Spider-Boy

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venerdì 29 novembre 2013

Quando presto è già tardi

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Ilaria Guccione, E' arrivato il tempo del calcio (Palermo, ottobre 2013)

Il tempo a nostra disposizione, purtroppo, sta finendo. Cloto e Lachesi hanno terminato il loro compito, e ora tocca a me. Lorsignori mi perdoneranno, ma in questo attimo, che io sto misurando su una clessidra diversa dalla Loro, è apparso per tutti Loro lo stesso anno, lo stesso mese, lo stesso giorno, la stessa ora di tagliare il filo. Ed è questo che, non senza dispiacere, mi credano, sono incaricata di fare. Adesso. Ora. Subito.
(Antonio Tabucchi, da: Si sta facendo sempre più tardi)

E’ presto, lui proclamava  con cadenza regolare e saltando i giorni di festa, ché in quelli aveva altro a cui pensare. E’ ancora presto, lo ripeteva a voce alta e accompagnandosi con la lentezza stupidamente solenne di ogni suo gesto. Che fosse chiaro a chi di dovere che di tempo ce n’era ancora a bizzeffe per aspettare e rimanere.
Per lui era sempre troppo presto e a furia di ripeterselo si ingarbugliò nella sua vecchia cantilena e quando arrivò il giorno buono per annunciare che ormai era troppo tardi lo fece a mezza voce e di cattiva lena.
E fu così che il momento giusto non fu mai e di buone rimasero solo le scuse. Quelle che te le giochi sempre come vuoi, che ci corazzi il tuo piccolo mondo e fino al prossimo tuo presto continui a girarci in tondo, ché tanto poi t'appiglierai al solito pretesto.

mercoledì 27 novembre 2013

Io, quand’ero piccola


Nipote
Ilaria Guccione, Nonna e nipote. O almeno così mi piace immaginare (Palermo, luglio 2013)

Io, quand’ero piccola.
Le storie non me le facevo mai mancare. E passavo ore a guardare vecchie foto su cui avevo sempre da inventare e mi dicono che l’album del matrimonio dei miei l’ho fatto a pezzi. La mia prima storia scritta a inchiostro e carta la portai al mio maestro delle elementari perché le trovasse un titolo. E quante storie allora che prendevano forma nel giocare e io a distribuire ruoli e battute.
Io, quand’ero piccola.
Glielo dicevo alla baronessa di Carini che doveva scappare ma lei non mi ascoltava e si faceva ammazzare. E poi c’era quell’impronta di sangue su un muro del castello e io che la volevo vedere ma mai nessuno che mi ci abbia voluto portare. E quel Cesare Lanza, il padre della baronessa. Quello faceva parte della mia lista di cattivi e di conseguenza Adolfo Celi era cattivo.
Poi all’università mi ritrovai a studiare l’economia del ‘400 in Sicilia e anche se il Lanza non stava più in quella lista, per me ha continuato ad avere la sua faccia.
Io, quand’ero piccola.
A pranzo finito, prima che si addormentasse, tormentavo mio nonno perché mi cantasse quella canzone che non mi negava mai: Mamma, mormora la bambina, mentre pieni di pianto ha gli occhi, per la tua piccolina non compri mai balocchi… e ogni volta ci speravo che la bambina non morisse, eppure non accadeva mai.
Io quand’ero piccola.
Mi si facevano grandi gli occhi quando c’era l’Odissea e Ulisse me lo porto dietro anche ora e intanto giravo con un vecchio libro di mitologia di mia madre e tutte quelle storie le conoscevo a memoria. E un altro che mi piaceva era Ercole e ogni tanto urlavo al mondo: sono forte come Ercole! E mia zia mi rimproverava perché una brava bambina sai com’è non fa così e sta seduta composta. E come glielo spiegavi che uno come Ercole si comportava in altro modo. E oggi mi sa che me lo dico ancora quando torno dal fare la spesa con una ventina di chili distribuiti tra spalle e mani, però il fiato per urlarlo non lo trovo più e altro che dodici fatiche, ne basta una per farmi schiattare al quarto piano.
Io, quand’ero piccola.
La mia prima fuga da casa l’ho tentata che avevo circa due anni e il cane Black per compagno, lui che mi veniva fratello maggiore di due anni e sembrava il cugino di Lassie ma era più bello. Lui che però mi ha abbandonato tra un piano e l’altro e allora vai di pianto e vabbè mi hanno scoperta e riportata a casa.
Io, quand’ero piccola.
C’erano delle domeniche che erano giorni di festa perché si montava lo schermo, ci si sceglieva in salotto il posto a sedere, si faceva buio e partiva il film. Ogni tanto se ne affittava qualcuno ma c’erano quelli che erano solo nostri, c’era Mandingo e Sole rosso e Il Gattopardo.
E c’era quel tempo da film che si misurava in pellicola, lo schermo si faceva bianco, ci si poteva concedere una pausa e quante volte ci ho provato a chiedere a mio padre di metterci mano e lui che me l’ha concesso solo una volta e io che me lo ricordo ancora.
E poi c’era Nell’anno del Signore e io ogni volta ci speravo che Targhini e Montanari non venissero ammazzati e mi concentravo mica poco, eppure il finale non cambiava mai. E poi facevo la prova del coltello ma forse non se ne sono mai accorti e comunque le dita mi son rimaste tutte.
Io, quand’ero piccola.
Avevamo anche l’ultima parte de La bella addormentata, che è la fiaba Walt Disney che so meglio, ché quando ancora stavo nel letto con le sbarre mio padre mi portò in regalo la musicassetta e uno scamiciato. E ti giuro che so ancora le battute a memoria e ti potrei pure cantare So chi sei, di tutti i miei sogni il dolce oggetto sei tu…
Io, quand’ero piccola.
Mi sono buttata di testa nella vasca piena d’acqua fredda e mio padre di spalle che si radeva e pare che non sia stata una bella cosa ma io, che forse volevo solo toccare il fondo per saperne parlare, non ti saprei dire di più, se non che dopo un doppio ventennio mi ritrovi qui e te lo posso ancora raccontare.
Io, quand’ero piccola.
C’erano tutte queste storie che ogni volta aspettavo fiduciosa il lieto fine eppure quello non arrivava quasi mai, probabilmente per farmi un dispetto. Ma io che la bella speranza ancora ce l’avevo ero sempre pronta a riguardare o rileggere, sicura che qualcosa potesse cambiare. Poi però ho smesso, ché a stare in mezzo alla vita ho imparato che il lieto fine arriva solo quando tu non te lo sei aspettato.





















domenica 24 novembre 2013

Pioggia nera

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Ilaria Guccione, Sopra tutto, l'ombrello (Palermo, ottobre 2012)

Pioveva nero. Mia madre dice che l’espressione è mia. Sostiene perfino che ho cominciato a usarla quando ero ancora piccolissimo. Ma, in fatto di ricordi, non c’è da fidarsi troppo di lei. E’ un campo in cui non siamo quasi mai d’accordo. I suoi sono ricordi dolciastri e sbiaditi come i santini col bordo a forma di merletto che i devoti conservano nei messali.
(Da: Georges Simenon, Pioggia nera)


Quella pioggia fitta me la sfiatavo lenta, me la scrutavo attenta quell'acqua che si faceva tenda dai filamenti infiniti prima di trionfare sul selciato in finale di pozzanghere. M'affondavo distratta in quelle piccole cascate tra uno scalino e l’altro, negli abeti costretti in vasi troppi piccoli che sembravano naufraghi costretti ormai alla resa. Faceva un freddo da disperarsi le mani nude, eppure rimanevo davanti la porta, che magari sarebbe finita, che magari saresti tornato, di certo circospetto come il sole dell'inverno.
Mi chiedevo se anche tra noi fosse scesa una pioggia simile, inizialmente lieve poi sempre più intricata, abile nel dissimulare ogni possibile via d’uscita verso il bel tempo. Vicoli a riunire strade parallele che potessero garantirci una visione limpida di tutte le infinite realtà che avremmo potuto ancora attraversare.
Ma te ne andasti rapido per una via in facile discesa con un ombrello di pretesti insulsi e neanche una scusa da lasciarmi e neppure un gesto. 
E ne è passata ormai di acqua sotto i ponti e son sopravvissuta a mille allagamenti. Eppure. Oggi mi piovevano ricordi fra cielo malandato e quelle scarpe nuove da misurarsi ancora tra l’andatura rapida e il rovinoso cadere e allora ogni passo me lo dovevo contare.
Piovevano ricordi tra una balata e l'altra, da farmi nuovamente scivolare. Eppure. Quel pensiero obliquo e quasi allegro che l'acqua, almeno quella. Cada come cada, è sempre uguale. Quel pensiero bagnato che poi ti fa tremare. Quelle lacrime da niente che ti fanno rincasare.


venerdì 22 novembre 2013

E buonanotte alle parole e al sogno


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Ilaria Guccione, Travasi (Palermo, novembre 2013)
 
E io ci provo a guardarle ma di stelle stanotte ce ne sono davvero poche. O forse sarà il mio sguardo stanco da insonnia e l'occhio distratto da diottrie mancate.
E allora non c’è niente da cantare ma di storie a mille e una notte da raccontare.
E allora ti racconto che. Ma c’è il gatto che mi interrompe col suo solito richiamo, ché la sua ora è sempre buona per mangiare.
E allora volevo dirti che. Ma c’è come un pensiero da niente che mi distrae le parole e mi si impigliano nel buio e non le so davvero ripescare.
Ma l’hai già sentito che. Ma c’è come una nota stonata che non mi fa parlare e non ho neanche voglia di cantarci su quella canzone che potresti ricordare.
Ma io comunque volevo che tu sapessi che. Ma ho come un brusio tra le dita che non mi fa più continuare e mi manca la voglia del tentare e ritentare.
Ma davvero tu non sai che. Ma il discorso è già finito e scusami tanto, che io la fine ti confesso che non ce l'ho.
Ho come un fiato sospeso che non mi sa più dire.
E buonanotte alle parole e al sogno.


Parti in fretta e lentamente ritorna


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Ilaria Guccione, Impressioni di novembre (Palermo, novembre 2013)

Quando sarete uomini, partirete sempre. Partirete a piedi, a cavallo, partirete sul mare, nell’aria. Partirete perché vi aspetta qualcosa o perché voi aspettate qualcosa, e tanti nomi avrà la partenza: da attesa a desiderio, a bisogno, a tradimento, a distacco, a paura, a coraggio, perché infinite come questi petali sono le partenze, uno solo è il ritorno.
(Da: Roberto Vecchioni, Prologo, in Viaggi del tempo immobile)

Henri Bergson partì che stava tornando: il cuore scavalcò l’orologio e da lui in poi il tempo fu finestra, non percorso; la durata si fece esposizione di colore. Troppo breve l’eternità di una gioia, infinito un attimo di dolore.
(Da: Roberto Vecchioni, Le partenze, in Viaggi del tempo immobile)

Devo aver confuso qualche sillaba, parecchio tempo fa. Devo aver frainteso qualche parola, un paio di monosillabi almeno e di sicuro il senso di qualche domanda. Da uno a tre verbi capovolti di senso nelle interferenze del telefono.
Bisognava che facessi un po’ di strada, dall’andata al ritorno, per capire meglio e capire –fino a vomitarmi il senso e invertirmi nuovamente il passo- di aver scambiato un segnale di pericolo per un invito.
(E dice che lei torna. Lo sapevi? Questione di strada e di fretta. Bisognerebbe raccontarle la storia, occorrerebbe dirle del campo minato e delle luci che si accendono di giorno sempre in numero dispari. Dici che se ne accorge da sola? Ma sì lasciamo stare, rimaniamo a guardare dall’altro lato della strada, che salti in aria da sola.)
Sogno ancora quel sogno in cui lei si rintanava a piangere in bagno e poi la portavano via a forza di camicia. E di nuovo quella telefonata che mi risuona accanto al letto. E’ lei che parla urla piange urla parla e aggiunge peso al peso dicendo che non può. Scappare non si può. Ci sono quelli che parlano. Nella sua testa parlano. E non sa da dove siano sbucati fuori. Si appostano dietro di lei perché non se ne accorga, la seguono a ogni istante e si prendono gioco di lei e le proiettano insulti intermittenti alle spalle. Cade la linea, cade il telefono, si guasta tutto. Controllori di ogni pensiero, l’accendono e la spengono. Ma lei non ci sta e allora si cortocircuita da sé.
“Non tornare. Scappa. Hanno detto che non devi venire fin qui. Vattene perché farai anche tu una brutta fine, come me.” Ecco. L’aveva detto, è vero. Ma a confondere il giorno con la notte ci stai un attimo se sei costretta a quel telefono mentre quella urla piange urla e ti ripete “Cancella ogni traccia, sparisci. Anche se alla fine loro ti troveranno lo stesso, tu sparisci. E’ tutta colpa mia, dicono. Ma io non ho fatto niente.” Piange urla piange.
Poi cambia tono che fa spavento e mi dice che è anche colpa mia. Perché io sono d’accordo con loro, io sono in contatto con loro, io devo farmi dire da loro cosa vogliono. Lo scaldabagno salta, la radio si brucia, e poi lei è vedova di guerra, è tutta colpa di Bush e dei suoi dannati missili.
Poi cambierà ancora tono che per me sarà grave di tormento per infinite volte gridando che la colpa è tutta mia.
E’ che c’era un buco nella sua testa e uno lo sparò sulla mia gamba sinistra ed io che continuavo ancora ad arrivare col passo zoppo e il respiro corto per non perdermi di tempo e di pazienza.
Se passa lei non passo io. Il nostro spazio non coincide. Sono stanca di ripeterglielo girando intorno ad un tavolo traballante di parole e spostando a ogni giro il posacenere sbreccato dal malumore. Come la tua testa. Ecco, l’ho detto. Lei ha un buco nella testa che non mi appartiene. E quello che lo attraversa ogni notte è solo roba sua. E allora io vado. E scusa che non ho tempo neanche per un saluto. Lascio tutto sul tavolo, fotocopie, fotografie e appunti e soprattutto quei miei fottuti sogni. La nostalgia me la ritroverò poi in tasca quando riuscirò a frugarmi dentro con calma. Ci troverò lacerazioni di penna e inchiostro bruno e lacrime di biacca. Non mi do tempo neanche per l’ascensore, volo via per due piani fino al giardino e all’ingresso. Ancora trentasette passi correndo e sarò fuori.
(E dice che lei se n’è andata. Lo sapevi? Questione di vita e di fretta. L’ha capita da sé la storia, alla fine c’è arrivata. Da un campo minato all’altro cerca un marciapiede buono per andar lontano.)
Devo aver poi confuso di nuovo qualcosa, poco tempo fa. Devo aver frainteso qualche parola, un centinaio di sorrisi almeno e di sicuro il senso dei tuoi occhi. Da uno a tre baci capovolti di senso nelle interferenze di ogni abbraccio.
Pronomi personali e aggettivi possessivi che hanno giocato al bisticcio. Colpa di quelle interferenze maledette che si danno tra mittente e destinatario, destinazione e destino che litigano per giocarsi qualche lettera e il senso.
Bisognava che facessi nuovamente quel po’ di strada, dal ritorno all’andata, per capire meglio e non capire –fino a vomitarmi il senso e invertirmi nuovamente il passo- di aver scambiato un divieto d’accesso per un invito.
(E dice che lei sta cadendo. E guarda che lo vedi che sta scivolando. E dice che è meglio se la butti giù con un calcio, lì. Invece di tenerla per mano che poi ci crede che non la stai lasciando, lì. E dice che eri l’unica ombra, ben camuffata, a seguirvi in una giornata assolata. E dice che era meglio se glielo dicevi, lì. Che tu non esisti, qui. Perché dopo è impossibile crederci. Con quelle tue ombre che si complicano. E’ la peggiore caduta che le potessi regalare.)
Spazio che non è spazio che non mi lasci spazio perché tu non ci fai dentro neanche un passo. Spazio che non ha nome e non ha colore, spazio che ci fai buio, così ci puoi anche passare e dirti che hai sbagliato a svoltare. Passo che ci ripasso da quello spazio. Anche se non voglio mi ci imbatto, non ho bisogno di chiederti il permesso e lo percorro e mi contrasto, contando alla cieca ogni mio passo. Spazio che tu tieni vuoto ma è pieno che straripa. Ci sento risuonare le mie suole che calpestano parole. Cade qualcosa in questo vuoto e qualcos’altro accade. E’ il gioco della polvere sulle pareti, tutto rimane al tatto. Perdo il conto dei graffi. Piovono pezzi di intonaco che mi pesano nostalgia.













mercoledì 20 novembre 2013

In tre tempi

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Ilaria Guccione, Tre per due (Palermo, giugno 2013)

Il tempo è elastico e così la sua attesa, finché ci si aspetta. Finché non ci si spezza e non si giunge, chi ancora dolente e chi indolente ormai, alla resa.
Bisognerebbe studiarlo bene, il tempo. E il tempo dentro il tempo e il tempo speso bene e quello andato a male e il tempo infinito del sospeso e quello becero del malinteso.
Bisognerebbe navigarlo il tempo ma solo se lo si sa annotare. Per sopravvivere ad ogni tempesta che finisce per puzzar d'inganno e tener per sé tutto quel tempo che ha regalato incanto.

PASSATO REMOTO
Tra loro, ospiti distratti di occasioni mancate, tutto avvenne con puntuale ritardo: si consumarono così buone maniere e fantasie slavate e fiori di gesso, che quelli son sempre buoni per tirarseli addosso.
Sopravvissero soltanto nascondigli improbabili per scuse sbiadite dal latitar di voce e scuse.
Lui fu fante dai troppi cuori accesi, lei regina dai mille dolori sottintesi.

PASSATO PROSSIMO
Una decina di cattivi ricordi  s’inchiodarono alle assi di un portone per conservare impronta di ciò che loro non sarebbero mai stati. Tiratura media, matrice malamente lavorata e ormai biffata. Nessun capolavoro possibile tra loro: lui s’era sempre professato un uomo giusto e lei l’aveva eletta a ipotesi da consumarsi i giorni di festa.
I loro segni non hanno mai coinciso se non per incrociarsi un giorno a un bivio.

IMPERFETTO PRESENTE
Lei campa come può, tu dalla panca del per ora mi conviene non ti schiodi neanche i giorni di pioggia.
Lei potrebbe falciarti senza alcun preavviso ma continua a  sognarti sottovoce eppure ti nasconde il viso. E con quel cuore rattoppato che te lo presta ma solo per la sera giocaci pure come fosse svagato passatempo, un cappello fuori moda, un vestito troppo stretto, una calza smagliata dal troppo tirare nei giorni  scaduti del riso.
Ma il tempo per fortuna sa viaggiare: mentre vi coniugate imperfetti nel presente, lei si occlude e tu ti espandi assente, ti serra nel baule delle memorie amare.

lunedì 18 novembre 2013

Infiniti sono i gesti dell’attesa


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Ilaria Guccione, I gesti dell'attesa (Palermo, novembre 2013)

Infiniti sono i gesti dell’attesa e facce sospese  e smorfie esplose ed il giocarsi d’inganno che quasi sempre ti ci perdi e poi ti tocca pagar pegno.
Io che ci giro intorno, tu che rimani fermo. Tu che ti giochi in fiato un motivetto che te lo ricordi a stento, io che batto il marciapiede di fronte e sul tempo ritardato un po’ dissento.
Chi si proietta sulle vetrine in sconto e chi si catapulta sull’universo altro che gli offre l’ultimo modello di cellulare per guadagnarsi un mondo.
Io che mi fisso l’ombra, tu che ti cerchi il sole. Tu che controlli l’ora con indifferenza, io che mi sfoco il passo con insofferenza.
Chi galleggia nel decimo caffè e chi affonda nel primo aperitivo.
Io che conto traballando fino a cento senza saper contare, tu che conti poco e sai come rimanere fiducioso ad aspettare.
Chi si lascia intrattenere dal primo concertino che si fa e chi si lascia scivolare nel primo letto buono che si va.
Tu che ti conti i giorni in base agli anni e ti va bene lo scontato, io che mi conto il senso di giorno in giorno e mi sorprende sempre un dolore inaspettato.
No, non parlatemi. Bisognerebbe ritrovare le giuste solitudini, stare in silenzio ad ascoltare.


sabato 16 novembre 2013

Un bacio. Ed è lungi.


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Ilaria Guccione, I baci non scioperano (Palermo, novembre 2013)

E’ una febbre, un delirio. Che cosa? La vita, che diamine: “fever called living”; è come la febbre, oscura. Accenna talvolta ad alcunché di fiato, sembra proporre uno svolgimento e una conseguenza, ma son momenti.
Dicono che l’annegato, nell’attimo supremo, coi suoi occhi morenti, veda svilupparsi il rotolo veloce della trascorsa esistenza: no, la vera immagine della vita è questa, per esempio questa che della mia mi giunge a raffiche, dalle quali sarebbe difficile, vano, cavare od astrarre un’alleanza, una parentela, e le quali sarebbe vano voler comporre in unico vento.
(Da: Tommaso Landolfi, Un amore del nostro tempo)

Eppure io quel bacio me lo ricordo ancora. Ma non saprei come raccontarlo. Ho fallato il tempo per segnar parole, sforato lo spazio disponibile per raccoglierle e portarle via e riascoltarle con calma. E poi pensavo che il tempo non m’avrebbe tradito, lasciandomi su un marciapiede improprio a chiedere la strada per tornare.
Lenta lenta che il piede me lo sollevavo a stento e di strada davanti ne avevo tanta, ché dovevo arrivare fino all’Eur.
Mi sorprese un’eclisse di senso, l’appuntamento con ogni possibile parola fu mancato, mi rimase solo uno stupore zoppicante nel silenzio della sera.

Un bacio. Ed è lungi. Dispare/giù in fondo, là dove si perde/la strada boschiva che pare/un gran corridoio nel verde.*

* Guido Gozzano.

Della follia di Orlando


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Ilaria Guccione, Quel puparo d'un gatto (Palermo, novembre 2013)

Oggi ho inseguito un matto per strada, uno di quelli che se sei di questa città non puoi non avere incontrato almeno una volta per via. Quand’ero parecchio giovane e mi capitava di arrivare in centro storico che sembrava davvero di essere lontani da tutto, cambiavo marciapiede, ché con quello sguardo torvo e quel suo dire a se stesso che non si capiva, mi faceva davvero paura.
E ora che in centro storico mi gioco i passi e il conto degli anni l'ho perso e non mi bastano le dita per contare i matti che ho imparato, nessuno mi spaventa più ed ecco che lo incontro e mi appare stanco, lento di una lentezza che sarà colpa dagli anni e di tutto quel girare.
E così, scommettendo di traversa in traversa, gli ero già davanti, ché col suo passo ciondolante non ci avevo messo niente e la via dei matti chissà com'è che la so sempre.
E son tornata poi indietro o forse andata avanti. Imboccata la via dei pupari, mi è venuto incontro un gatto.
Mi sono inginocchiata con quegli stivali che oggi erano fuori tempo eppure ieri il freddo ed in ginocchio anche il mio tempo appresso che oggi me lo trascinavo lento. E il gatto ad annusarmi, a strusciarsi e saltarmi sul ginocchio e a dirmi: voglio cantarti di Angelica la bella che fuggiva per infiniti mondi pur di non farsi catturare, ché io so tutto anche se qui tra i pupi non mi fanno mai entrare. E voglio raccontarti di quell’Orlando e della sua follia giocata in metri. Che non fu d’amore la condanna e non bastò Astolfo a ripagare quel senno perduto. Per un Orlando che si salva, qualcun altro paga e per salvarsi vaga e non c'è letteratura o verso che lo possa trattenere.

venerdì 15 novembre 2013

Anima bella e quel suo specchio infranto


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Ilaria Guccione, Brasil (Palermo, novembre 2012)
 
Anima bella che non sapeva dove andare e allora si trattenne il passo per mille anni ancora ad aspettare.
Sparse ricordi di ghiaia perché la si potesse ritrovare ma dopo tutta quell’attesa si perse di speranza e si provò alla cieca a rincasare.
Attraversò deserti di parole altrui, mostri sbilenchi e vuoti eppure strasicuri di esser saldi come ogni niente a dispensar certezze e buonumore a tutti quegli idioti che solo loro sapevano pregare ed ascoltare.
E tutti a rimanere fermi senza neanche un'eco da ascoltare mentre lei voleva soltanto ritornare.
Scelse per sé il silenzio ed il guardar lontano ma si dovette pizzicare il fianco e la gola per non farsi troppo male.
Regalò infine fiato e fumo a quel suo vecchio specchio infranto dal saperla lieta e poi disfatta, poi ancora lieta e nuovamente stracca, che le ridava il sentimento e il senso ad ogni suo ritorno.


mercoledì 13 novembre 2013

Nessun rimpianto però alle volte il pianto

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Ilaria Guccione, Donne che vanno, donne che restano (Palermo, novembre 2013)

Andavo. A una velocità che il fiato te lo taglia. Andavo che era tardi, correvo a colpi di orologio ma non avrei voluto raggiungere la soglia che mi aspettava impietosa ma cortese. Sai com’è, a volte la paura. Sai com’è, a volte le cose della vita che non capisci perché proprio a te ma non puoi farci niente.
Mi raggiunse all’improvviso come un’immagine improbabile, come un ricordo falsato eppure così reale da poterlo toccare, come una scena da film eppure. Vedevo anche me come non avrei dovuto ma non avevo tempo per pensare o per rimproverare la memoria, se non quello solito della mia strada, che ovunque sia prima o poi devo arrivare.
Saremo reali almeno in una foto di qualcuno che come me spende tempo ed occhi a fermar tempo e raccontare storie.
Passai da una piazza del sentimento ormai passata a quella del presente, ché il volersi tanto bene non serve proprio a niente. Regalai un sorriso alla distanza ormai breve e a quella infinita del ricordo, ingoiai quel po’ di lacrime che si confuse con la pioggia lieve, mi dissi qualcosa per consolarmi, che nella fretta dell’andare non ebbi il tempo di capire. O forse è solo che stasera non te lo voglio proprio dire.


martedì 12 novembre 2013

Come fa rumore ogni addio


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Ilaria Guccione, Lui che passava per la Felice Porta, un dì di festa (Palermo, luglio 2013)

Foglia non cade ancora ma scivola pioggia. Stillano ricordi che te li ritrovi a galleggiare disperati sull’asfalto bagnato, vorrebbero salvarsi ma pesano troppo, boccheggiano, affondano nel fango di giorni nuovi che non sanno.
Io. Che ho la faccia stordita e distorto il sorriso dal capogiro dell’assenza.
Io. Che ho l’indirizzo del tutto va bene ormai smarrito e vallo a ripescare sotto un cielo indispettito da questo nostro tempo cattivo che non lo liberiamo mai come vorrebbe.
Io. Che ho un solo piano di fuga con una scala sotterranea di disaccordi tanti, che non contempla mai la strada dell’oblio.
Tu. Senti come vibra oggi il silenzio, senti come fa rumore ogni addio.


venerdì 8 novembre 2013

Giocarsi a carte scoperte


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Ilaria Guccione, Mancarsi gli occhi (Palermo, novembre 2013)

Lei gli ostentava i suoi begli occhi bassi, e non era dispetto né paura ma il ripassarsi con coraggio del commiato l'andatura.
Lui le cercava ripetutamente il viso, per riproporle compromessi noti come fossero un regalo inaspettato e perché lei gli ammirasse il suo sorriso becero e ostinato.
Lei scivolò un istante sui soliti pensieri accesi, si ritrovò scottata e canticchiò alla punta delle scarpe quella vecchia canzone con la sua andatura stonata.
Lui disse guarda che domani io e poi dopodomani noi. Ma insomma tu. Perché non mi guardi più? Perché lo sai che io. Ciononostante noi. Ma insomma tu. Perché cazzo non vuoi guardarmi più?
E’ che lei, a furia di giocarsi sempre a carte scoperte, ormai sentiva un freddo da farle crepare il cuore. E allora continuò a cantare lentamente quella canzone, che sapeva scaldarla più di qualsiasi bottiglia.
Gli lasciò frettolosa sul tavolo un due di picche con il bicchiere mezzo pieno e il conto da pagare, ché lo sapeva bene ormai: soltanto quello lui era in grado di saldare.
Lui la rimpianse tanto ma proprio tanto: il tempo che durò tra loro quell'imprevisto e rapido saluto.


giovedì 7 novembre 2013

Di Sosia in sosia

Ilaria Guccione, Somiglianze? (Palermo, novembre 2013)



No, questo era un altro Goljadkin, assolutamente un altro, ma nello stesso tempo identico al primo: la stessa statura, la stessa figura, vestito allo stesso modo, con la stessa calvizie; in una parola niente, assolutamente niente era stato trascurato per avere una somiglianza perfetta, tanto che, se si fossero presi e messi uno accanto all’altro, nessuno, letteralmente nessuno, avrebbe osato dire chi fosse realmente l’autentico Goljadkin e chi il falso, quale il vecchio e quale il nuovo, quale l’originale e quale la copia.
(Da: Fedor Dostoevskij, Il sosia)

Sosia. Dicono che sia uno che ti somiglia tanto ma così tanto ma proprio tanto che potrei scambiarlo per te.
E tu intanto mi dici che io di te ho conosciuto solo il tuo sosia che ora se n'è andato chissà dove e io allora mi dico chissà se a parlare ora sei tu o il sosia del tuo sosia o un altro sosia ancora. Forse sei proprio come Sosia che, pur di non prendere ancora botte dal suo sosia, cominciava a dubitare di essere se stesso. E ci provava a giurare su Giove che lui era lui e non diceva mica il falso ma il suo sosia gli rispondeva d'esser pronto a giurare su Mercurio che Giove non gli avrebbe mai creduto. E aveva ragione da vendere, perché il sosia di Sosia altri non era che Mercurio, che aveva assunto le sembianze del povero schiavo di Anfitrione. Mentre Giove se la spassava con Alcmena la quale pensava di concedersi al vero Anfitrione, cioè suo marito.

La mattina lei entrava in classe barcollando leggermente sui tacchi e con la sigaretta già accesa tra le labbra. Piccola, le borse sotto gli occhi che erano tratteggiati sempre a nero. Aveva gambe sottili e una pancia prominente. Erano forse quei bicchierini di amaro che riempiva e svuotava in un lampo aprendo e chiudendo un vecchio mobile a chiave, per nascondere al marito la bottiglia. Non sopravvisse molto alla mia licenza liceale, appena qualche anno, eppure era la più giovane dei miei docenti, era più giovane di me adesso, quando arrivava con quel suo passo oscillante ed il sorriso spartito con la sigaretta. Passava le ore di lezione camminando per l'aula e fumando, passando dal greco al latino al sanscrito, tirando a sorte le vittime da interrogare coi numeri della tombola. Un giorno portò l'Anfitrione di Plauto e cominciò a leggere, anzi: a recitare, saltellando allegra tra latino e italiano, tra un personaggio e l’altro.

Che sia una tragicommedia, fa dire Plauto a Mercurio nel prologo dell’Anfitrione. Una tragedia che un dio sa bene come mutare in commedia senza cambiare neanche una battuta. Come tutto questo folle andare, questo continuo giocare a scambiarsi i ruoli, invertire le battute, rigirarsi il senso delle frasi più chiare. Fingere di non capire, sbattere la testa contro qualunque muro e dirsi che nessuno si è fatto male. Provarsi infine a scegliere una risata che sappia almeno un po’ d’intelligente per non dover ammettere di non aver capito niente. Per non chiedere spiegazioni, per non spendersi in scuse e potere andare altrove a ricominciare, tirando fuori le stesse battute. Tentare di salvarsi in extremis, giocandosi l’onestà dei gesti andati dicendo falso quell’essersi somigliati tanto.
 
Fai attenzione però che non ti capiti di imbatterti nel tuo sosia come successe a quel povero diavolo di Jakòv Petrovic’ Goljadkin, che si rivelò essere il suo peggior nemico, tra tutti quelli inesistenti che già aveva da affrontare. Ché quel suo sosia crudele era se stesso e lui finì ricoverato, continuando ad esser matto.





domenica 3 novembre 2013

Quel posto chiamato nostalgia


SanDomenico
Ilaria Guccione, Saudade (Palermo, settembre 2013)

In greco “ritorno” si dice nòstos. Álgos significa “sofferenza”. La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare. Per questa nozione fondamentale la maggioranza degli europei può utilizzare una parola di origine greca (nostalgia, nostalgie), poi altre parole che hanno radici nella lingua nazionale: gli spagnoli dicono añoranza, i portoghesi saudade. In ciascuna lingua queste parole hanno una diversa sfumatura semantica. Spesso indicano esclusivamente la tristezza provocata dall’impossibilità di ritornare in patria. Rimpianto della propria terra. Rimpianto del paese natio. Il che, in inglese, si dice homesickness. O in tedesco Heimweh. In olandese: heimwee. Ma è una riduzione spaziale di questa grande nozione. Una delle più antiche lingue europee, l’islandese, distingue i due termini: söknudur: “nostalgia” in senso lato; e heimfra: “rimpianto della propria terra”. Per questa nozione i cechi, accanto alla parola “nostalgia” presa dal greco, hanno un sostantivo tutto loro: stesk, e un verbo tutto loro; la più commovente frase d’amore ceca: stỳskà se mi po tobě: “ho nostalgia di te”; “non posso sopportare il dolore della tua assenza”. In spagnolo, añoranza viene dal verbo añorar (“provare nostalgia”), che viene dal catalano enyorar, a sua volta derivato dal latino ignorare. Alla luce di questa etimologia, la nostalgia appare come la sofferenza dell’ignoranza.  Tu sei lontano, e io non so che ne è di te. Il mio paese è lontano e io non so cosa succede laggiù.
(Milan Kundera, da: L’ignoranza)

Nostalgia è questo non sapersi il giorno del ritorno.
Immaginarsi mille volte il gesto del saluto, l’incontro rinnovato, le antiche geometrie di un abbraccio, il battito del cuore accelerato, l’odore dell’erba impregnata delle memorie ambigue della notte.
Prendere appunti, intanto. Sperare di riconoscersi tra i piedi la strada che sa di casa inchiodandoci i ricordi come cartelli, aggrapparsi ai sassi, alle crepe delle case, al cielo stordito dal tramonto, ridisegnarsi un sorriso antico che allo specchio continua a salutarci straniero.
E lui che finalmente scorse la strada del ritorno, si regalò il passo cieco del silenzio fino a raggiungere vendetta e donna e regno. Ma fu un approdo di momentanea quiete, ché già pensava a regalare al mare e a sé nuova partenza.
Ed io che dopo anni mi portai a forza sotto quel balcone, armata di dolore e malcontento, alzai lo sguardo verso quel cielo che minacciava di parlar di pioggia e mi ritrovai pronta per mille altri viaggi. Fu come incappare in un sorriso che mi sapevo già e che avrei ancora incontrato in chissà quanti ritorni.