercoledì 19 marzo 2014

C’era una volta

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Ilaria Guccione, L'urlo (Palermo, giugno 2013)

C’era una volta che il ridere soffocava ogni lamento e a camminare insieme si saltava l'ostacolo che dice malcontento.
Che si sognava sempre più lontano e non faceva mai paura l'allentar la mano.
Che si sapeva il gesto lento dell'attesa e ci si negava quello scuro di ogni resa.
C’era una volta qualcuno che non racconta più.
C’era una volta che non ricordi più che quella storia lì la raccontavi tu.

mercoledì 12 marzo 2014

Riflettendo

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Ilaria Guccione, T'attendo (Palermo, marzo 2014)

Attendendo. Fino a quando e quanto perdo se rimando.
Se rimango cosa resta. Forse il sogno sulle labbra già sfumato e canzoni inopportune nella testa.
Risalendo. Perché mai ogni santa volta sempre sola ridiscendo.
Se un bel giorno poi m’accendo. Quando manco il sonno non distinguo mai che cosa spengo.
Se rinuncio quanto spendo. Chi sa dirmi quanto conto se alla vita non so mai conceder sconto.


sabato 8 marzo 2014

Preferisco un ballo lento

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Ilaria Guccione, A piedi nudi nel parco (settembre 2013)

Frasi che a pronunciarle nella noia graffiano il niente e niente avanza, ricordi che i giorni di pioggia ci scivoli indolente ma ti ricordi ancora come mi parlavi un tempo? Quello che il passo ti portava sempre più vicino nell’allegria del prima o poi ci arrivo e già lo so che non mi trovo e già lo so che non mi fermo e sì lo so che tanto ti ritrovo a quell'incrocio sbilenco di senso.
Quanta malinconia persa in partenza e ritrovata ad ogni sosta del pensiero respirato piano e gli occhi a raccontarsi tanto che pare sempre poco in questo mondo, ché ti pretende il plauso a capo chino ed il sorriso finto ed il forzato inchino e ci si soffoca ogni incanto e non si dice mai il rimpianto. 
Io preferisco un ballo lento che nessuno me lo insegna, un andarmi sempre contro fino ad inciampare in quel sonno che non vuole più tornare ed un abbraccio che non so dimenticare e battito accelerato dalla fantasia e tutta quella confusione che riconosco ancora mia.


 

lunedì 3 marzo 2014

Chieder poco è sempre viver male

Ilaria Guccione, Donna alla Kalsa (Palermo, luglio 2013)

Vogliatemi bene,
un bene piccolino,
un bene da bambino,
quale a me si conviene,
vogliatemi bene.
(Cio-Cio-San a Pinkerton, da: Madama Butterfly, di Giacomo Puccini)

Chieder poco è sempre viver male. Che te ne fai di un bene piccolino, di una promessa a metà in cambio di un amplesso a tempo determinato, ragazza dagli occhi che dicono Oriente e cuore e cosce che ancora non san niente. Eppure la tua storia è sempre quella. Quella che John Luther Long la fa iniziare, poi passa per David Belasco, si fa musica con Giacomo Puccini e diviene film ancora privo di parole con Fritz Lang.* E sempre il solito finale, quello che ti fa perire di pugnale, a voler tacere di recenti messinscene in cui ti ammazzi con un colpo di pistola, che pare sia moda il melodramma far moderno a rovinar la storia.
E tutta questa gente intorno che la sua storia se la scrive da sé e si bea di beni piccolini, che pare che a contarsi il poco tra stipendio e appartamento ci si scordi facilmente di quel tanto che non s'è mai cercato né desiderato. Si resta tutti insieme ad ascoltar canzoni piccoline, ad avvinghiare amori piccolini e film piccolini da ammirare e giorni piccolini da lasciar passare.


* Madame Butterfly, 1898; Madame Butterfly, 1900; Madama Butterfly (libretto di G. Giacosa e L. Illica), 1904; Harakiri, 1919.

sabato 1 marzo 2014

A ritornarci per strada di memoria

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Ilaria Guccione, Supereroe (Palermo, febbraio 2014)

A ritornarci per strada di memoria, la via me la ricordo ancora. 
Ma il piano l’ho scordato, l’anello a far promessa l’ho perduto. 
Nel fondo di una tazza amara di caffè e avara di speranza, starà ancora ad aspettarmi in quella stanza che non ci so più tornare.
E chi lo sa se sia un bene o un male qualcosa trattenere e tutto il resto che da sé si lascia smemorare.
E chi lo sa se è meglio chi rimane o chi ritorna, mentre chi è andato altrove vira al nero e non lo puoi più raggiungere e t'avvelena a notte quel pensiero, che bussa quasi a far dispetto e dice fai uno sforzo che io sono qui che t'aspetto.
E chi lo sa se ci si possa apprendere quel tutto o niente che intanto siamo stati, a tazza piena bersi quel sorriso che non sa più di guerra ma com'è oggi il tuo viso che ormai l'ho sotterrato.
E chi lo sa quand’è che si può dire che il tempo che è passato é troppo ed è scaduto.
E allora non dovresti inseguirti neanche per lasciargli un bacio ed un saluto ma dormirci su ad ogni dettaglio perduto e rimestar bene quel che ti sai dell'amore accaduto.
E chi lo sa ad incontrarsi in giorno di mercato, cos’è che all’occhio tuo resiste ancora e quello mio lamenta ormai sfocato.
E chi lo sa come oggi ci risuona nostalgia, se duole più in rumore o in voce muta, se sono ancora qui o nel cercare inutile di te mi sono già perduta.


giovedì 27 febbraio 2014

Storia che non è storia

Ilaria Guccione, Un fil di fumo (Palermo, febbraio 2014)

Storia che non è storia finché non la racconto.
Storia che nell’andar di giorno la rimando.
Storia che nel fermarmi a sera la rammendo.
Storia che a notte fonda bussa e senza voce dice: il mio lamento ascolta e canta.
Storia che a male dirla disamora, storia che troppe vite mi rigiro e sempre m’addolora.
Storia che a ripensarla ci perdo a turno il sonno e il senno.
Storia che a fil di cuore spira vento, spavento sogna, spara tormento.
Storia ca si la sai anche tu cuntamilla chista sira, ca sugnu prisa da li mali mille pinsera.


lunedì 24 febbraio 2014

Ogni meta sta a metà del viaggio

Ilaria Guccione, Vietami l'ingresso ma non la sosta (Palermo, febbraio 2014)

Fingere. Di arrivarci per caso alla meta per salvarne metà e continuare ad andare, ché c’è sempre un altrove migliore da poter abbracciare.
L’attesa me la canto sulla punta delle dita.
Spezzare in proprio favore non lancia ma capello, tirar sasso contro ogni pensiero molesto, non dire mai battuta che sappia di arresto.
L’amore me lo conto ad ogni mio sciancato passo.
Pensare sempre male e non dir mai bene, non scegliere di fare quello che conviene, frantumare ogni divieto dell’entrare, che così soltanto si riesce ad avanzare.
Ogni meta sta a metà del viaggio, per chi ha memoria salda e dose buona di coraggio.
Sono andata lontano, sono sempre tornata, mi son persa cento volte d'animo e casa ma mi son ritrovata.
 

mercoledì 19 febbraio 2014

E chissà

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Ilaria Guccione, Diritti, lavoro, legalità? Di chi, di come e quando (Palermo, febbraio, 2014)
 
Sapete cosa penso? Che ognuno di noi è stretto nella propria trappola, avvinghiato. E nessuno riesce mai a liberarsene. E mordiamo e graffiamo ma solo l’aria, solo il nostro vicino. E con tutti i nostri sforzi non ci spostiamo di un millimetro.
(Norman Bates/Anthony Perkins, nel film Psycho di Alfred Hitchcock)

E chissà dov’è finito il miglior fiato, quello che potevamo urlarci meglio contro ogni lontananza e chissà l’eco se ripetendo conserva memoria di quelle frasi che non sappiamo più pronunciare, se il piede adesso sa saltare il fosso e risolvere l’errore sempre uguale, se ci avanza l’occhio buono aperto sul presente per godere del sole e di un ricordo che a raccontarlo agli altri dice sempre che è da niente.
E chissà se l'orecchio buono sa fermarci ad ascoltare, se la pietà conserva lo stesso colore, se la rabbia si fa ancora manifesta ad ogni ingiusto incrocio, se sappiamo rinunciare a svoltare in quei vicoli che puzzano a compromesso e inganno eppure li ritrovi tutti lì che transitano, a lucidarsi quel paio di parole che commuovono tanto tra fiato loro ed altrui suole.
E chissà se noi sappiamo continuare a dirci piccoli mentre cerchiamo di costruir qualcosa che possa farsi grande.

lunedì 17 febbraio 2014

Scegliere è sciogliere

Ilaria Guccione, Coperti (Palermo, gennaio 2013)

Scegliere, che è come dire che qualcosa riesci sempre a sciogliere.
Almeno un paio dei mille dubbi che t’annodano la storia che ormai da troppo ti sta stretta in gola, la prognosi che si gioca in riserva la tua ansia e tu che non sai ancora di quale morte vivere e loro che non ti vogliono aprire spiragli di speranza.
La tensione della trama che s’è fatta sfilacciata in confusione e polvere e tutte quelle battute a perdersi, che tu le sapresti recitare a memoria ma ti dicono sempre che hai sbagliato copione, che è altrove che devi sbatterti e cercare e non si sa mai bene fin dove dovresti arrivare.
Sarà meglio lanciare moneta e non guardarla cadere, avanzare di passo nel buio, concedersi un quartino d’illusione nell’attesa del giorno che tutto può cambiare.
Risparmiare le virgole per correggersi in pausa, continuare a puntare il bersaglio, ostinarsi ad infrangere i veti e di ogni schianto non aver paura e non offrire mai nessuna resa.

venerdì 14 febbraio 2014

Passa che tutto passa


Ilaria Guccione, Quando la banda passò (Palermo, marzo 2013)

Passa che tutto passa, passa la banda del giorno di festa e la gente che si porta per via la sua fretta molesta.
Passano gli entusiasmi del giocarsi bambini, l’allegria compagna dei vent’anni, il pianto che sa di troppo sale ad ogni funerale e tutto quell’andar storti di passo cuore e sguardo, che te lo chiamano malinconia ad ogni età in cui inciampi.
Passa il bicchiere pieno e pure quello vuoto che qualcuno lesto te l’ha già riempito e resta il letto che intanto s’è fatto più leggero e lo scopri nell'ora del sonno maldestro, ché nessuno per tempo ti ha avvertito.
Il passato l’ho incontrato una sera a un incrocio, col suo colore grigio da cappotto invernale e voce che anche ad averci gli occhi chiusi non ti potevi sbagliare. Mi son costretta lenta nell'andare, che non avevo un saluto fasullo da donare, che non avevo nulla da fargli ricordare.
Sarà che sono io che non imparo niente, sarà che il desiderio passa ma io non so dimenticare.

lunedì 10 febbraio 2014

Cos'è lontano?

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Ilaria Guccione, Fauci e martello (Palermo, febbraio 2014)
 
La gente non si capisce da sé e figurarsi se sa capir te. Te la ritrovi raggomitolata nel suo mondo scontato, a far la ruota tra citazioni che te le regala saputa in unica emissione di fiato.
Son tutti lì a raccontarsi innocenti, son sempre pronti a lamentarsi scontenti.
E guai a dirgli che la vita è cosa diversa, ché gli diventi facile bersaglio e ti sfinisci a far di conto col loro vuoto ad ore e con la tua infinita pena.
Ma tu che pensi alla vita come cosa assai seria, non t’identifichi in quell’arcinota baldoria. Aspetti ancora il fischio di un treno da prendere al volo, un capitombolo al buio per trattenerti quel suo sorriso dell'ultima ora, un'ombra cara da respirar piano fino al calar della sera, una contusione del sentimento che ogni giorno ci sbatti contro eppure non urli odio a nessun vento contrario e continui a sognare di sapere andar lontano.
Lontano è davvero un paese che non ti do la mano? O è un'ipotesi di quiete se m'ascolti la voce, il sapersi scivolare incontro, il tempo buono per farsi pace e vaffanculo a quel che la gente chiama mondo.


domenica 9 febbraio 2014

Sappiamo solo crollarci addosso

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Ilaria Guccione, Sappiamo solo crollarci addosso (Palermo, febbraio 2014)
 
Che t’accusa di averlo perso e tu pensavi di averlo battuto, che t’incolpa d’averlo ammazzato e tu ancora convinto che l’hai trattenuto.
Tempo che se ne va senza concederti un saluto. Tempo che hai chiuso gli occhi il tempo necessario per ricordarlo meglio, che vorresti dirgli almeno qualcosa e invece sai solo restar muto.
Gira e rigira, il gatto. Rosso di pelo che sembra uscito dall’ultimo film dei fratelli Coen, bello e pasciuto che sa di casa, lesto di zampa gira e rigira per la piazza deserta di parole sensate. Dribbla veloce tra le macerie e, dopo una passerella elegante sul muro, si tuffa in quel mistero di rifiuti che pareti ancora in piedi lasciano solo intuire e poi te lo ritrovi tra le gambe. Come a dire au revoir a voi che ve la smarrite la via di casa dopo due passi lenti in fila, che la paura vi falla la memoria, che l'arroganza vi fa calpestare ogni storia, io sì che la so la strada per tornare.
Sappiamo solo crollarci addosso. Che così si piange meglio, che così si ha sempre pronto un motivo di lamento. Che così si vive meglio, che così ci si può spolpare fino all'osso. Che così ci si fa viziare dal più comodo punto di vista e rimanendo immobili ci si lascia andare.

venerdì 7 febbraio 2014

Vucciria shooting

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Ilaria Guccione, Il muro di Palermo (Palermo, febbraio 2014)


Pezzi su pezzi, pezzi di pezzi intorno. Solo pezzi rotti dentro. Raccogliere tutti i pezzi per aggiustarsi. Avere colla buona che odora di pazienza e tempo. E dita che sanno coincidere e coincidenze che ci toccano. E aspettarsi che poi manchi ugualmente qualcosa, ché il lieto fine è gioco da film e ci si aggiusta solo al peggio.
Sappiamo solo crollarci addosso. Che così si vive meglio, che così ci si può spolpare fino all'osso.
 
A piazza Garraffello questo pomeriggio sembrava di essere sul set di un film. No, non è Wim Wenders che è ritornato in Vucciria, che solo chi vive qui può capire come abbia fotografato la nostra realtà, è che la realtà sa sempre farsi grande in fantasia.
E allora per un attimo quasi ti dimentichi che il 5 febbraio alle 21.43 un boato ti ha invaso la casa, che una palazzina a due passi da te è crollata. Ché era stanca di viver di stenti in una piazza trascurata, non ne voleva più sapere di spazzatura elevata ad arte e di bordello notturno che te lo chiamano movida a lasciarle ogni notte altra spazzatura sotto il prospetto, non voleva essere cool, voleva stare in pace.
Va a finire che le cose si ribellano meglio e più delle persone. Va a finire che è meglio il suicidio di mura e tetti che l’aspettar aiuto e salvezza dagli uomini. Cronaca di un crollo annunciato e finalmente il silenzio tanto agognato. La casa vibrerà soltanto nel ricordo, mai più per quelle aggressioni da troppi watt che continueranno a fregarmi il sonno, ché si era offesa di quel suo stare in attesa, di aspettare un impossibile meglio. Che si sa come va, è meglio un crollo di un "il tuo star male io m'accollo".
Dice che stanno murando la piazza e allora non posso non andare a spalancarci gli occhi mentre mi chiedo se io mi ritroverò a Vucciria Est o Vucciria Ovest. L’operazione muro, che in concreto vuol dire elevare mura per bloccare cinque accessi, è stata interrotta in fase 3 ad altezza che perfino io posso scavalcare perché i gestori dei malmessi pub si sono insediati nella piazza. Ché quelli non l’hanno ancora capito che non è il caso di far feste e festini questo fine settimana. Di fare rumore, di spargere fumo. Di fare rumore, di annusar polvere. Che loro dice che si guadagnano onestamente da vivere, me lo ribadisce un ragazzino che ci tiene a dire che lui è l’unico incensurato e gli scappa un sorriso storto d'orgoglio e mica si gioca la fedina penale per far resistenza. Mentre una ragazzetta ben vestitina e truccatina fa finta di niente e solo ad alterco finito tra me e lui ci dice che va a scrivere l'articolo. E me lo potevi dire prima perché ci davi le spalle, che ti dicevo anche che penso dei giornalisti.
Ho visto gente nata e cresciuta qui piangere con un occhio davanti alla rovina, e con l’altro sorridere all'idea di un bel parcheggio costruito al posto dei palazzi della piazza.
Ho visto poliziotti rigidi nella divisa passeggiare sorridenti e snodati giocando alla messa in posa con le macerie sullo sfondo e uno di loro, accento meridionale ma meno di quello che mi appartiene per nascita, dirmi che sì, stiamo qui un altro po’ ma poi ce ne andiamo.
Ho sussurrato a quel che resta e dai urla qualcosa, di' la tua adesso, non aspettare ancora, crolla finché puoi ma fallo ora.
Nel silenzio, nel gioco, nell'inesistente battagliare. Ho sentito il mio amore profondo fare a pugni col mondo. Son tornata a casa pensando a quelle tre galline spennacchiate da spavento che se ne infischiavano di tutta quella ridicola gente e continuavano a becchettare frammenti di tufo e cemento.


giovedì 6 febbraio 2014

Deflagrazioni

Ilaria Guccione, Accura! (Palermo, febbraio 2014)
 
Pezzi su pezzi, pezzi di pezzi intorno. Solo pezzi rotti dentro. Raccogliere tutti i pezzi per aggiustarsi. Avere colla buona che odora di pazienza e tempo. E dita che sanno coincidere e coincidenze che ci toccano. E aspettarsi che poi manchi ugualmente qualcosa, ché il lieto fine è gioco da film e ci si aggiusta solo al peggio.
Sappiamo solo crollarci addosso. Che così si piange meglio, che così si ha sempre pronto un motivo di lamento.
 
E gli eventi scontati ad incrementare nausea e a rimuovere appetiti stentati: i tg delle rassicurazioni, i presidenti che si raccomandano e si approvano, gli amori sintetici, i pentimenti asfittici. Trionfano le rappresaglie, per ogni dove, apotropaiche. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E il deprimente apparire, il qua qua qua… sono qua sono qua sono qua. E come sempre si scambia il cortile per proscenio. La logica del fare ha punteggiatura attenta e allora la tieni a distanza, ché ogni messa a punto ti spaventa, pensi di capovolgerla e invece ti ritrovi a camminare sulle mani. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E le eccezioni sotterrate per eccesso di stupore che a turno fai rimare con terrore o rancore. E’ la necessità superflua del gioco, l’ostinazione del giocatore che persegue regole malintese. E ti ritrovi di nuovo a camminare sulle mani mentre trattieni il fiato o ciò che più gli somiglia e perdi il passo, l’ora e il marciapiede. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E il sottinteso del dubbio, l'arte del peccatore, il pensiero che cigola e la testa che sbatte dove il ricordo duole. E’ il sorriso che zoppica, che anche se ti giri ha fruscio di tempesta. Ci sono notti in cui nessuna direzione ha senso, ché da altezze diverse si sa precipitare male. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E l’istinto del niente, quello che accende e consuma e quando ritorni non trovi varchi di parole. Sul tuo cemento si estinguono le ombre del “chissà come mai” e intermittenze e cortocircuiti autoreferenziali in prossimità. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E gli sproloqui nocivi al bel pensare. E riecco il demente qua qua qua… sono qua sono qua sono qua! E si riscambia cortile per proscenio. Il ben dell’intelletto ha respiro silente e un’unica parola per risposta, sottovoce: fottetevi. E’ il buonsenso dell’essere consistenti, l’approccio ripido dell’esserci. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E il dolore così stretto che non lo sai più misurare. E dita che per contarsi si scontano fino ad un luogo di tre lettere che non concede il rammendarsi, lì puoi solo scucirti il senso e dai che lo sai che ti riesce a meraviglia. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E l’approdo mancato, ché il dolore ti sfascia lasciandoti provvisorie anestesie nella memoria. Il luogo giusto non si disegna in spazi ma in accordi di senso, che se non ti navigano tra le dita non possiedi ritorni per nessuna partenza. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E la prima sigaretta che stordisce il dolore e tutto quel “faccio, non faccio per te” che desideri un deus ex machina che almeno ti soffi lui sul tormento. E l’amore che è un’eccezione da scommettersi solo se sai l’azzardo e puoi il respiro per trattenerlo oltre. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E dettagli che si appropriano di te e ti raccontano come questa pioggia fuori che dilata malinconie e tu ci credi e ti ascolti anche se adesso non piove. Ogni storia ha il peso della polvere, è il gioco del sottinteso che per capire ti scavi e rischi di soffocare e intanto collezioni graffi. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E il punto che non è punto se domanda. Puoi fingere di non ascoltarti e allora fai tre giri su te stesso, ché tanto lo sai che rimani fermo e ogni giravolta vale un alibi per invecchiare senza che nulla ti cambi. Così hai la finta leggerezza di un abito usato e ti puoi dire contento ad ogni sorriso nello specchio. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E beati gli idioti che son così certi di consistere e generano il nulla o il danno assolto. Non rassicura l’arte ma distrugge, ché ha necessità di fuoco e cenere. E soffriti i frantumi, intascali ché hai creato un capolavoro nel tuo farti guerra da solo. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E il beneficio del buio, la scatola chiusa, le labbra rimosse. Restiamo serrati a contare la rimanenza di un niente che ci facciamo bastare per giustificare con un “va tutto bene” il nostro essere fuori posto, come se un porsi di spalle ci potesse regolare il quieto vivere. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E il dirsi in controluce che è sempre meglio rinunciare, che così ti ripeti non sono mica fermo e la fortuna gira e già ti scordi che lei ti rovina ogni passo prudente e non precipiti lì dove tu sai, solo se il volo lo tenti. Sarebbe bastato un “ritorno più tardi”, una pistola puntata sul cuore e uno sputo per lasciarti dietro un distinto saluto. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E la convenienza del cazzo, quella buona solo per la censura bieca da bar del centro ma sbrigati che ho solo un quarto d’ora. E le tue scuse da caffè ristretto non le sento: ho il volume dei pensieri troppo alto e la condanna del “come se” da sotterrare con accuratezza. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E la coerenza, che non la trovi neanche di contrabbando. E’ il voler ficcare cocciuti il poi nel prima, l’infognarsi nella scarpa di Cenerentola o nei pantaloni dei tuoi vent’anni: come ad accusare il tempo di malafede quando non trovi più argomenti per la tua ridicola casina di sabbia. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E spargi e ancora spargi ma non semini niente, ché è solo pianto ed eco di sangue e se non l’asciughi da te saranno passi estranei a farlo. Più opportuno il pugnale che il pregare, più savio l’impazzire in questo mondo che si vuole lineare. Ti bacio nel ricordo, della tua lama farai buon uso anche tu, lo so. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E la condanna della normalità: come bussare a un portone che qualcuno decide sbagliato per te. O cambi indirizzo o sfondi, il frantumarsi la testa è compreso nel prezzo, il farmi posto è un optional, ché l’affezione al disordine è privilegio del coraggio. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E partenze che ripartono e ti immalinconisce quella smania del nuovo che ti sorrideva su una spalla, senza tregua. Ché ogni nuovo passo è un dono da rimestare nella memoria. E brandelli sovrapposti di tempo ti percuotono e a volte i colpi dolgono, sì che lo sai. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E continuiamo a viaggiare seguendo direzioni ribaltate per incontrarci meglio, assimilarci in pelle e fiato a giusta distanza tra le nuvole dell’andata e del ritorno. Solo così riusciamo a dirci che continuiamo a vivere seguendo quel movimento necessario che più di noi si ostina a ribaltare il Caso, ad ogni nostro saluto ordito in lontananza. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E il tempo che ti naviga ma non te l’aspetti, ché non ti puoi concedere pause dal pensare e allora te lo distendi e riconti la notte, come un abbraccio di passaggio che è già andato. Iperboli di cristallo da colmarti la memoria, solo se sai ancora soffiare sulla polvere. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E chiudi gli occhi e conta e girati lentamente: ci sono ombre stabili sul muro. E allora tieniti buona compagnia, ché ogni fine è convenzione inopportuna, tu continua a camminare e ricucirti aggirando ogni inciampo e ogni strappo. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E la solitudine da sillabare usando lettere per rime improprie. E no che non te la chiedo neanche una sigaretta e il marciapiede lo sbaglio con precisione da sempre. E allora non ci pensare, ché i miei pezzi sulle scale me li calpesto da me, con infinita premura. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E la divertente crudeltà delle coincidenze postume, quelle che osservi da due vite avanti. Tientela per mio cattivo ricordo, e che ti basti e avanzi. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E i due piatti della bilancia che tanto c’è comunque lo stesso materiale da pesare. E sempre qualcosa da pagare e in cambio ci si spesa a stento. E intanto meglio far finta di niente, sennò non puoi dire di stare in piedi mentre sei già caduto. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E tu che balzi come un vinile alla velocità sbagliata. E’ l’intoppo del tempo e di altro ancora, che tanto non intendi perché ti sfugge ogni parola. E scivoli allora e ti rabberci il senso nella tua testa che gira da sempre in controtempo. Il turbine, quello sì che ti rassomiglia e che lo sai sillabare. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E prefiche che assoldandosi da sé blaterano sfacciate omelie, scambiando il pisciare fuori dal vaso col demarcare un territorio come proprio: è il pensare becero che abbrancare un perimetro dia diritto a invaderne l’area, vivaddio prigioniera solo di sé. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E ciò che si dice appeso a un filo. E' il dilemma della scelta che si consuma tra l’essere Penelope o Atropo: o continui a tessere o recidi, è il ripetersi sottovoce che ogni scelta avviene per necessità. Gira quel filo, gira, avvinto fra le dita. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E l’inganno dei tuoi passi sul selciato che si perde nella sera, senza lasciare suono e traccia, ombra tessuta che non conosce trama. Se vuoi ti calpesto, ti oltrepasso se puoi. Conto uno ad uno i sassi che incontro. E’ sempre stato così tra noi, un lento incauto misurarci prima di ogni fuga. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.