Ilaria Guccione, Alla Kalsa, dopopranzo (Palermo, dicembre 2012) |
Inverno è tanto maschio quanto femmina. E' sempre vecchio,
canuto e pieno di rughe tra viso e collo, perché arriva che ormai l’anno è parecchio
vecchio e stanco. Può appoggiarsi a un bastone, vestire di panni o di pelle e
siede vicino al fuoco e mangia. Roba da allegorie tra le righe di Cesare Ripa.
Qui inverno
arriva che non sembra neanche inverno. Si stende per strada, si scalda a
sole e chiacchiere e roba stesa. E’ tempo che non pare stanco, di certo
è tempo lento. Che se ci torni l'indomani, ti ci ritrovi ancora. Roba da vecchi a Palermo seduti a due passi dal mare.
Come
si misura il tempo? E dai, dimmi come si misura il tempo. Da quando non
mi addormento a quando non mi sveglio? Dai giorni che passano da
calendario, dal numero di passi che fai perché qualche ombra ti nasconda
alla vista altrui? In rughe e rimedi per nascondersi il viso e gli anni, in
raccolte punti in ogni negozio che incontri, in buoni sconto per non smettere mai di comprarti, nell’obliterarsi sempre qualcosa dal
mattino alla sera?
Come ci si misura questo cazzo di tempo? E come lo si ferma quando hai bisogno che si fermi qualcos’altro?
Mi rispondo che lo so misurare solo in passi e cadute e parole.
La
sospensione non è mai nel tempo ma nelle consonanti garbate che si
dispensano al tavolo della festa o all’inaugurazione di una mostra. Nel
conseguirsi sfilacciato di occasioni consunte - passi scartavetrati da
una danza naufragio. Mentre tenti di levarti di torno ogni rimpianto della domenica, ti guadagni la stupefatta
trappola di un vicolo soleggiato. Svanisci liquefatto in
un’afona resa, è già tornata l'estate.
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