Spider-Boy

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giovedì 27 febbraio 2014

Storia che non è storia

Ilaria Guccione, Un fil di fumo (Palermo, febbraio 2014)

Storia che non è storia finché non la racconto.
Storia che nell’andar di giorno la rimando.
Storia che nel fermarmi a sera la rammendo.
Storia che a notte fonda bussa e senza voce dice: il mio lamento ascolta e canta.
Storia che a male dirla disamora, storia che troppe vite mi rigiro e sempre m’addolora.
Storia che a ripensarla ci perdo a turno il sonno e il senno.
Storia che a fil di cuore spira vento, spavento sogna, spara tormento.
Storia ca si la sai anche tu cuntamilla chista sira, ca sugnu prisa da li mali mille pinsera.


lunedì 24 febbraio 2014

Ogni meta sta a metà del viaggio

Ilaria Guccione, Vietami l'ingresso ma non la sosta (Palermo, febbraio 2014)

Fingere. Di arrivarci per caso alla meta per salvarne metà e continuare ad andare, ché c’è sempre un altrove migliore da poter abbracciare.
L’attesa me la canto sulla punta delle dita.
Spezzare in proprio favore non lancia ma capello, tirar sasso contro ogni pensiero molesto, non dire mai battuta che sappia di arresto.
L’amore me lo conto ad ogni mio sciancato passo.
Pensare sempre male e non dir mai bene, non scegliere di fare quello che conviene, frantumare ogni divieto dell’entrare, che così soltanto si riesce ad avanzare.
Ogni meta sta a metà del viaggio, per chi ha memoria salda e dose buona di coraggio.
Sono andata lontano, sono sempre tornata, mi son persa cento volte d'animo e casa ma mi son ritrovata.
 

mercoledì 19 febbraio 2014

E chissà

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Ilaria Guccione, Diritti, lavoro, legalità? Di chi, di come e quando (Palermo, febbraio, 2014)
 
Sapete cosa penso? Che ognuno di noi è stretto nella propria trappola, avvinghiato. E nessuno riesce mai a liberarsene. E mordiamo e graffiamo ma solo l’aria, solo il nostro vicino. E con tutti i nostri sforzi non ci spostiamo di un millimetro.
(Norman Bates/Anthony Perkins, nel film Psycho di Alfred Hitchcock)

E chissà dov’è finito il miglior fiato, quello che potevamo urlarci meglio contro ogni lontananza e chissà l’eco se ripetendo conserva memoria di quelle frasi che non sappiamo più pronunciare, se il piede adesso sa saltare il fosso e risolvere l’errore sempre uguale, se ci avanza l’occhio buono aperto sul presente per godere del sole e di un ricordo che a raccontarlo agli altri dice sempre che è da niente.
E chissà se l'orecchio buono sa fermarci ad ascoltare, se la pietà conserva lo stesso colore, se la rabbia si fa ancora manifesta ad ogni ingiusto incrocio, se sappiamo rinunciare a svoltare in quei vicoli che puzzano a compromesso e inganno eppure li ritrovi tutti lì che transitano, a lucidarsi quel paio di parole che commuovono tanto tra fiato loro ed altrui suole.
E chissà se noi sappiamo continuare a dirci piccoli mentre cerchiamo di costruir qualcosa che possa farsi grande.

lunedì 17 febbraio 2014

Scegliere è sciogliere

Ilaria Guccione, Coperti (Palermo, gennaio 2013)

Scegliere, che è come dire che qualcosa riesci sempre a sciogliere.
Almeno un paio dei mille dubbi che t’annodano la storia che ormai da troppo ti sta stretta in gola, la prognosi che si gioca in riserva la tua ansia e tu che non sai ancora di quale morte vivere e loro che non ti vogliono aprire spiragli di speranza.
La tensione della trama che s’è fatta sfilacciata in confusione e polvere e tutte quelle battute a perdersi, che tu le sapresti recitare a memoria ma ti dicono sempre che hai sbagliato copione, che è altrove che devi sbatterti e cercare e non si sa mai bene fin dove dovresti arrivare.
Sarà meglio lanciare moneta e non guardarla cadere, avanzare di passo nel buio, concedersi un quartino d’illusione nell’attesa del giorno che tutto può cambiare.
Risparmiare le virgole per correggersi in pausa, continuare a puntare il bersaglio, ostinarsi ad infrangere i veti e di ogni schianto non aver paura e non offrire mai nessuna resa.

venerdì 14 febbraio 2014

Passa che tutto passa


Ilaria Guccione, Quando la banda passò (Palermo, marzo 2013)

Passa che tutto passa, passa la banda del giorno di festa e la gente che si porta per via la sua fretta molesta.
Passano gli entusiasmi del giocarsi bambini, l’allegria compagna dei vent’anni, il pianto che sa di troppo sale ad ogni funerale e tutto quell’andar storti di passo cuore e sguardo, che te lo chiamano malinconia ad ogni età in cui inciampi.
Passa il bicchiere pieno e pure quello vuoto che qualcuno lesto te l’ha già riempito e resta il letto che intanto s’è fatto più leggero e lo scopri nell'ora del sonno maldestro, ché nessuno per tempo ti ha avvertito.
Il passato l’ho incontrato una sera a un incrocio, col suo colore grigio da cappotto invernale e voce che anche ad averci gli occhi chiusi non ti potevi sbagliare. Mi son costretta lenta nell'andare, che non avevo un saluto fasullo da donare, che non avevo nulla da fargli ricordare.
Sarà che sono io che non imparo niente, sarà che il desiderio passa ma io non so dimenticare.

lunedì 10 febbraio 2014

Cos'è lontano?

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Ilaria Guccione, Fauci e martello (Palermo, febbraio 2014)
 
La gente non si capisce da sé e figurarsi se sa capir te. Te la ritrovi raggomitolata nel suo mondo scontato, a far la ruota tra citazioni che te le regala saputa in unica emissione di fiato.
Son tutti lì a raccontarsi innocenti, son sempre pronti a lamentarsi scontenti.
E guai a dirgli che la vita è cosa diversa, ché gli diventi facile bersaglio e ti sfinisci a far di conto col loro vuoto ad ore e con la tua infinita pena.
Ma tu che pensi alla vita come cosa assai seria, non t’identifichi in quell’arcinota baldoria. Aspetti ancora il fischio di un treno da prendere al volo, un capitombolo al buio per trattenerti quel suo sorriso dell'ultima ora, un'ombra cara da respirar piano fino al calar della sera, una contusione del sentimento che ogni giorno ci sbatti contro eppure non urli odio a nessun vento contrario e continui a sognare di sapere andar lontano.
Lontano è davvero un paese che non ti do la mano? O è un'ipotesi di quiete se m'ascolti la voce, il sapersi scivolare incontro, il tempo buono per farsi pace e vaffanculo a quel che la gente chiama mondo.


domenica 9 febbraio 2014

Sappiamo solo crollarci addosso

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Ilaria Guccione, Sappiamo solo crollarci addosso (Palermo, febbraio 2014)
 
Che t’accusa di averlo perso e tu pensavi di averlo battuto, che t’incolpa d’averlo ammazzato e tu ancora convinto che l’hai trattenuto.
Tempo che se ne va senza concederti un saluto. Tempo che hai chiuso gli occhi il tempo necessario per ricordarlo meglio, che vorresti dirgli almeno qualcosa e invece sai solo restar muto.
Gira e rigira, il gatto. Rosso di pelo che sembra uscito dall’ultimo film dei fratelli Coen, bello e pasciuto che sa di casa, lesto di zampa gira e rigira per la piazza deserta di parole sensate. Dribbla veloce tra le macerie e, dopo una passerella elegante sul muro, si tuffa in quel mistero di rifiuti che pareti ancora in piedi lasciano solo intuire e poi te lo ritrovi tra le gambe. Come a dire au revoir a voi che ve la smarrite la via di casa dopo due passi lenti in fila, che la paura vi falla la memoria, che l'arroganza vi fa calpestare ogni storia, io sì che la so la strada per tornare.
Sappiamo solo crollarci addosso. Che così si piange meglio, che così si ha sempre pronto un motivo di lamento. Che così si vive meglio, che così ci si può spolpare fino all'osso. Che così ci si fa viziare dal più comodo punto di vista e rimanendo immobili ci si lascia andare.

venerdì 7 febbraio 2014

Vucciria shooting

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Ilaria Guccione, Il muro di Palermo (Palermo, febbraio 2014)


Pezzi su pezzi, pezzi di pezzi intorno. Solo pezzi rotti dentro. Raccogliere tutti i pezzi per aggiustarsi. Avere colla buona che odora di pazienza e tempo. E dita che sanno coincidere e coincidenze che ci toccano. E aspettarsi che poi manchi ugualmente qualcosa, ché il lieto fine è gioco da film e ci si aggiusta solo al peggio.
Sappiamo solo crollarci addosso. Che così si vive meglio, che così ci si può spolpare fino all'osso.
 
A piazza Garraffello questo pomeriggio sembrava di essere sul set di un film. No, non è Wim Wenders che è ritornato in Vucciria, che solo chi vive qui può capire come abbia fotografato la nostra realtà, è che la realtà sa sempre farsi grande in fantasia.
E allora per un attimo quasi ti dimentichi che il 5 febbraio alle 21.43 un boato ti ha invaso la casa, che una palazzina a due passi da te è crollata. Ché era stanca di viver di stenti in una piazza trascurata, non ne voleva più sapere di spazzatura elevata ad arte e di bordello notturno che te lo chiamano movida a lasciarle ogni notte altra spazzatura sotto il prospetto, non voleva essere cool, voleva stare in pace.
Va a finire che le cose si ribellano meglio e più delle persone. Va a finire che è meglio il suicidio di mura e tetti che l’aspettar aiuto e salvezza dagli uomini. Cronaca di un crollo annunciato e finalmente il silenzio tanto agognato. La casa vibrerà soltanto nel ricordo, mai più per quelle aggressioni da troppi watt che continueranno a fregarmi il sonno, ché si era offesa di quel suo stare in attesa, di aspettare un impossibile meglio. Che si sa come va, è meglio un crollo di un "il tuo star male io m'accollo".
Dice che stanno murando la piazza e allora non posso non andare a spalancarci gli occhi mentre mi chiedo se io mi ritroverò a Vucciria Est o Vucciria Ovest. L’operazione muro, che in concreto vuol dire elevare mura per bloccare cinque accessi, è stata interrotta in fase 3 ad altezza che perfino io posso scavalcare perché i gestori dei malmessi pub si sono insediati nella piazza. Ché quelli non l’hanno ancora capito che non è il caso di far feste e festini questo fine settimana. Di fare rumore, di spargere fumo. Di fare rumore, di annusar polvere. Che loro dice che si guadagnano onestamente da vivere, me lo ribadisce un ragazzino che ci tiene a dire che lui è l’unico incensurato e gli scappa un sorriso storto d'orgoglio e mica si gioca la fedina penale per far resistenza. Mentre una ragazzetta ben vestitina e truccatina fa finta di niente e solo ad alterco finito tra me e lui ci dice che va a scrivere l'articolo. E me lo potevi dire prima perché ci davi le spalle, che ti dicevo anche che penso dei giornalisti.
Ho visto gente nata e cresciuta qui piangere con un occhio davanti alla rovina, e con l’altro sorridere all'idea di un bel parcheggio costruito al posto dei palazzi della piazza.
Ho visto poliziotti rigidi nella divisa passeggiare sorridenti e snodati giocando alla messa in posa con le macerie sullo sfondo e uno di loro, accento meridionale ma meno di quello che mi appartiene per nascita, dirmi che sì, stiamo qui un altro po’ ma poi ce ne andiamo.
Ho sussurrato a quel che resta e dai urla qualcosa, di' la tua adesso, non aspettare ancora, crolla finché puoi ma fallo ora.
Nel silenzio, nel gioco, nell'inesistente battagliare. Ho sentito il mio amore profondo fare a pugni col mondo. Son tornata a casa pensando a quelle tre galline spennacchiate da spavento che se ne infischiavano di tutta quella ridicola gente e continuavano a becchettare frammenti di tufo e cemento.


giovedì 6 febbraio 2014

Deflagrazioni

Ilaria Guccione, Accura! (Palermo, febbraio 2014)
 
Pezzi su pezzi, pezzi di pezzi intorno. Solo pezzi rotti dentro. Raccogliere tutti i pezzi per aggiustarsi. Avere colla buona che odora di pazienza e tempo. E dita che sanno coincidere e coincidenze che ci toccano. E aspettarsi che poi manchi ugualmente qualcosa, ché il lieto fine è gioco da film e ci si aggiusta solo al peggio.
Sappiamo solo crollarci addosso. Che così si piange meglio, che così si ha sempre pronto un motivo di lamento.
 
E gli eventi scontati ad incrementare nausea e a rimuovere appetiti stentati: i tg delle rassicurazioni, i presidenti che si raccomandano e si approvano, gli amori sintetici, i pentimenti asfittici. Trionfano le rappresaglie, per ogni dove, apotropaiche. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E il deprimente apparire, il qua qua qua… sono qua sono qua sono qua. E come sempre si scambia il cortile per proscenio. La logica del fare ha punteggiatura attenta e allora la tieni a distanza, ché ogni messa a punto ti spaventa, pensi di capovolgerla e invece ti ritrovi a camminare sulle mani. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E le eccezioni sotterrate per eccesso di stupore che a turno fai rimare con terrore o rancore. E’ la necessità superflua del gioco, l’ostinazione del giocatore che persegue regole malintese. E ti ritrovi di nuovo a camminare sulle mani mentre trattieni il fiato o ciò che più gli somiglia e perdi il passo, l’ora e il marciapiede. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E il sottinteso del dubbio, l'arte del peccatore, il pensiero che cigola e la testa che sbatte dove il ricordo duole. E’ il sorriso che zoppica, che anche se ti giri ha fruscio di tempesta. Ci sono notti in cui nessuna direzione ha senso, ché da altezze diverse si sa precipitare male. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E l’istinto del niente, quello che accende e consuma e quando ritorni non trovi varchi di parole. Sul tuo cemento si estinguono le ombre del “chissà come mai” e intermittenze e cortocircuiti autoreferenziali in prossimità. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E gli sproloqui nocivi al bel pensare. E riecco il demente qua qua qua… sono qua sono qua sono qua! E si riscambia cortile per proscenio. Il ben dell’intelletto ha respiro silente e un’unica parola per risposta, sottovoce: fottetevi. E’ il buonsenso dell’essere consistenti, l’approccio ripido dell’esserci. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E il dolore così stretto che non lo sai più misurare. E dita che per contarsi si scontano fino ad un luogo di tre lettere che non concede il rammendarsi, lì puoi solo scucirti il senso e dai che lo sai che ti riesce a meraviglia. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E l’approdo mancato, ché il dolore ti sfascia lasciandoti provvisorie anestesie nella memoria. Il luogo giusto non si disegna in spazi ma in accordi di senso, che se non ti navigano tra le dita non possiedi ritorni per nessuna partenza. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E la prima sigaretta che stordisce il dolore e tutto quel “faccio, non faccio per te” che desideri un deus ex machina che almeno ti soffi lui sul tormento. E l’amore che è un’eccezione da scommettersi solo se sai l’azzardo e puoi il respiro per trattenerlo oltre. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E dettagli che si appropriano di te e ti raccontano come questa pioggia fuori che dilata malinconie e tu ci credi e ti ascolti anche se adesso non piove. Ogni storia ha il peso della polvere, è il gioco del sottinteso che per capire ti scavi e rischi di soffocare e intanto collezioni graffi. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E il punto che non è punto se domanda. Puoi fingere di non ascoltarti e allora fai tre giri su te stesso, ché tanto lo sai che rimani fermo e ogni giravolta vale un alibi per invecchiare senza che nulla ti cambi. Così hai la finta leggerezza di un abito usato e ti puoi dire contento ad ogni sorriso nello specchio. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E beati gli idioti che son così certi di consistere e generano il nulla o il danno assolto. Non rassicura l’arte ma distrugge, ché ha necessità di fuoco e cenere. E soffriti i frantumi, intascali ché hai creato un capolavoro nel tuo farti guerra da solo. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E il beneficio del buio, la scatola chiusa, le labbra rimosse. Restiamo serrati a contare la rimanenza di un niente che ci facciamo bastare per giustificare con un “va tutto bene” il nostro essere fuori posto, come se un porsi di spalle ci potesse regolare il quieto vivere. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E il dirsi in controluce che è sempre meglio rinunciare, che così ti ripeti non sono mica fermo e la fortuna gira e già ti scordi che lei ti rovina ogni passo prudente e non precipiti lì dove tu sai, solo se il volo lo tenti. Sarebbe bastato un “ritorno più tardi”, una pistola puntata sul cuore e uno sputo per lasciarti dietro un distinto saluto. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E la convenienza del cazzo, quella buona solo per la censura bieca da bar del centro ma sbrigati che ho solo un quarto d’ora. E le tue scuse da caffè ristretto non le sento: ho il volume dei pensieri troppo alto e la condanna del “come se” da sotterrare con accuratezza. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E la coerenza, che non la trovi neanche di contrabbando. E’ il voler ficcare cocciuti il poi nel prima, l’infognarsi nella scarpa di Cenerentola o nei pantaloni dei tuoi vent’anni: come ad accusare il tempo di malafede quando non trovi più argomenti per la tua ridicola casina di sabbia. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E spargi e ancora spargi ma non semini niente, ché è solo pianto ed eco di sangue e se non l’asciughi da te saranno passi estranei a farlo. Più opportuno il pugnale che il pregare, più savio l’impazzire in questo mondo che si vuole lineare. Ti bacio nel ricordo, della tua lama farai buon uso anche tu, lo so. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E la condanna della normalità: come bussare a un portone che qualcuno decide sbagliato per te. O cambi indirizzo o sfondi, il frantumarsi la testa è compreso nel prezzo, il farmi posto è un optional, ché l’affezione al disordine è privilegio del coraggio. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E partenze che ripartono e ti immalinconisce quella smania del nuovo che ti sorrideva su una spalla, senza tregua. Ché ogni nuovo passo è un dono da rimestare nella memoria. E brandelli sovrapposti di tempo ti percuotono e a volte i colpi dolgono, sì che lo sai. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E continuiamo a viaggiare seguendo direzioni ribaltate per incontrarci meglio, assimilarci in pelle e fiato a giusta distanza tra le nuvole dell’andata e del ritorno. Solo così riusciamo a dirci che continuiamo a vivere seguendo quel movimento necessario che più di noi si ostina a ribaltare il Caso, ad ogni nostro saluto ordito in lontananza. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E il tempo che ti naviga ma non te l’aspetti, ché non ti puoi concedere pause dal pensare e allora te lo distendi e riconti la notte, come un abbraccio di passaggio che è già andato. Iperboli di cristallo da colmarti la memoria, solo se sai ancora soffiare sulla polvere. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E chiudi gli occhi e conta e girati lentamente: ci sono ombre stabili sul muro. E allora tieniti buona compagnia, ché ogni fine è convenzione inopportuna, tu continua a camminare e ricucirti aggirando ogni inciampo e ogni strappo. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E la solitudine da sillabare usando lettere per rime improprie. E no che non te la chiedo neanche una sigaretta e il marciapiede lo sbaglio con precisione da sempre. E allora non ci pensare, ché i miei pezzi sulle scale me li calpesto da me, con infinita premura. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E la divertente crudeltà delle coincidenze postume, quelle che osservi da due vite avanti. Tientela per mio cattivo ricordo, e che ti basti e avanzi. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E i due piatti della bilancia che tanto c’è comunque lo stesso materiale da pesare. E sempre qualcosa da pagare e in cambio ci si spesa a stento. E intanto meglio far finta di niente, sennò non puoi dire di stare in piedi mentre sei già caduto. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E tu che balzi come un vinile alla velocità sbagliata. E’ l’intoppo del tempo e di altro ancora, che tanto non intendi perché ti sfugge ogni parola. E scivoli allora e ti rabberci il senso nella tua testa che gira da sempre in controtempo. Il turbine, quello sì che ti rassomiglia e che lo sai sillabare. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E prefiche che assoldandosi da sé blaterano sfacciate omelie, scambiando il pisciare fuori dal vaso col demarcare un territorio come proprio: è il pensare becero che abbrancare un perimetro dia diritto a invaderne l’area, vivaddio prigioniera solo di sé. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E ciò che si dice appeso a un filo. E' il dilemma della scelta che si consuma tra l’essere Penelope o Atropo: o continui a tessere o recidi, è il ripetersi sottovoce che ogni scelta avviene per necessità. Gira quel filo, gira, avvinto fra le dita. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.
E l’inganno dei tuoi passi sul selciato che si perde nella sera, senza lasciare suono e traccia, ombra tessuta che non conosce trama. Se vuoi ti calpesto, ti oltrepasso se puoi. Conto uno ad uno i sassi che incontro. E’ sempre stato così tra noi, un lento incauto misurarci prima di ogni fuga. Ben vengano le deflagrazioni allora ma solo se non ti manca il fegato per ricostruire. Dalle fondamenta, beninteso.































lunedì 3 febbraio 2014

Come quando

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Ilaria Guccione, Il tempo di riposarsi (Palermo, gennaio 2014)

Sempre pronti a lustrarsi la faccia, farsi belli a parole degli altri. Ché son sempre convinti gli basti un incanto da fotoritocco e frasi e virgolette in omissione per ricalcarsi ad effetto su metafore buone e dichiararsi originali.
Fino a quando non s’apre una crepa nel buonsenso del mondo, che gli fa sfigurare il prospetto. Fino a quando non si va di sassate a demolirgli profilo e cazzate.
Piove son ore su ore che piove lento e fitto sulle mie parole nuove, sui miei pensieri vecchi, sul mio solito giocarmi quest'unica vita che ho a risalir di specchi, sul mio piede che accelera e slitta tra ogni polemica acquerugiola. Non possiedo più favola bella che si possa bagnare, ho soltanto l’eco dei miei passi maldestri e su quelli ci so camminare.
Sarà meglio tacere come quando s’affaccia il ricordo dall’occhio socchiuso, come quando t’ammazza il pensare che il tempo passato, lui soltanto non t’abbia scordato. Come quando, a cercar di far strada a ritroso, ti ritrovi stentando il sorriso in un luogo che ancora ti sa e rassomiglia.