Spider-Boy

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lunedì 2 dicembre 2013

La morte non la puoi fotografare


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Ilaria Guccione, Vietato fumare (Palermo, luglio 2013)

Fra il gruppetto ad un tratto si fece largo una giovane signora; snella, con un vestito marrone da viaggio ad ampia tournure, con un cappello di paglia ornato da un velo a pallottoline che non riusciva a nascondere una maliziosa avvenenza del volto. Insinuava una manina guantata di camoscio fra un gomito e l’altro dei piangenti, si scusava, si avvicinava. Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’orario di partenza del treno doveva essere vicino. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo, e così, pudica, ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari.
Il fragore del mare si placò del tutto.
(Giuseppe Tomasi di Lampedusa, da: Il Gattopardo)

Venivamo dalla via dei matti, in una giornata di caldo pieno, per raggiungere i morti e quel loro trionfo sotterraneo e storto e appeso che risponde al nome di catacombe dei Cappuccini, quell’ostensione di corpi consunti e paglia a fuoriuscire dagli abiti lisi e nomi in parte noti e in ogni caso nomi e nomi e date ad attraversare secoli e ufficiali dai baffi cadenti, vergini in abito da sposa che s’è fatto camicia da eterna notte, bambini ossa di vetro in casse condivise.
(E provati a pensarli quando sembravano essere lì sospesi per eccesso di sonno e come stai, Salvatore? Aspetta che ti spolvero il vestito e Annuccia mia, non ti muovere troppo che ti riavvio i capelli.)
Dopo avere riguadagnato la luce agli occhi, entrammo nella Selva che selva non è più da tempo ma cittadella funeraria in superficie.
Mi sa dire dov’è la sepoltura di Tomasi di Lampedusa? Il custode n. 1 chiamò il custode n. 2 che ci guidò sicuro, ma da quell’incespicare sul nome capimmo che la sua unica certezza era spaziale.
Sostammo davanti a quel marmo, il più silenzioso in quel luogo di silenzio, che sembrava fare l'eco a quell'amore per la solitudine, quel circondarsi più di cose che di persone che lo aveva accompagnato dall'infanzia. Ma c'era anche quel senso di abbandono che sapeva di lettere in nero a perdere, a cui fa da contraltare quel libro postumo che trovi dappertutto e tutto quel blablabla intorno a farci convegni e festeggiamenti, proprio quel libro che una decina d'anni fa avevo regalato a Roma all'amica francese che in quel giorno di fine luglio era con me davanti alla tomba.

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Ilaria Guccione, La sepoltura di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e di sua moglie (Palermo, luglio 2013)

Girammo ancora un po’ e ci fermammo ad osservare un uomo, occhi inchiodati a una parete fitta di foto e fiori e voce che dal mormorio di una probabile preghiera andò crescendo in urla da maledizione. Ci guardammo in uno stupore a tratti divertito e raggiungemmo l'uscita.

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Ilaria Guccione, Ospiti del cimitero dei Cappuccini (Palermo, luglio 2013)

E la morte, la morte dov'era finita o quand'era iniziata? Perché lo inseguiva fino a farlo fuggire, che poi era l'unico stratagemma possibile perché lui le andasse incontro?
Il fotografo la prima volta si salvò perché le aveva scattato una foto. Si illuse poi di riconoscerla, morte di ossa a cavallo, morte di peste e di frecce fissata su intonaco nella sua eterna corsa, morte che dal muro di un ospedale si era ritrovata dentro un museo perché la si potesse guardare. Ma che la morte non la puoi fotografare fu lei stessa a tempo debito a dirglielo e a farglielo provare.







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