Spider-Boy

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venerdì 22 novembre 2013

Parti in fretta e lentamente ritorna


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Ilaria Guccione, Impressioni di novembre (Palermo, novembre 2013)

Quando sarete uomini, partirete sempre. Partirete a piedi, a cavallo, partirete sul mare, nell’aria. Partirete perché vi aspetta qualcosa o perché voi aspettate qualcosa, e tanti nomi avrà la partenza: da attesa a desiderio, a bisogno, a tradimento, a distacco, a paura, a coraggio, perché infinite come questi petali sono le partenze, uno solo è il ritorno.
(Da: Roberto Vecchioni, Prologo, in Viaggi del tempo immobile)

Henri Bergson partì che stava tornando: il cuore scavalcò l’orologio e da lui in poi il tempo fu finestra, non percorso; la durata si fece esposizione di colore. Troppo breve l’eternità di una gioia, infinito un attimo di dolore.
(Da: Roberto Vecchioni, Le partenze, in Viaggi del tempo immobile)

Devo aver confuso qualche sillaba, parecchio tempo fa. Devo aver frainteso qualche parola, un paio di monosillabi almeno e di sicuro il senso di qualche domanda. Da uno a tre verbi capovolti di senso nelle interferenze del telefono.
Bisognava che facessi un po’ di strada, dall’andata al ritorno, per capire meglio e capire –fino a vomitarmi il senso e invertirmi nuovamente il passo- di aver scambiato un segnale di pericolo per un invito.
(E dice che lei torna. Lo sapevi? Questione di strada e di fretta. Bisognerebbe raccontarle la storia, occorrerebbe dirle del campo minato e delle luci che si accendono di giorno sempre in numero dispari. Dici che se ne accorge da sola? Ma sì lasciamo stare, rimaniamo a guardare dall’altro lato della strada, che salti in aria da sola.)
Sogno ancora quel sogno in cui lei si rintanava a piangere in bagno e poi la portavano via a forza di camicia. E di nuovo quella telefonata che mi risuona accanto al letto. E’ lei che parla urla piange urla parla e aggiunge peso al peso dicendo che non può. Scappare non si può. Ci sono quelli che parlano. Nella sua testa parlano. E non sa da dove siano sbucati fuori. Si appostano dietro di lei perché non se ne accorga, la seguono a ogni istante e si prendono gioco di lei e le proiettano insulti intermittenti alle spalle. Cade la linea, cade il telefono, si guasta tutto. Controllori di ogni pensiero, l’accendono e la spengono. Ma lei non ci sta e allora si cortocircuita da sé.
“Non tornare. Scappa. Hanno detto che non devi venire fin qui. Vattene perché farai anche tu una brutta fine, come me.” Ecco. L’aveva detto, è vero. Ma a confondere il giorno con la notte ci stai un attimo se sei costretta a quel telefono mentre quella urla piange urla e ti ripete “Cancella ogni traccia, sparisci. Anche se alla fine loro ti troveranno lo stesso, tu sparisci. E’ tutta colpa mia, dicono. Ma io non ho fatto niente.” Piange urla piange.
Poi cambia tono che fa spavento e mi dice che è anche colpa mia. Perché io sono d’accordo con loro, io sono in contatto con loro, io devo farmi dire da loro cosa vogliono. Lo scaldabagno salta, la radio si brucia, e poi lei è vedova di guerra, è tutta colpa di Bush e dei suoi dannati missili.
Poi cambierà ancora tono che per me sarà grave di tormento per infinite volte gridando che la colpa è tutta mia.
E’ che c’era un buco nella sua testa e uno lo sparò sulla mia gamba sinistra ed io che continuavo ancora ad arrivare col passo zoppo e il respiro corto per non perdermi di tempo e di pazienza.
Se passa lei non passo io. Il nostro spazio non coincide. Sono stanca di ripeterglielo girando intorno ad un tavolo traballante di parole e spostando a ogni giro il posacenere sbreccato dal malumore. Come la tua testa. Ecco, l’ho detto. Lei ha un buco nella testa che non mi appartiene. E quello che lo attraversa ogni notte è solo roba sua. E allora io vado. E scusa che non ho tempo neanche per un saluto. Lascio tutto sul tavolo, fotocopie, fotografie e appunti e soprattutto quei miei fottuti sogni. La nostalgia me la ritroverò poi in tasca quando riuscirò a frugarmi dentro con calma. Ci troverò lacerazioni di penna e inchiostro bruno e lacrime di biacca. Non mi do tempo neanche per l’ascensore, volo via per due piani fino al giardino e all’ingresso. Ancora trentasette passi correndo e sarò fuori.
(E dice che lei se n’è andata. Lo sapevi? Questione di vita e di fretta. L’ha capita da sé la storia, alla fine c’è arrivata. Da un campo minato all’altro cerca un marciapiede buono per andar lontano.)
Devo aver poi confuso di nuovo qualcosa, poco tempo fa. Devo aver frainteso qualche parola, un centinaio di sorrisi almeno e di sicuro il senso dei tuoi occhi. Da uno a tre baci capovolti di senso nelle interferenze di ogni abbraccio.
Pronomi personali e aggettivi possessivi che hanno giocato al bisticcio. Colpa di quelle interferenze maledette che si danno tra mittente e destinatario, destinazione e destino che litigano per giocarsi qualche lettera e il senso.
Bisognava che facessi nuovamente quel po’ di strada, dal ritorno all’andata, per capire meglio e non capire –fino a vomitarmi il senso e invertirmi nuovamente il passo- di aver scambiato un divieto d’accesso per un invito.
(E dice che lei sta cadendo. E guarda che lo vedi che sta scivolando. E dice che è meglio se la butti giù con un calcio, lì. Invece di tenerla per mano che poi ci crede che non la stai lasciando, lì. E dice che eri l’unica ombra, ben camuffata, a seguirvi in una giornata assolata. E dice che era meglio se glielo dicevi, lì. Che tu non esisti, qui. Perché dopo è impossibile crederci. Con quelle tue ombre che si complicano. E’ la peggiore caduta che le potessi regalare.)
Spazio che non è spazio che non mi lasci spazio perché tu non ci fai dentro neanche un passo. Spazio che non ha nome e non ha colore, spazio che ci fai buio, così ci puoi anche passare e dirti che hai sbagliato a svoltare. Passo che ci ripasso da quello spazio. Anche se non voglio mi ci imbatto, non ho bisogno di chiederti il permesso e lo percorro e mi contrasto, contando alla cieca ogni mio passo. Spazio che tu tieni vuoto ma è pieno che straripa. Ci sento risuonare le mie suole che calpestano parole. Cade qualcosa in questo vuoto e qualcos’altro accade. E’ il gioco della polvere sulle pareti, tutto rimane al tatto. Perdo il conto dei graffi. Piovono pezzi di intonaco che mi pesano nostalgia.













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