Spider-Boy

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domenica 15 novembre 2015

Luoghi comuni


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Ilaria Guccione, Elle et lui (Palermo, ottobre 2015)

Viviamo di luoghi comuni in cui non ci si incontra mai.
Meglio così, esco da sola, da sola canto. Una canzone che da sola ci potrei ballare su per tutto il tempo che ho. Una canzone in cui lei balla con lui e sola rimane, è colpa della folla che quell'uomo le aveva donato e poi le aveva portato via. E' una vecchia canzone francese e non lo so perché ho in testa proprio questa, non importa e non mi rompete i coglioni perché la canzone è francese perché io, di vecchie canzoni francesi, ne ascolto e canto di continuo. E non mi rompete i coglioni perché mi rattristo se amici di amici sono crepati, se sono stata in ansia per gli amici miei, francesi e non. E non mi rompete i coglioni perché lo so da me che la guerra fa schifo ovunque e sempre ma voi siete tanto bravi a dirlo che io preferisco stare zitta.
E' colpa di chi, è colpa di cosa, io lo so, tu lo sai, loro però, tanti, troppi, di saperne non vogliono.  Sono stanca di sentirvi danzare tra estremi, continuo a camminare.
Mi fermo, nella solita piazza, che in questi giorni è un deserto di sabbia. Che ci rifaranno la pavimentazione bella nuova regolare, in barba a quel che c'era da salvare. Tanto poi sarà piena come sempre di merda, di sputi di vetro di bottiglia. 
Il passato è sempre un ospite straniero, il presente ci accontenta fino a quando non ci attenta.
Mi fermo, nella solita piazza, a osservare i piccioni. Meglio che ascoltare voi che inneggiate alla guerra e rimpiangete le crociate, voi che la storia è un solletico che ha lasciato un segno lieve sui banchi di scuola. Meglio che ascoltare voi che mi rimproverate che di morti ce ne sono altri, troppi, ogni giorno in ogni altrove. Meglio che guardare voi tricolorizzarvi la faccia perché un social network vi suggerisce che così potete sostenere oggi Parigi, domani chissà.
Mi fermo e guardo i piccioni che approfittano del deserto della piazza per una doccia e qualche innocuo bisticcio. Li guardo, li invidio, sorrido e torno a casa.
Viviamo di luoghi comuni in cui, per fortuna, io e voi non ci incontriamo mai. 

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Ilaria Guccione, La doccia (Palermo, novembre 2015)






lunedì 26 ottobre 2015

Corteggio uno spiraglio

Ilaria Guccione, Sbirciare (Palermo, aprile 2014)


Ci sono e non ci sono: corteggio uno spiraglio.
Mi vedo e non ti vedo: t'attendo e mi sbaraglio.
Ti cerco e non mi cerco: m'avanzo e poi deraglio.
Mi conto e non mi conto il tempo che mi avanza:
corteggio uno spiraglio nascosta in questa stanza.
Sussulto ad ogni abbaglio che ha nome di speranza.


lunedì 14 settembre 2015

Il santo, Marx e l'insegnante


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Ilaria Guccione, L'orgoglio di essere cane (Palermo, giugno 2015)

Li chiamavano il santo e Marx.
Uno era cattolicissimo, l'altro comunistissimo e tale e quale a Marx nell'aspetto. Insegnavano storia e filosofia nel liceo che ho frequentato, sottoponendo gli allievi a rigide orientate verifiche. Sintesi contro analisi, analisi contro sintesi. Kategorischer Imperativ: Panico, Memoria, Sudore, Affanno, Voto, Carreggiata.
Il mio non lo si chiamava in nessun modo. Essendo vicepreside, aveva solo un corso e sulla carta fu il nostro insegnante di storia per i primi due anni. Sulla carta, ché in cattedra non parlò mai di storia ma di storie. Ieri è successo che. E dal presente si arrivava al passato, con un monito costante: dovete imparare ad usare la vostra, di testa. Non la mia.
Nessuna Storia, nessun programma, nessuna interrogazione.
Nell'anno di mezzo ci arrivò come supplente di filosofia un altro docente del liceo che il nostro lo odiava a morte. Esordì dicendo che ci voleva tanto bene ma era difficile credere a uno con quella faccia che sembrava uscita da un horror di cattiva qualità. Di lui mi ricordo la fissazione per Hobbes, che lo pronunciava per come si scrive, e il clima di terrore del secondo quadrimestre col suo ululare homo homini lupus e che lui ci avrebbe bocciati tutti perché eravamo allievi di quel professore là e quindi tutti ignoranti e le deportazioni dei poveri interrogandi  -me compresa- nelle classi sue.
Nessuno fu bocciato: Canis qui plurimum latrat, perraro morde.
L'anno seguente, il terzo ovvero il quinto del classico, il nostro professore ci fece da insegnante e di storia e di filosofia.
Di storia e di filosofia da manuale non studiammo e non imparammo un cazzo.
Fu un anno dall'epilogo drammatico, agli esami di maturità ebbero il cattivo gusto di tirar fuori dal cilindro filosofia e matematica. Fu una corsa alle lezioni private per chi manco morto avrebbe presentato altro.
Cazzi loro, io preparai italiano e latino. Era l'estate del 1991.







sabato 5 settembre 2015

Quest'estate sa di fritto


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Ilaria Guccione, La patata bollente (Palermo, maggio 2015)

Quest'estate sa di fritto.
Sa di passo interrotto, di tanti io non ci sono ma tu batti pure un colpo.
Sa di finestra sul cortile ma è un remake girato male e mai nessun giallo che dal mio balcone si riesca a svelare.
Sa di musica che notte impazza e non voglio e musica che il giorno passa ma davvero sfiorarla non posso.
Sa delle solite inutili care cose, delle solite rovinose cadute sul selciato, dei vecchi sogni che sogno ancora e non ho mai realizzato.
Sa di quei due che me li porta per dispetto il vento di scirocco, quello che la mia gonna me la sa fare danzare in un sud fantasma, quando per strada ci incontri passi stranieri ed occhi spalancati verso la meraviglia di cupole arabe e lo schifo ingombrante del rifiuto inusitato.
Quei due che si regalarono un ballo lento, necessario e sghembo per potersi ritrovare e lui occhi lucidi e pena scontata, ché tanto poi sarebbe finita la canzone, avrebbe ritrovato la giusta via di casa, sarebbe stato bravo a ricordare appena qualche citazione.
Erano solo due marionette brave a trattenersi strette intorno al niente.
In fin dei sogni ci somigliamo tutti ma non ci conosciamo affatto.













sabato 15 agosto 2015

Stretta è la soglia, storta è la via

Ilaria Guccione, Porte aperte alle idee (Palermo, agosto 2015)


Dice che ambasciator non porta pena e che tu hai solo da portar pazienza, ché a porta chiusa sempre un portone si spalanca.
Ma è l'ambiguità dello spiraglio che prevale, la porta socchiusa che spesso fraintendi in entrata, la sottintesa eco di parole smozzicate che ti nega il privilegio dell'uscita e della fuga e tutto quel pensare che ti ostini a trattenere mentre stai già rovinandoti in caduta.
Stretta è la soglia, storta è la via. Tu di' la tua che io ho scritto la mia.


giovedì 2 luglio 2015

Farsi tutto e farsi niente


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Ilaria Guccione, Lo stesso amore (Palermo, giugno 2015)

Cambiar tempo alla musica che mi canto in sottofondo.
Cambiar spazio in tempo lento, lasciar libera la stanza.
Cambiar voglia per eccesso, farsi vuoto nell’assenza.
Farsi piena d’altro canto, ammazzando vecchia faccia e circostanza.
Farsi tutto e farsi niente.
Farsi niente per difetto, farsi tutto per un bacio che fa frase nella sera.
Far che adesso me ne vado, far che adesso non ritorno.
Farsi niente nel presente.
Farsi sillaba e parola ma non consistente senso.
Far che adesso non ci sento, far che adesso non mi pento.
Farsi un giro controsenso, che poi forse ci ripenso.


venerdì 26 giugno 2015

Quel gran Genio di Palermo

Ilaria Guccione, Il Genio di Palermo ha fatto la spesa alla Vucciria (Palermo, giugno 2015)  

Il sindaco annuncia emozionato: i cittadini al tram il nome hanno trovato.
Il palermitano in massa ha votato e Piuma e Filo ha alfin bocciato.
Par ovvio a me che a guidare la tenzone sia stata la celebre canzone.
Quel gran genio del mio amico capirebbe cosa dico
evitando le buche più dure per le vie sconnesse e scure
rallentando per poi accelerare se su strisce scolorite tu vuoi attraversare.
Dolcemente viaggiare, col tram Genio* per Palermo vagare.
E intanto il povero barbuto col serpente che tutto vede e tutto sente
si duole per un braccio fratturato e per la piazza maleolente.
Che gran iattura ritrovarsi al braccio non il gesso, spazzatura.
E non c'è mai nessuno che nell'odioso seral bordello
gli porti fin lassù almeno un bicchiere di vinello.


* Del Genio di Palermo, protettore della città e quindi fratello laico della santuzza e sulle sue raffigurazioni e interpretazioni ti racconterò un'altra volta. La statua riprodotta nella foto la trovi alla Vucciria, nella piazzetta Garraffo. Solitamente in compagnia di spazzatura, macchine e altro ancora.




venerdì 29 maggio 2015

Filastrocca del barone e della piazza



Ilaria Guccione, Testa o croce (Palermo, maggio 2015)

Il barone è barone al di là della nazione
Il barone è barone al di là di professione
E l’eccesso di stipendio ben si presta al vilipendio
Centodiciottomilequattrocenteppassa che ha l'ordinario all’anno 
A noi italiani ci fa, io credo, danno
A noi che mischini sopravviviam d’affanno
E voi insegnanti a giocarvi ancor d’inganno
A credere che un giorno soltanto girandovi intorno
A star nella piazza con l’abito nero, con l’abito rosso
A lor gran signori scaviate un gran fosso
A creder che certo scattandovi foto ridenti
Allor gli verrà di sentirsi dolenti
A voi che un sol giorno vi basta e v’avanza
Che poi son soldi mancanti e vi duole la panza
Come se ad ottener giustizia fosse sufficiente
L'alzare un po' la voce e la bandiera e d'altro non fare un bel niente
Poi ti lamenti ma che ti lamenti
‘Un pigghi mai bastuni e t'ammucci li denti
Così ogni giorno si replica inutile e uguale
In quella gran munnizza universale che dicono abbia nome capitale.



lunedì 18 maggio 2015

Agonie

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Ilaria Guccione, Quei posti davanti al mare (Palermo, maggio 2015)


Tra l’albergo e il mare era lieve la distanza. Un suonatore di organetto, speranzoso di moneta, regalava all’aria salmastra Tu a che a Dio spiegasti l’ali. Agonizzava, il principe. Contandosi gli anni passati e scorporandone appena due o tre di felicità, ché tutto il resto se n’era andato in noia e dolore e feste da ballare e rosari da sgranare.
Agonizzava intanto lo scrittore nel letto di una clinica romana, sperando la propria morte in quella sua città in cui da vivo non sarebbe più riuscito a tornare. *
Agonizza (anc)ora la sua città. Perde memoria, la vende al primo offerente che passa per la via, per qualche chilo di patate fritte che odorano d’Olanda sulla carta, per il primo festivàl che qualcuno compra e qualcun altro ci vende, per siculi bistrot che il palermitano verace non sa neanche come minchia pronunciare, per mutande e calze che i buchi ci si fanno sempre a buon mercato, per una mobilità dolce in una terra pesante che pare promessa di cannoli per la via ma è solo roba di piccioli che tu il ciavuru non lo senti neanche, accontentati delle patate, ché qui si vende aria fritta a tinchitè e, se non ti bastasse, ci sono pure colline di munnizza e quelle son sempre aggratis et foetore Dei.
Ha agonizzato forse l'uomo nella sera, che il cuore l’ha lasciato nella piazza dei signori e il suo tempo l'ha fatto senza fare in tempo o la ragazza nel mattino di pioggia, che il suo passo l'ha tranciato l'altrui furia sull'asfalto.
Agonizzo io nei miei giorni stentati, zoppicando malinconie stonate, canticchiando a volte quell’aria quando percorro l'artefatta lontananza che ormai c'è tra albergo e mare, maledetta guerra che ci hai regalato troppi morti e troppa terra. **

* Il romanzo, lo scrittore, ma che te lo dico a fare? Vabbè te lo dico uguale:
Nella strada di sotto, fra l'albergo e il mare, un organetto si fermò, e suonava nell'avida speranza di commuovere i forestieri che in quella stazione non c'erano. Macinava Tu che a Dio spiegasti l'ali. (...) "Ho settantatré anni, all'ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto, un totale di due... tre al massimo." E i dolori, la noia, quanti erano stati? Inutile sforzarsi a contare: tutto il resto: settant'anni. (Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo)

** Palermo è una città di mare il cui mare è una forma assente. Durante la seconda guerra mondiale, nella passeggiata a mare, nota come Foro Italico (già Foro Borbonico) la distanza tra la terraferma e il mare aumentò perché lì furono riversate le macerie di edifici devastati dai bombardamenti.

sabato 25 aprile 2015

Festa della fraternità, festa del popolo

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Ilaria Guccione, 25 aprile (Palermo, aprile 2014)


Tu che ieri sera sei sceso in piazza e hai ballato e cantato o semplicemente guardato gli altri ballare e cantare, una mano buona per la birra e l'altra per il pugno teso, tu che magari hai anche visto il manifesto dell’iniziativa e magari non ti sarà piaciuto, sicuramente non ti avrà parlato, si vabbè c’è una fisarmonica e allora continuo a ballare cantare bere guardare. Tu che certo non hai inclinato la testa, che già girava per i cazzi suoi, per leggere quell’avvertenza verticale che recita: “particolare del manifesto di L. Veronesi. Non è stato possibile rintracciare gli eredi detentori dei diritti pertanto” ecc. Ma anche se l’avessi fatto, non ti avrebbe cambiato la vita né la serata. 

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Liberi di cantare e di ballare, manifesto Arci (2015)
 
Ma tu che forse per due secondi l’hai guardato ti sei chiesto perché ci sia la coccarda francese insieme a quella italiana? Hai riconosciuto il berretto frigio? Ti sei chiesto perché? Io penso di no, perché eri troppo impegnato a ballare.
Luigi Veronesi, milanese, pittore, incisore, fotografo, grafico, quel manifesto lo progettò nel 1947, per la festa della fraternità e del popolo del 14 luglio. Sì, quella stessa festa che per la prima volta si tenne a Milano nel 1945, in luglio. Ché quell’aprile lì c’era ancora poco da festeggiare. Sai, quella stessa festa che s'è scelta come premessa a quella tua di ieri. Lo sai? Ma lo sai cosa cazzo si festeggia il 25 aprile? No, perché sai, da quel che vedo e ascolto in giro io mica lo so se tu lo sai. 

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Luigi Veronesi, 14 luglio (1947)


Veronesi,  falsificatore di documenti, Steiner, nipote di Matteotti e partigiano, Huber, Muratore, Magistretti furono tra quelli che, mezzi pochi e urgenza tanta di raccontare, fin dal 1945 si impegnarono nell’allestimento di mostre documentarie “di ricostruzione”, nell'elaborazione di manifesti.
Veronesi, nel 1946, disegnò il manifesto 25 aprile 1945, fronzoli niente, slogan semplice: “per chi l’ha dimenticato”, un invito alla memoria fatto di numeri, una semplice bandiera tricolore, rosso che gronda sangue:
Partigiani, caduti: 69.774, dispersi: 62.354, mutilati: 36.610. 
Esercito di Liberazione, caduti: 35.149, dispersi: 16.922, mutilati: 11.411.
Il manifesto proposto dall’Arci, dicevamo. Non me lo chiamare un particolare di quello originale perché è un’immagine ripulita da photoshop, tu che occulti dettagli, cambi slogan e lettering, tu che decontestualizzi un'immagine ma non sei Duchamp, tu che fai di un manifesto del passato un pasticcio muto, un'immagine coordinata di questo presente sghembo e rattoppato.
E tu, proprio tu, che hai cancellato con cura le bandiere e il testo e che magari pensi di essere stato proprio bravo: la prossima volta non lasciare lo svolazzo giallo della G della parola luglio sul berretto!









domenica 22 marzo 2015

Giudizi universali


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Ilaria Guccione, I 17 (Palermo, marzo 2015)

Bello sarebbe il mondo se non ci costringesse.
A rimanere appesi ad un’attesa da giudizio, vittime del malocchio  supponente di chi per lecito consenso si sente domineddio giudicante sul nostro essere libero e  pensante.
Bello sarebbe il mondo se non ci condannasse.
Al trucco della scheda, l’obbligo d’inventario, al casellario straboccante.
Se non ci sottraesse il passo e il verbo, lo sdegno e l'anarchia.
Bello sarebbe il mondo se non ci relegasse.
Con un gran calcio in culo da scarpa d'ordinanza nel girone degli offesi, pensando di tranciarci ogni speranza.


 

sabato 7 marzo 2015

Munnizza. Appunti per una storia illustrata



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Ilaria Guccione, Via Meli (Palermo, giugno 2014)

Palermo, giovedì 5 aprile 1787.
Mi fermai in una botteguccia di merciaio sulla via principale per farvi alcuni piccoli acquisti.
Mentre stavo davanti al negozio ad osservare la merce, si levò una leggera folata di vento, che in un attimo, turbinando lungo l’intera strada, riempì botteghe e vetrine di polvere.
Per tutti i santi, esclamai, di dove viene, mi dica, tanta sporcizia nella vostra città? Non è possibile rimediarvi? (…)
Da noi le cose stanno come stanno replicò il bottegaio; quel che buttiamo fuori di casa rimane a marcire a mucchi davanti alla porta.

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Ilaria Guccione, Affittasi locale vista mare (Palermo, Foro Italico, agosto 2014)

Quando gli ripetei la domanda se non vi fosse modo di ovviare al guaio, mi rispose che, secondo la voce popolare, proprio coloro che avrebbero dovuto provvedere alla pulizia non si potevano costringere, dato il grande ascendente di cui godevano, a far buon uso del pubblico denaro; si aggiungeva la bizzarra circostanza che, rimovendo quel lurido strame, sarebbero divenute visibili le pietose condizioni del lastrico sottostante, il che avrebbe messo in luce le malversazioni d’un altro ramo delle casse civiche. 

(Johann Wolfgang Goethe, da: Viaggio in Italia)

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Ilaria Guccione, La spianata della scimmia (Palermo, via Terra delle Mosche, settembre 2014)

Palermo, 22 dicembre 1799.
(…) nessuno, e specialmente padroni di botteghe e conduttori, possa piantare focolai in mezzo alle strade, dentro o fuori città, senza licenza, per non dare incomodo al pubblico passaggio; e caso mai, il cufolaio (focolaio) non sia più di palmi due, appoggiato al muro delle botteghe proprie e non già in mezzo le strade; 

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Ilaria Guccione, A neve e fuoco (Palermo, piazza Meli, 31 dicembre 2014)

che nessuno getti fuori di casa o bottega fuori la rispettiva sponda delle abitazioni senza impedire il passaggio, così come le immondezze (spazzatura), che la sterratura ed altro materiale di fabbricatura sia portato in luogo designato fuori città, senza seminarlo per istrada, sotto pena di doverlo riprendere; che i fumatori (spazzaturai) che raccolgono immondezze, non debbano sporcare le strade;

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Ilaria Guccione, Più birra per tutti (Palermo, agosto 2014)

(…) che nessuna persona possa gettar dalle finestre, balconi, aperture, porte, acqua lorda, di bagni, orina, bruttezze, immondezze ecc. di giorno e di notte.

(Giuseppe Pitrè, da: Pulizia e condizioni igieniche della città; bandi di Palermo!, in La vita in Palermo cento e più anni fa, volume primo) 

Ilaria Guccione, Vicolo del Pappagallo (Palermo, 1 marzo/7 marzo 2015)

                  



                       

domenica 8 febbraio 2015

Cambieremo nome ad ogni viaggio


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Ilaria Guccione, Scialla (Roma, novembre 2014)

Cambieremo nome ad ogni viaggio.
Riserveremo un posto scomodo per i ricordi delicati e per i sogni laceri, quelli che a furia di navigarci dentro ci sei annegato e ti galleggia ormai soltanto un agro pentimento.
Terremo caro il fondo del cassetto, dell’ultimo caffè bevuto e non ristretto, di ogni tasca consumata dal non detto.
Faremo saldo il traballio di questo giorno breve che si ripete sempre troppo lungo nel ciancicarci noia e finta quiete e gare a chi è più fesso in nome di un progresso che ci ricaccia tutti in fondo al cesso.
Inciamperemo a sera in cumuli d'amore e di malinconia e in danza macabra e sgraziata ricuciremo ogni ferita d'allegria.


venerdì 9 gennaio 2015

Ninna nanna stonata

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Ilaria Guccione, Er gatto d'Argentina (Roma, novembre 2014)

T’ho cantato una ninna nanna stonata e lieve per intonare pensieri azzoppati dal dolore ed allentare il fiato mio affrettato dal tempo della cura.
Avrei dovuto cullarti ancora quella sera che era appena ieri ma la speranza è malandrina, ti dice aspetta ancora, abbi una fede che non hai, lascialo al riposo del sonno ché lo ritroverai.
E' la vita. Dice il padre alla figlia che singhiozza e intanto le si è avvicinato e le poggia la mano sulla spalla, che pare poca cosa ma è cosa grande assai.
Sì. Soffia lieve la figlia e sprofonda il respiro a contrastare malamente quel dolore opprimente che accoltella chi resta.
Ci penso io. Dice lui.
No, ci penso io. Dice lei. E' il nostro ultimo abbraccio, pensa lei.
E' la morte. Così lieve e pesante in un unico sguardo.
E' il nostro lungo viaggio insieme che continua, nella memoria e nella pena.
Che strano sogno guardarsi intorno e non vederti più.

giovedì 1 gennaio 2015

Storia rimase ad aspettare


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Ilaria Guccione, Passaggio in ombrello (Palermo, dicembre 2014)

Quel giorno che gli crepò la voce in gola, per la gran pena s’inghiottì la storia.
Accatastò parole ormai usurate su fogli ancora vuoti per sgomberar ricordi e guadagnarsi un posto alla memoria.
Ma il tempo malandrino lo confuse all’imbrunire, si rifilò menzogne in luogo di speranze e storta gioia sovrappose al farsi noia, ché pur di non morire era disposto anche a mentire.
E singhiozzò parole su parole ed elevò castelli malandati a rimembrare i giorni ormai fallati.
Storia rimase ad aspettare che qualcun altro la sapesse raccontare.