Spider-Boy

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giovedì 7 novembre 2013

Di Sosia in sosia

Ilaria Guccione, Somiglianze? (Palermo, novembre 2013)



No, questo era un altro Goljadkin, assolutamente un altro, ma nello stesso tempo identico al primo: la stessa statura, la stessa figura, vestito allo stesso modo, con la stessa calvizie; in una parola niente, assolutamente niente era stato trascurato per avere una somiglianza perfetta, tanto che, se si fossero presi e messi uno accanto all’altro, nessuno, letteralmente nessuno, avrebbe osato dire chi fosse realmente l’autentico Goljadkin e chi il falso, quale il vecchio e quale il nuovo, quale l’originale e quale la copia.
(Da: Fedor Dostoevskij, Il sosia)

Sosia. Dicono che sia uno che ti somiglia tanto ma così tanto ma proprio tanto che potrei scambiarlo per te.
E tu intanto mi dici che io di te ho conosciuto solo il tuo sosia che ora se n'è andato chissà dove e io allora mi dico chissà se a parlare ora sei tu o il sosia del tuo sosia o un altro sosia ancora. Forse sei proprio come Sosia che, pur di non prendere ancora botte dal suo sosia, cominciava a dubitare di essere se stesso. E ci provava a giurare su Giove che lui era lui e non diceva mica il falso ma il suo sosia gli rispondeva d'esser pronto a giurare su Mercurio che Giove non gli avrebbe mai creduto. E aveva ragione da vendere, perché il sosia di Sosia altri non era che Mercurio, che aveva assunto le sembianze del povero schiavo di Anfitrione. Mentre Giove se la spassava con Alcmena la quale pensava di concedersi al vero Anfitrione, cioè suo marito.

La mattina lei entrava in classe barcollando leggermente sui tacchi e con la sigaretta già accesa tra le labbra. Piccola, le borse sotto gli occhi che erano tratteggiati sempre a nero. Aveva gambe sottili e una pancia prominente. Erano forse quei bicchierini di amaro che riempiva e svuotava in un lampo aprendo e chiudendo un vecchio mobile a chiave, per nascondere al marito la bottiglia. Non sopravvisse molto alla mia licenza liceale, appena qualche anno, eppure era la più giovane dei miei docenti, era più giovane di me adesso, quando arrivava con quel suo passo oscillante ed il sorriso spartito con la sigaretta. Passava le ore di lezione camminando per l'aula e fumando, passando dal greco al latino al sanscrito, tirando a sorte le vittime da interrogare coi numeri della tombola. Un giorno portò l'Anfitrione di Plauto e cominciò a leggere, anzi: a recitare, saltellando allegra tra latino e italiano, tra un personaggio e l’altro.

Che sia una tragicommedia, fa dire Plauto a Mercurio nel prologo dell’Anfitrione. Una tragedia che un dio sa bene come mutare in commedia senza cambiare neanche una battuta. Come tutto questo folle andare, questo continuo giocare a scambiarsi i ruoli, invertire le battute, rigirarsi il senso delle frasi più chiare. Fingere di non capire, sbattere la testa contro qualunque muro e dirsi che nessuno si è fatto male. Provarsi infine a scegliere una risata che sappia almeno un po’ d’intelligente per non dover ammettere di non aver capito niente. Per non chiedere spiegazioni, per non spendersi in scuse e potere andare altrove a ricominciare, tirando fuori le stesse battute. Tentare di salvarsi in extremis, giocandosi l’onestà dei gesti andati dicendo falso quell’essersi somigliati tanto.
 
Fai attenzione però che non ti capiti di imbatterti nel tuo sosia come successe a quel povero diavolo di Jakòv Petrovic’ Goljadkin, che si rivelò essere il suo peggior nemico, tra tutti quelli inesistenti che già aveva da affrontare. Ché quel suo sosia crudele era se stesso e lui finì ricoverato, continuando ad esser matto.





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